La Stampa, 8 luglio 2024
Sanità, il business delle mafie
Basterebbe raccontare quanto si sa già – e immaginare quanto non si sa ancora – sugli ultimi quattro anni di latitanza di Matteo Messina Denaro ricercato in tutto il mondo e malato di tumore «favorito» a casa sua (Trapani e Palermo) da una fitta rete di medici e professionisti per spiegare l’inquietante profondità del connubio tra mafia e sanità nel nostro Paese e delle sue Regioni nelle quali il 75% (punto più, punto meno) della spesa pubblica confluisce – appunto – nella sanità. Sul punto il valore della spesa primaria netta nel settore pubblico allargato ammonta a più di 120 miliardi di euro in termini reali. Traduzione: la spesa nel settore dei camici e delle cure è cresciuta del 30% circa rispetto al 2010 con un +25% per ogni cittadino italiano calcolato sul valore pro-capite. Chi ha pensato che la mafia non ci mettesse le mani sopra con tempismo efficace ha sognato ad occhi aperti.
Ed è stata profetica in questo senso un’analisi investigativa della Dia redatta in pandemia, quindi 3 anni fa, che raccontava come – a fronte di numeri sovrapponibili a quelli di oggi – erano «prevedibili importanti investimenti criminali nelle società operanti nel “ciclo della sanità”, siano esse coinvolte nella produzione di dispositivi medici (mascherine, respiratori, ecc.), nella distribuzione (a partire dalle farmacie, in più occasioni cadute nelle mire delle cosche), nella sanificazione ambientale e nello smaltimento dei rifiuti speciali, prodotti in maniera più consistente a seguito dell’emergenza». Col senno di poi, bingo. Leggere per credere i dati sulle Sos, (segnalazioni di operazioni sospette): 1110 sono risultate ascrivibili all’emergenza sanitaria e di queste 164 sono confluite – si legge nel penultimo report disponibile (quello del 2022) – a profili di attinenza alla criminalità organizzata. Nel primo semestre 2023 (ultima rilevazione) il dato è stabile con una tipizzazione più dettagliata sulle segnalazioni: 560 per Covid 19, 141 per finanziamenti Covid e 273 per utilizzo anomalo di fondi di settore. Ergo: il polo sanitario è per gli 007 dell’Antimafia «un centro di interessi appetibile sia per le consistenti risorse di cui è destinatario sia per l’assistenzialismo e il controllo sociale che può garantire, come dimostrano i commissariamenti per infiltrazioni mafiose». Lo sottolinea Pier Paolo Romani, presidente di Avviso Pubblico (associazione di amministratori contro le mafie e la corruzione che raccorda attorno a sé 541 Comuni, 11 Regioni, 12 Province e tre Città metropolitane): «La sanità è diventata anche terreno di voto di scambio con la mafia: quando i casalesi controllavano l’ospedale di Caserta erano loro che ti prenotavano una tac o una visita».
Il clan Contini padrone del San Giovanni Bosco
E restando in Campania, la storia si è ripetuta di recente. Dinamiche copia incolla, cambiano clan e strutture. Dice ai magistrati della Dda di Napoli il collaboratore di giustizia Pasuale Orefice che «Carmine Botta (vertice del clan camorristico Contini arrestato due settimane fa,ndr) è anche il referente del gruppo mafioso per l’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, dove il sodalizio dispone di alcuni locali, in genere depositi, dove si effettuano riunioni di camorra per deliberare in merito ad attività delittuose e/o summit con esponenti di altri sodalizi criminali. Ho partecipato personalmente a talune di tali riunioni. Ciò avviene con la complicità di personale dell’ospedale, in particolare del personale della ditta di pulizia e di vigilanza (ditte intestate a prestanomi riconducibili di fatto al clan Contini, sulle quali mi riservo di approfondire), nonché grazie alla connivenza di medici ed infermieri». E difatti al San Giovanni Bosco, «presidio notoriamente sotto l’influenza della famiglia Contini» scrivono i pm nell’ordinanza di custodia cautelare che due settimane fa ha portato in carcere 11 persone, Botta decideva anche chi far accedere alle cure della struttura e chi no: «Ha detto Carminiello che questa è una persona che lui ci tiene! Si deve ricoverare là». Ancora il collaboratore: «Botta mi disse che controllavano la mensa, lo spaccio all’interno dell’ospedale. Quando una ragazza che interessava a noi, ebbe un incidente, dopo che si è svegliata, entravamo in sala intensiva anche in quattro o cinque mentre lì si entra un po’ alla volta. Gli infermieri già lo sapevano e ci facevano entrare. Bastava dire loro che appartenevamo alla ragazza del Parco Verde e gli stessi si mettevano a disposizione. Ci davano i camici ed entravamo nella sala».
