Maurizio Bettini per “la Repubblica” - Estratti, 8 luglio 2024
LA VERA STORIA DELLA MAGNA GRECIA? TUTTA DA RISCRIVERE - NEL SAGGIO DELL’ARCHEOLOGO MASSIMO OSANNA, CAPO DELLA DIREZIONE MUSEI AL MINISTERO DELLA CULTURA, STORIE, INCONTRI E CONNESSIONI FRA CULTURA GRECA E “INDIGENI” ITALICI, PEUCEZI, ENOTRI, JAPIGI E COSÌ VIA - DICEVA IL GRANDE ANTROPOLOGO ARTHUR MAURICE HOCART LE CERAMICHE E LE PENTOLE NON PARLANO. AVEVA TORTO – IL CASO DELLA TORRE DI SATRIANO, FRUTTO DELLA COLLABORAZIONE FRA "INDIGENI" ENOTRI E GENTE VENUTA DA FUORI A INNESTARE ELEMENTI DI CULTURA GRECA… -
Quando ero studente fra i tanti libri che il giovane classicista "doveva" leggere ce n'era uno di Jean Bérard, La Magna Grecia. Storia delle colonie greche dell'Italia meridionale. Subito all'inizio si poteva leggere questa frase: «Nel tempo in cui Roma cominciava appena a uscire dalla barbarie, una serie di città greche, scaglionate lungo le coste dell'Italia meridionale, aveva già raggiunto una straordinaria prosperità… Greca era l'origine, greca la lingua e la civiltà di quelle città che trasformarono in terra ellenica vaste regioni dell'Italia meridionale».
E gli indigeni dov'erano? Per la verità, continuava Bérard, qualcuno aveva provato a «ridurre l'importanza dell'elemento greco nella civiltà primitiva dell'Italia per mettere in rilievo il carattere indigeno». Ma l'origine di queste teorie andava «cercata in considerazioni più di carattere politico che propriamente storico». Questione chiusa. La Magna Grecia era terra greca e basta.
(...) Aiutano a rendersi conto della profonda trasformazione che negli ultimi decenni hanno riguardato gli studi storico-archeologici sull'Italia antica. E il libro di Massimo Osanna, Mondo nuovo. Viaggio alle origini della Magna Grecia (Rizzoli), ne costituisce uno splendido esempio. Non solo per l'uso puntuale e a volte davvero impressionante, che l'autore fa dell'indagine archeologica, ma per la costante attenzione portata al "paesaggio dell'intreccio", come Osanna lo chiama, ossia agli scambi e le intersezioni fra cultura greca e culture locali. Gli "indigeni" italici, Peucezi, Enotri, Japigi e così via, fanno capolino ad ogni pagina di questo libro ricchissimo di dati, di immagini e di ricostruzioni, pervaso da una tensione che solo un bravo saggista, oltre che un vero studioso, riesce a mantenere viva.
Diceva il grande antropologo Arthur Maurice Hocart «pots and pans don't speak», le ceramiche e le pentole non parlano. Aveva torto. I resti materiali di una cultura parlano e come, naturalmente occorre saperli far parlare. In questo libro, le ricostruzioni sono condotte in modo sempre così prudente che è difficile non restare persuasi. Facciamo subito un esempio. Siamo sull'Appennino calabro lucano, in una località nota oggi come Torre di Satriano.
Che cosa scoprono gli archeologi in questa terra? I resti di un paesaggio abitativo di tipo rurale, disperso, formato da capanne. Fra queste costruzioni, però, spiccano i resti di un palazzo che definiremmo sontuoso, il quale si distingue per forma, dimensioni, struttura dal resto delle abitazioni che lo circondano, risalente verosimilmente al VI secolo a.C. La tecnica costruttiva ricorda quella della Grecia e soprattutto della Ionia. Attenzione però: le terrecotte architettoniche che ornavano il tetto portano scritte la cui fonetica richiama il dialetto dorico, ossia quello che si parlava nella potente colonia spartana di Taranto. Alla costruzione di questo palazzo hanno lavorato anche artigiani venuti da Taranto.
In breve, il palazzo di questo capo indigeno è nato dalla collaborazione fra "indigeni" Enotri e gente che è venuta da fuori a innestare elementi di cultura greca negli usi locali. Usi locali esibiti dal fatto che l'edificio più grande di questo villaggio non è una struttura templare, come sarebbe avvenuto in una polis greca, ma un palazzo privato, in cui probabilmente si tenevano anche cerimonie di carattere sacro. Cosa che in una città greca non sarebbe mai avvenuto.
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Poco distante dai resti di questo palazzo, infatti, sono stati rinvenuti i resti di un'altra costruzione, stavolta ad abside, circondata da alcune tombe: cioè secondo l'uso locale, perché dei Greci avrebbero sepolto i loro morti lontano dall'abitato, mentre al contrario nelle culture indigene la città dei vivi e quella dei morti tendevano ad essere contigue.
Questa seconda, grande costruzione risponde a una tipologia abitativa che, nella sua struttura, risulta molto più arcaica, ben diversa dal palazzo che abbiamo appena descritto: un edificio insomma di tipo "tradizionale", risalente al VII — VI a.C., che la seducente interpretazione degli archeologi classifica come la residenza "più antica" del capo villaggio.
Che in seguito sarebbe stata abbandonata per trasferire il luogo del potere in una residenza più ricca e sofisticata, influenzata dalla cultura dei Greci della costa. Ecco, dalla successione di questi due edifici emerge dunque un pezzo di storia, una vicenda culturale e quasi biografica interna a un luogo preciso, che i resti archeologici sono in grado di farci intuire e ricostruire. «Ceramiche e pentole parlano», come si vede.