Robinson, 8 luglio 2024
Sepúlveda racconta Sepúlveda
Sono nato in un certo luogo del pianeta che si chiama Cile, ma i miei lari sono la mia lingua. Il mio grande mondo è la mia lingua. Il duro castigliano dei conquistatori si è mischiato con la dolcezza dell’aymara e deltzotzil, con il rigore del quechua e la poesia del guaraní, con la precisione del mapuchee l’originalità del parriken, si è mischiato con le novantanove lingue americane conosciute, e come se non fosse una sufficiente fortuna, si è arricchita con le difficoltà fonetiche di italiani, ebrei, bretoni, libanesi, gallesi, siriani, tedeschi, croati, cinesi giunti laggiù in cerca di una sorte migliore, e queste difficoltà hanno generato nuove parole che, nonostante l’orrore suscitato nella Real Academia de la Lengua Española, noi latinoamericani abbiamo accolto con piacere nel nostro parlato e nella nostra letteratura.Che bella la passeggiata di un ragazzino nel mondo della mia lingua. A seconda di dove passa lo chiameranno pibe, gurí, zipote, huambra, chiporrito, escuincle, chavito. È un mondo vasto, senza frontiere, che ci consente di capirci senza equivoci e allo stesso tempo ci permette di conservare l’incalcolabile ricchezza delle nostre diversità culturali. La mia lingua è l’unità delle differenze senza alcuna rinuncia alle particolarità.Qualche anno fa ho cominciato un viaggio in America Latina, un viaggio che non si ferma, che non può fermarsi, per conoscere il modo di parlare delle genti della Terra del Fuoco e di Cartagena de Indias, di Santiago de Cuba e delle isole Juan Fernández, di Lima e di San Salvador, di Puerto Orellana e di Ushuaia. Mi sono riempito di parole e solo allora mi sono sentito in grado di scrivere il mio primo romanzo. Un romanzo che parla di un angolo dell’Amazzonia, del cuore verde del continente. E l’ho scritto servendomi di parole ascoltate in tutti i paesi dell’America Latina. La mia lingua è un mondo aperto, senza frontiere, ecco perché appare paradossale che in Europa, traducendo le nostre opere, gli editori insistano odiosamente a precisare «tradotto dallo spagnolo della Colombia, del Cile, dell’Argentina»; forse un giorno impareranno che l’unica indicazione valida recita: «tradotto dallo spagnolo dell’America Latina».Un altro mondo intimo e irrinunciabile è il mondo delle letture che ci hanno formato, che ci hanno innegabilmente influenzato. A volte ho sentito alcuni colleghi affermare che non hanno subito alcuna influenza. Mi sono allontanato da loro con tristezza, compatendoli per quella povertà. Io sbandiero con orgoglio i nomi degli autori che mi hanno influenzato.Sono cresciuto leggendo Jules Verne, Emilio Salgari ( la parte finale del mio primo romanzo è un omaggio esplicito a Sandokan, la Tigre della Malesia), Jack London, Robert Louis Stevenson ( a quarantasei anni Long John Silver continua a farmi visita in sogno), Francisco Coloane ( dopo averlo letto, ho cercato di imitarlo a tal punto da arruolarmi nell’equipaggio di una baleniera) e Karl May. E ancora oggi continuano a influenzarmi.In seguito sono arrivato a Hemingway, Dos Passos, Julio Cortázar, Ring Lardner, Novalis, Hölderlin, E. T. A. Hofmann, Carlos Fuentes, Jorge Amado, Clarín, Pezoa Véliz, Chandler, Orwell, Joyce, Borges, Cervantes, Guimarães Rosa, Derek Walcott, Pepetela; come potete vedere la mia formazione non è, per così dire, molto ortodossa. Oggi ho l’immenso piacere di leggere i miei amici, che si chiamano Osvaldo Soriano, Paul Auster, Mario Delgado Aparaín, Jerome Charyn, Bruno Arpaia, Bernardo Atxaga, Luis Landero, Laura Esquivel, Pino Cacucci, William Ospina, Rolo Díez, Myriam Laurini, e non solo sono influenzato da tutti loro ma ci influenziamo reciprocamente. Il mondo delle letture che ci segnano è irrinunciabile e inevitabile perché, come dice un vallenato che si canta sulle rive del fiume César, in Colombia, «Non entri in acqua chi non vuol bagnarsi».Un altro mondo degno di nota è quello che indica, se non un’idea di appartenenza a un determinato posto, almeno un’affinità culturale nel senso più ampio del termine, cosa che purtroppo tende a confondersi con la simpatia artistica. Da mio nonno, illustre anarchico andaluso, ho imparato che uno è del luogo dove si sente meglio, e questa grandissima verità applicata al mio essere scrittore mi fa allontanare da tutto ciò che sa di patria. Credo che non ci sia parola più oscena. Patria, deprecabili fonemi colpevoli di tante atrocità passate e presenti. Nel corso della mia accidentata esistenza sono stato, e sono, latinoamericano con tutte le varianti del caso, ma sono stato anche Shuar in Amazzonia e allegramente apatride nell’immensità del mare. Sono stato un cittadino di Amburgo e un abitante dell’isola di Lussinpiccolo. Beduino nella Repubblica Democratica dei Sahrawi. E