La famiglia Senese e i contatti col Pirellone
Il caso più eclatante in Lombardia, nel blitz Infinito-crimine del luglio del 2010, fu l’arresto di Carlo Chiriaco, ex direttore sanitario della Asl di Pavia. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a dodici anni di carcere fino in Cassazione, perché ritenuto la «cerniera» tra la criminalità organizzata e il mondo politico. «A disposizione» della ‘ndrangheta, per i giudici Chiriaco ha favorito il suo radicamento in uno dei settori più ricchi della Regione. Nel tempo, diverse inchieste della Direzione distrettuale antimafia diretta da Alessandra Dolci hanno evidenziato le mire delle cosche su Rsa, ambulanze e, con la pandemia, sui ricchi appalti per la fornitura di dispositivi di protezione individuale, come mascherine, e sanificazione. Dalle carte della recente operazione Hydra – in gran parte bocciata dal gip di Milano e ora al vaglio dei giudici del Tribunale del Riesame – sono emersi i tentativi di uomini vicini al clan Senese, radicato in Campania e nella capitale, di infiltrarsi anche nella sanità lombarda: «Ma tu ti rendi conto che mazzette? E si, guarda eh... è una schifezza!», dicevano intercettati dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano. Sfruttando i contatti col Pirellone e con la politica romana, Gioacchino Amico – finito in carcere per traffico di droga ed estorsione, in un caso aggravata dalla finalità mafiosa – per la pm Alessandra Cerreti avrebbe provato a infiltrarsi anche nel business delle «forniture legate all’emergenza Covid, delle procedure di sanificazione e del servizio ambulanza per trasporto dializzati». «Compare quando apriremo lì a Inveruno faremo anche la sanificazione certificata contro il virus – diceva Amico intercettato – quindi iniziamo a prendere locali e ogni certificazione per la sanificazione… Il minimo in Lombardia per tutti i locali che devono tenere aperti in zona gialla sono 750 euro… Noi la facciamo a 600 euro e ci prendiamo tutti i locali… Ci serve solo un piccolo magazzino per le ambulanze e i mezzi per fare la sanificazione… e i trasporti ai dializzati…».
L’Asp reggina e l’imprenditore delle cosche
E proprio indagando su appalti ventennali (e milionari) per la sanificazione degli ospedali reggini che, nelle cuffie dell’Antimafia, è saltato fuori Domenico Chilà, imprenditore di 57 anni, nato a Pavia e residente a Milano, inquadrato dalla Dda e dal nucleo di polizia economica della Guardia di Finanza del capoluogo calabrese come «espressione della potente cosca Serraino», famiglia con radicati collegamenti con la Lombardia, e degli alleati Rosmini. Nelle scorse settimane, gli investigatori coordinati dal colonnello Mauro Silvari hanno eseguito un sequestro da 6,5 milioni di euro a carico di Chilà, la cui impresa al centro dell’inchiesta «Inter nos» ha sede a Milano, a due passi da piazzale Loreto. Lo spaccato è inquietante e ha fatto emergere una sorta di cassa comune finanziata da imprenditori (a loro volta espressione delle famiglie mafiose di Reggio città) per finanziare un sistema di corruttela «dilagante» a detta degli inquirenti: «Metti 2 mila tu, metti 2 mila lui, metto 2 mila io… Può darsi che io ho la forza o sono magnanimo… Non che voglio farvi uno sgarbo – va bene per me mettici pure 3 mila – allora si raggiunge una quota di 8 mila, 10 mila euro al mese. Bene. Diamogli da mangiare che è pure giusto». Gare – in ipotesi d’accusa – «turbate con dirigenti e funzionari compiacenti» realizzando «macroscopiche illegalità nell’espletamento dei pubblici incanti nel settore sanitario» Procedure «deviate – si legge negli atti – nell’interesse di una cordata di imprenditori privati, espressione di un coacervo di interessi riconducibile a più consorterie ‘ndranghetiste operanti nel Reggino». La corruzione «era la conditio senza la quale sarebbe stata di certo preferita altra ditta» scrivono gli investigatori. Ne erano coscienti tutti: «No vabbè la sanificazione si deve fare eh!.. E chi lo dice che la devi fare tu? possono chiamare un’altra ditta». Quando infine il dirigente dell’area finanze finito nei guai nella stessa operazione rischia di essere trasferito, sono gli imprenditori – si apprende da fonti investigative – che si attivano per farlo confermare in una inquietante melassa di aderenze che come nei giorni di scirocco, in riva allo Stretto, confonde tutti, tranne gli investigatori