La Stampa, 8 luglio 2024
Chi viaggia sullo stretto non crede che il ponte sia necessario. L’ad della società dei traghetti invece è a favore
Il mare funziona benissimo, è tutto il resto che non va. Sotto il piccolo sottopassaggio ferroviario di Villa San Giovanni le auto si inchiodano ogni volta. «Effetto imbuto» dice Giuseppe Tripodi, insegnante di sostegno di Matematica e Scienze. Lui va e viene dallo Stretto, vive e lavora fra Calabria e Sicilia. È un pendolare del traghetto che unisce l’Italia. «Quando hanno ricostruito Reggio e Villa San Giovanni, dopo il terremoto, nessuno immaginava questi numeri e queste automobili enormi, nessuno pensava a milioni di turisti. Ma non c’è alternativa. Per imbarcarsi è l’unica strada, quest’unico sottopassaggio, non c’è altro modo di arrivare al porto». Nel 2023 sono saliti a bordo dei traghetti dello Stretto 6,5 milioni di persone, più di 2,3 milioni di auto. Il ponte c’è già, ed è questo continuo andare e tornare. Ma tutti sanno benissimo che su questa cartolina italiana, un concentrato di bellezza e sfacelo, incombe il progetto del ponte vero. Il ponte da 13 miliardi. Quello che cambierebbe per sempre la geografia. «Per me è totalmente inutile e pericoloso, il pilone principale poggerebbe su una zona ad altissimo rischio sismico», dice il professor Tripodi. «Servono investimenti per strade, treni, ospedali. Bisogna pensare alla siccità e alla rete idrica. Dai rubinetti di molte case siciliane esce appena un filo d’acqua».
Certe volte la coda si forma prima del controllo dei biglietti. È lì che un un signore elegante, stanco e anziano, nato a Casablanca, vende i suoi cappelli con la scritta «Italy» ai turisti. Ma altre volte si fila via lisci come per incanto, dall’autostrada alla banchina, così il traghetto diventa come un tram da prendere al volo. Si può salire sul ponte, guardare Messina sull’altra sponda del Mediterraneo, sentire il portellone sbattere e già percepire il movimento. Il traghetto ha mollato gli ormeggi. Cambia tutto. Bastano venti minuti per arrivare dall’altra parte. E mentre vai, devi sapere che questo mare molto profondo è lo scontro fra il Tirreno più caldo e lo Ionio più freddo. Un mare che ribolle di vortici e pesci spada, di miti e di leggende. Capo Peloro. Scilla e Cariddi. I vecchi tralicci dell’alta tensione, ancora in piedi come monumenti.
«Io prendo il traghetto una volta al mese, per venire a trovare mia mamma Nunzia. Parto da Roma. Certe volte faccio avanti e indietro in giornata. Scendo dal treno alla stazione di Villa San Giovanni, cammino dieci minuti, ed eccomi qui». Anche Andrea Oteri, consulente aziendale, non sente la mancanza di quell’altro ponte. «Non per motivazioni ideologiche, che mi hanno proprio stancato. Ma per ragioni pratiche. Perché spendere tutti quei miliardi quando manca l’acqua nelle case? Mia madre ha la cisterna sul tetto». E ancora: «Perché spendere tutti quei soldi per il ponte quando per andare da Messina a Trapani in treno servono dieci ore? Mi sembra un errore madornale. Una questione di priorità».
Anche a Messina le auto si impiantano dentro un angiporto troppo angusto e non attrezzato per i passaggi della stagione estiva. «Ma il traghetto funziona, parte ogni venti minuti. Solo a agosto può esserci un po’ di attesa».
Il servizio è gestito da due compagnie. È un duopolio, pubblico e privato. Da una parte, ci sono i traghetti delle Ferrovie dello Stato che trasbordano i treni da una terra all’altra. Per tutto il resto c’è la CaronteTourist, che da sola si occupa di unire le sponde. Uno si aspetterebbe di trovare un armatore preoccupato del progetto del ponte da 13 miliardi, invece è il contrario. «Io dico sì al ponte» dice l’amministratore delegato Vincenzo Franza. «Il Ponte è un’opera strategica, una trasformazione epocale per la Sicilia, che potrebbe attrarre fino a otto miliardi di euro di investimenti e dare il via ad un boom economico. Rappresenterebbe il segno tangibile dell’attenzione dello Stato verso il Mezzogiorno e le regioni dello Stretto in particolare e, dunque, da imprenditori non potremmo che essere entusiasti». La visione di Franza è persino più grandiosa di quella del ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, che sta cercando di portare avanti il progetto. «Bisogna trasformare il ponte in un’attrazione turistica. Bisogna rendere fruibili, con ascensori panoramici, le due gigantesche torri. Devono diventare poli attrattivi come lo sono – ad esempio – la Tour Eiffel o il ponte di Normandia sull’estuario della Senna. Tutte opere di ingegneria che con i loro centri di accoglienza per i visitatori producono turismo e indotto anche nelle località adiacenti. Il ponte non ci toglierebbe la leadership del traghettamento, di questo siamo sicuri, le due vie non si escludono».
Oggi a bordo del traghetto c’è un operaio di una ditta di ascensori che si chiama Vincenzo Ielo: «Per me questo piccolo viaggio in mare è mistico, il ponte rovinerebbe ogni romanticismo. Non sempre quello che è più comodo significa anche più bello. Lo stiamo imparando con i telefonini». C’è un allievo dei carabinieri che sta per prendere servizio a Reggio Calabria, e ci va accompagnato dalla sua ragazza. C’è un po’ di coda al bar per le prime arancine, che già annunciano il profumo dell’altra terra. Torna da una vacanza la signora Augusta Marchionni, umbra, con un capello a falde troppo larghe per il vento di libeccio. «Il ponte rovinerebbe questo incanto», dice.
I ponti sono belli, quando sono ponti sicuri. Ma il bello di non avere il ponte è la distanza dall’altra terra, in cambio della vicinanza alla natura. È la salsedine in faccia. L’odore di pesce. Una specie di ansia da avvistamento, che ti prende ogni volta. È questo tempo di decompressione, dove tutti guardano in qualche punto preciso. Il bello di non avere il ponte è la salvaguardia di questo tratto di mare. È il classico contro il moderno. È il vuoto contro il pieno. E tutti sanno quanto questo sia un tempo in cui il vuoto e la natura siano beni molto più preziosi del loro contrario. A ben guardare, quello che manca al mondo è già qui.
Adesso è ora di sbarcare. —