asturiano fra i miei amici di Gijón. Ho vissuto intensamente in molti luoghi e ho potuto scrivere alcune storie che parlano di loro e delle loro genti solo quando ho sentito che anche io ero di lì. Credo quindi che un altro dei paesi dello scrittore sia quel mappamondo che porta sulle spalle, non come la condanna del gigante Atlante, ma di buon grado. Quasi in conclusione, voglio far riferimento anche al mondo più personale e intimo dello scrittore, cioè al mondo della storia che sta scrivendo. Non potremo mai spiegarci il momento esatto in cui, dopo la scintilla di riconoscimento fra lo scrittore e la storia che gli toglie il sonno, un mondo sconosciuto ci apre le sue porte e noi entriamo come gli esploratori nei libri della nostra infanzia. In quel mondo si entra solo quando si comprende che non si è altro che un cronista dei fatti, delle situazioni e della condotta dei personaggi. Uno non crea una tempesta e nemmeno una forte mareggiata. Non fa tremare una valle, né la nasconde sotto la bruma. È la storia che detta le sue leggi meteorologiche aldilà del volere di chi firma il manoscritto, e i personaggi, con le loro virtù e vigliaccherie, non obbediscono ai presupposti morali dell’autore ma si muovono seguendo gli ordini impartiti dalle loro passioni, che lo scrittore deve capire per poterle registrare e per poi far intendere al lettore quello che i personaggi hanno già inteso.Il mondo della storia che stiamo scrivendo ci appartiene quando la storia va avanti da sola, e da questo mondo per cui ci siamo messi completamente in gioco non usciamo mai come siamo entrati. A voltelo lasciamo oppressi dal peso di rivelazioni che avremmo preferito continuare a ignorare. Mi domando come sia uscito Melville dal mondo di Billy Budd. Quanto gli sia costato immergersi nella mediocrità puritana che lo aspettava dopo il punto finale. Quanto abbia desiderato restare lassù, in cima all’albero di mezzana, senza altra compagnia che il vento e il suono delle gabbie, mentre sotto di lui gli uomini strisciavano pur di non guardare verso l’alto.Non usciamo mai uguali da quel mondo, e a volte addirittura lo temiamo, ma qualcosa ci chiama e ci riporta di nuovo lì. Allora impariamo a essere umili e ci rendiamo conto che l’erudizione con cui stupiamo le persone nei salotti, la prosa elegante che fa apprezzare le nostre lettere, l’agilità mentale che ci fornisce le risposte più opportune, i trucchi drammaturgici che abbiamo imparato strada facendo, la cultura che ci permette di risolvere ogni cruciverba e la ricchezza della lingua in cui ci muoviamo non sono altro che elementi funzionali alla storia che vogliamo raccontare, elementi al servizio della storia che stiamo scrivendo. La storia comanda. Sono le sue regole a dettare gli ordini e non c’è modo di imporre le nostre.Borges ha spiegato che è una sciocchezza cercare le storie. Sono loro che ci trovano, ci seducono e ci conducono nel loro mondo. Il piacere di scrivere consiste nel lasciarsi condurre dalla storia, non come i ciechi ma con tutti i sensi all’erta e pronti all’uso.Per concludere voglio fare riferimento a certi mondi che lo scrittore deve evitare come la peste. Uno è il mondo dell’arroganza, che ci invita a riempire pagine e pagine senza aver nulla da raccontare.La descrizione dei grammi di lanugine che si raccolgono nell’ombelico, per quanto brillantemente scritta, può riuscire solo ad allontanare i lettori.Non dobbiamo lasciarci tentare nemmeno dal mondo dei predicatori o dei falsi profeti. I nostri mondi di finzione non vogliono essere un’alternativa alla realtà. Abbiamo il diritto di alimentarci della realtà e il dovere di migliorarla, e soprattutto dobbiamo considerare che non esiste il lettore incompetente o passivo. Lichtenstein ha scritto che le peggiori bugie sono le verità leggermente deformate. Da parte mia mi azzardo modestamente a suggerire che se lo sciroppo per la tosse ha un cattivo sapore, va preso a occhi chiusi, ma non facciamo chiudere gli occhi al lettore per infilargli di contrabbando in bocca le odiose cucchiaiate dell’impegno.L’atteggiamento etico davanti alla vita è una questione personale dello scrittore, che deve risolverla come membro della società nelle strade o nel sindacato. Il mondo della finzione non può essere uno spazio per esercitare un coraggio che non si ha nel mondo di tutti gli uomini, di tutti i giorni. E soprattutto dobbiamo evitare il mondo del potere. La mia piccola esperienza di uomo e di scrittore che ha conosciuto il carcere e l’esilio mi ha insegnato che la parola scritta non conosce né sottomissione né conformismo. È possibile che i nostri mondi siano diversi, che nei vostri giardini regni l’ordinato caos della selva o l’ordine caotico dei labirinti, ma l’aroma dei fiori sarà sempre l’aroma della libertà.