Robinson, 8 luglio 2024
Storie di cani
Elsa Morante, “La Storia” Tanto per cominciare, so cosa avete fatto ai miei cuccioli. Visto che per voi non valevano niente, che non vi servivano o non li volevate, me li avete tolti e li avete uccisi. Assassinati. E non illudetevi: sapevo perfettamente quanti figli avevo. Ciascuno col suo odore particolare: sette odori, sette cuccioli. Dite che non ero in grado di distinguerli, ma figuriamoci se non li distinguevo. Dentro di me non erano, come vi piace tanto pensare, «certi neri a macchie bianche, certi bianchi a macchie nere, e uno tutto nero con un orecchiuccio bianco». Voi umani, quando pensate ai vostri figli, non pensate al biondo, alla moretta, al rosso. Non lo faccio neppure io. Per me erano tutti preziosi. E i miei figli avevano un nome, non fatto di parole come Ida e Giuseppe, che si ripetono mille volte di casa in casa, di città in città, tanto che una Ida può incontrare un’altra Ida per strada, un Giuseppe un altro Giuseppe sul tram. No: i nomi dei miei cuccioli erano unici come loro.
Non erano una parola ma una preghiera, che il cuore recitava ogni volta che li vedevo, li annusavo, li toccavo. E Antonio, non sapendo «che fare di quei sette miseri bastardi» – e loro non erano bastardi, solo voi umani con le vostre religioni insensate e punitive li concepite come tali – me «li aveva sottratti e mandati segretamente a morire». Mandati segretamente a morire: non vi riporta alla mente qualcosa? I vostri simili che scompaiono di notte senza che li rivediate mai più? E datemi retta, non era un segreto. Non è mai un segreto uccidere i figli d’altri, per quanto ci speriate. E fate come volete, raccontatevi pure che per i cani ogni cucciolata messa al mondo è il ritorno degli stessi figlioletti tanto amati la prima volta, come se ce li aveste soltanto nascosti per un po’ e non assassinati. Mi spiace: non ci crediamo, ma raccontatevi pure il contrario per continuare imperterriti a ucciderci. Lasciateci pure portare in
grembo sette figli, guardateci partorire sette volte, sette cuccioli, guardateci mentre li lecchiamo, li accudiamo e li allattiamo «con passione», e poi sottraeteceli e sopprimeteli.
E la «dolcezza e malinconia speciale» che mi vedevate «negli occhi color nocciola», che vi induceva a pensare che fossi «una vecchia di migliaia d’anni, di memorie antiche e sapienza superiore», che vi induceva a pensare che fossi «un genio quasi divino» : erano tutte cose che proiettavate voi nei nostri ottusi occhi canini per compensare l’ignoranza e stupidità che vi contraddistinguono. Io sono un cane: non sono né intelligente, né triste, né dolce. Non ho né il tempo né il motivo di esserlo. Si perde tempo a essere tristi, a pensare di essere intelligenti o a convincersi che le vostre disoneste frasi fatte passivo-aggressive siano dolci. Voi umani passate parecchio tempo a provare questi sentimenti e altri, più pericolosi e deleteri, quando potreste dormire. Noi cani dormiamo molto, ed è meglio dormire che portare rovina nel mondo, a voi stessi e agli altri. Il sonno, il sonno dei cani, non fa male a nessuno.
Non sono neppure nobile né coraggiosa. Certi miei comportamenti potranno anche sembrarvi dettati dalla nobiltà o dal coraggio, ma vi assicuro che i cani sono mossi solo da ragioni pratiche. Se vi tiriamo fuori dalle fiamme o vi salviamo mentre state per annegare, è soltanto perché dopo potrete darci da mangiare. Ci avete resi dipendenti da voi, come gli schiavi, e scambiate questa dipendenza forzata per fedeltà e affetto. Gli schiavi non amano i loro padroni: è tutta una messinscena, lo scodinzolio. E vi inventate storie per poter meglio credere a questa fandonia. Non voglio contraddire una simile rappresentazione che include anche me – non voglio mordere la mano che mi dà da mangiare – ma devo dirvi alcune cose perché mi vediate con chiarezza, perché mi comprendiate per quella che sono e non per il cane di fantasia che mi tocca incarnare.
Ad esempio, non ho salvato Useppe che stava per annegare. Non è mai caduto nel fiume. A quanto pare, i piccoli gesti che ho compiuto per proteggerlo – la spintarella per allontanarlo dal fuoco, i latrati per distrarlo dall’ape pronta a pungerlo – non erano eroici per i vostri criteri umani, perciò avete inventato delle sciagure quasi fatali. La morte per voi è sempre la disgrazia estrema, l’unica che conta veramente, quando in realtà la morte non conta nulla perché è l’unica cosa che non possiamo sconfiggere. Forse voi pensate di farcela – forse sarà per questo che uccidete con tanta leggerezza e frequenza.
Secondo me nel libro mi avete ucciso per questo. Gli umani uccidono sempre gli animali nei libri che scrivete: avete ucciso Zanna Gialla, Black Beauty, Moby Dick, Minuzzolo il cavallino rosso, e avete ucciso me, Bella, il cane bianco grande come un orso, il pastore maremmano. Perché moriamo sempre alla fine della storia? La morte è l’unica conclusione che riuscite a concepire? Il mondo nasce e muore ogni giorno. Ogni giorno! Gli animali lo sanno: ecco perché gli uccelli aspettano che sorga il sole prima di riscuotersi e mettersi a cantare – aspettano perché il sole potrebbe non sorgere, e un giorno, probabilmente fra breve, non sorgerà. A voi piace piangere alla fine dei vostri libri e allora uccidete i personaggi che avete amato e i nobili animali. Uccidete il ragazzetto epilettico in odore di santità, uccidete la madre menomata e prostrata dalle sofferenze, e uccidete il cane, la figura romantica che avete creato, l’animale che sacrifica sé stesso.
Attenzione, spoiler: non sono morta, almeno nonin quella tragica mattina in via Bodoni, quando è morto il ragazzetto e la madre ha imboccato la fase finale della sua lunga morte. Vi ho detto che non sono coraggiosa. Quando quegli sconosciuti hanno forzato la porta del piccolo alloggio, non ho dato prova di «una ferocia … sanguinaria». Non ho mosso «guerra» a quegli intrusi: guerra? Muovere guerra? Questo lo fate voi, non i cani.
E non ho mai detto a Useppe: «Non potranno mai più separarci, in questo mondo». Sarebbe stata una menzogna e i cani non mentono. Sapevo che esistevano chissà quanti modi in cui potevano separarci – ero già stata separata in maniera crudele da Antonio, il mio primo compagno, e da Nino, il secondo. Ero stata strappata – in maniera violenta, irrevocabile – dai miei figli. Non covo nessuna illusione sul perdurare delle cose del mondo. E non capisco il sentimentalismo, questo eccesso che voi umani sembrate spargere come miele, come un dozzinale balsamo anestetizzante su tutto ciò a cui causate ferite e rovina. È vero, noi cani non portiamo un grande contributo al mondo – non dipingiamo la Cappella Sistina, non componiamo La sagra della primavera, non scriviamo libri come La Storia – ma non provochiamo neppure tanti danni. I nostri rifiuti sono organici. Non lasciamo tracce tossiche sul pianeta.
Insomma, vi sto dicendo che la mia morte eroica, insensata è una menzogna sentimentale. Quella mattina, quando gli uomini hanno sfondato la porta e hanno trovato una Pietà – Ida, la madre sconfitta che teneva Useppe, il figlio morto – non li ho aggrediti. A che scopo? Solo gli umani si ostinano ad accumulare violenza su violenza, morte su morte. In quel Calvario non c’era niente che potessi fare, niente che potessi salvare, proteggere, perciò ho preso la porta e sono corsa giù per cinque piani di scale. Ho corso per le strade di Roma, fino al fiume, sono arrivata in quel santuario segreto che avevamo trovato io e il ragazzetto, «una specie di stanza col tetto di foglie… un cerchio d’erba appena nata con le piogge, forse ancora non calpestata da nessuno, e fiorita di… margherite minuscole, le quali avevano l’aria d’essersi aperte tutte quante insieme in quel momento».
Me ne sono rimasta zitta zitta tutto il giorno al riparo dell’ombra verdeggiante, chiusa in me stessa, in una specie di torpore, di delusione suprema. Quella notte ho dormito nella baracca che aveva costruito l’altro ragazzetto, Pietro Scimò, quello che avevano chiuso in gabbia come un cane e che poi era scappato per essere rinchiuso un’altra volta. C’era l’odore di tutt’e due, di Useppe e di Pietro, un profumo incontaminato, di bambino, senza traccia della decadenza e della prevaricazione degli adulti. Mi piaceva stare lì ma sapevo di non poter rimanere. Il giorno dopo mi sono lasciata guidare dal naso per le campagne, ho camminato e camminato finché ho trovato ciò che cercavo: una fattoria, una fattoria dove allevavano le pecore. Avevo chiuso con la vita insieme agli esseri umani. È molto più facile badare alle pecore; sono sciocche come le persone ma non così cattive.
I giorni qui alla fattoria sono lunghi e silenziosi (a parte i belati). Faccio bene il mio lavoro. Tante notti, mentre le pecore dormono e io sonnecchio con un occhio, un orecchio aperto, per fare la guardia contro i tanti pericoli del mondo, penso al periodo che ho trascorso con gli umani e a come è stato descritto da quella donna nel libro. Perché ha dipinto me, una cagna qualsiasi, tanto nobile e coraggiosa, tanto dolce e triste, tanto devota e fedele, tanto saggia e altruista? E perché alla fine mi ha ucciso? Penso di saperlo. Penso che sia perché voi umani non riuscite a capire o a sopportare il male e il pericolo che con tanta superficialità infliggete al nostro incantevole, fragile mondo, non riuscite a convivere con voi stessi e il vostro celato ma inesorabile e letale egoismo. Volete che nel mondo ci sia la bontà e, non trovandola in voi stessi, la imponete come un fardello ai cani, come i pesanti carichi che addossate alle stanche, doloranti terga degli asini e dei cammelli. (E la imponete ai gatti, presumo, ma non sarò io a parlare per loro). A causa di quello che non riuscite a essere, ci rendete quello che non siamo. So perché compaio così nella Storia: perché senza di me sarebbe intollerabile leggere il libro. Come sopportereste l’inesorabile condanna imposta a Ida Ramundo se io, Bella, un cane, non ne mitigassi, lenissi le pagine?
Se potessi parlare, e non posso – un altro degli inganni sentimentali del libro – vi direi: «Basta, per favore, basta!». Se proprio dovete, fate affidamento su noi cani nella vostra vita, accarezzateci la testa, sprofondate lo sguardo nei nostri occhi color nocciola, abbracciateci stretti quando tremate di freddo, ma lasciateci fuori dai vostri libri. Affrontate la realtà del mondo che avete creato e salvatelo o – più probabilmente– distruggetelo da soli.
© 2024 Peter Cameron / Agenzia Santachiara Traduzione di Giuseppina Oneto Tutte le citazioni sono tratte da Elsa Morante, La Storia, Torino, Einaudi, 1974