il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2024
Così il lavoro nero si può eliminare
La morte, che la stessa premier Giorgia Meloni ha definito “orribile e inumana”, dell’immigrato indiano Satman Singh, bracciante “in nero”, come tanti altri, nell’Agro Pontino, ha indotto molti politici ad annunziare o reclamare nuovi provvedimenti legislativi ed amministrativi in tema di prevenzione antinfortunistica, di maggiori controlli ispettivi, di più severa repressione penale del caporalato ecc.
Tutti interventi – osserviamo – doverosi e necessari, ma, a parer nostro, il fatto è che il problema vero, come si dice, sta “a monte”, e consiste nella grande diffusione del lavoro “in nero”, strumento di sfruttamento e di ricatto, di sottosalario, di miseria e di pericolo, criminale e criminogeno.
Basti pensare che il povero Satman Singh è stato lasciato morire per dissanguamento dal suo datore di lavoro per il timore di dover confermare, ricoverandolo in ospedale, di “tenere fuori regola” lui e i suoi compagni di lavoro.
La strada giusta, ed ancora non battuta, per eliminare sicuramente e velocemente il lavoro nero, è, allora, a nostro avviso, quella di un intervento legislativo che, rovesciando come un guanto la situazione attuale, renda agevole, e soprattutto conveniente dal punto di vista economico (oltre che della tutela normativa), per il lavoratore “in nero”, denunziare il datore presentando ricorso avanti al Tribunale del Lavoro. Oggi le cose stanno in tutt’altro modo, per le ragioni che subito diremo, e per questo il lavoro “nero” prospera e dilaga: per la necessitata omertà degli stessi lavoratori sfruttati, timorosi di perdere anche quel salario miserrimo, e, magari, di essere espulsi dal nostro Paese.
L’esperienza ci ha insegnato che un primo ordine di motivi di questa necessitata omertà sta nella difficoltà delle controversie giudiziarie in materia di lavoro “nero”, che sono, in pratica, assai più ardue di quelle, ad esempio, in tema di precariato, perché in queste ultime esiste, almeno, un documento formale cui appigliarsi, seppure per contestarlo (contratto a termine, di lavoro somministrato a part-time), mentre, nelle cause di lavoro “nero”, questo riferimento formale non c’è. Il difficile non consiste tanto nel dimostrare singole giornate di prestazione lavorativa “in nero”, quanto la loro continuità e la sussistenza di un vincolo obbligatorio che colleghi l’una all’altra. “Veniva, sì, qualche giornata, per lavorare delle ore, ma quando lo decideva lui, e veniva pagato volta per volta”: questa è la difesa “standard” dei datori di lavoro “in nero”, che riescono, così, ad ottenere sentenze che li assolvono da ogni richiesta per il carattere “autonomo” della prestazione.
Un secondo ordine di motivi ha natura economico-sociale, nel senso che il lavoratore non assume iniziative vertenziali temendo che, se anche vincesse la controversia facendosi riconoscere lavoratore subordinato, poi verrebbe licenziato e “messo all’indice” in quello specifico mercato del lavoro e, se immigrato senza permesso di soggiorno, addirittura drammaticamente espulso. È, dunque, questo il quadro da tenere presente per comprendere i “tasselli” che compongono il progetto di legge che stiamo pensando, e che possiamo ora passare in rassegna.
1) Il “cuore” della soluzione proposta è costituito dall’introduzione di una “presunzione legale assoluta”, presunzione, cioè, dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, quando il giudice accerti che il lavoratore “in nero” ha lavorato, all’interno di un dato periodo temporale, almeno un certo numero di giornate, anche non consecutive (es.: almeno 30 giornate all’anno). La sentenza dovrebbe, allora, dichiarare la sussistenza del rapporto a far tempo dalla più remota delle giornate accertate. Va chiarito che, quando il legislatore stabilisce una presunzione legale assoluta, ciò significa che, dalla ricorrenza di una certa premessa (qui, il numero di giornate lavorate “in nero”) deriva una certa conseguenza (sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato) e che non vi è possibilità di sostenere o provare il contrario, ad esempio che le prestazioni lavorative erano, in realtà, autonome. Si noti che dottrina e giurisprudenza hanno chiarito che, mentre la “presunzione di lavoro subordinato” è costituzionalmente legittima, non è vero l’opposto, ossia stabilire che una certa prestazione lavorativa sia da considerare “autonoma” per legge, e ciò in considerazione della particolare protezione che la Costituzione accorda al lavoro subordinato. D’altro canto, il legislatore più volte ha previsto presunzioni assolute di subordinazione, ad esempio nel caso di collaborazioni coordinate e continuative “senza progetto” (art 69 D. Lgs. 276/2003) o di collaborazioni coordinate e continuative organizzate dal committente (art. 2 D. Lgs. n. 21/2015).
2) Compiuto questo passo decisivo, ne discendono quasi automaticamente gli effetti desiderati: una volta ottenuto in quel modo lo stato di lavoratore subordinato, l’ex lavoratore “in nero” può ottenere dalla medesima sentenza, a far tempo dalla data della prima prestazione e per il futuro, un salario (arretrati compresi) commisurato alle tariffe del CCNL. Tuttavia il legislatore dovrebbe allora, aggiungere una ulteriore norma protettiva, prevedendo, per evitare il licenziamento di rappresaglia, che il lavoratore così “emerso” goda sempre della tutela contro i licenziamenti previsti dall’art. 18 Legge 300/1970 e, inoltre, del diritto di ricevere non solo gli arretrati, ma anche una somma di 15 mensilità di retribuzione, ove intenda rinunziare alla reintegra.
3) Con riguardo ai lavoratori “in nero” che sono anche immigrati senza permesso di soggiorno, il legislatore dovrebbe adottare un’apposita misura protettiva, di grande civiltà giuridica, prevedendo il diritto del lavoratore immigrato così “emerso” ad ottenere il permesso di soggiorno, con definitivo affrancamento dalla sua soggezione semischiavistica. Una strumentazione protettiva similare è già stata impiegata, d’altro canto, con l’art. 18 D. Lgs. n. 286/1998, il quale, per reprimere la tratta delle prostitute extracomunitarie ha, appunto, previsto la concessione del permesso di soggiorno alla donna che denuncia il suo sfruttatore.
4) Dovrebbe, altresì, essere prevista, per superare timori ed incertezze dei lavoratori “in nero”, accanto ad una legittimazione processuale individuale del lavoratore, una legittimazione collettiva e sostitutiva in capo al sindacato, perché agisca lui in giudizio ottenendo, in favore del lavoratore, tutti i benefici previsti dalla legge che proponiamo.
5) L’ultima disposizione, suggerita da realismo politico, potrebbe essere quella di una parziale sanatoria per quei datori di lavoro che regolarizzino i lavoratori “in nero” entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge. È infatti nostra convinzione che, entro quei sei mesi, tutto o gran parte del lavoro “nero” emergerebbe, e non si riprodurrebbe successivamente, perché, ormai “troppo “pericoloso”.
Dal punto di vista della fattibilità ed agibilità politica, non abbiamo dubbi che tutto il “campo largo” del centro-sinistra adotterebbe unitariamente un simile progetto. Ed il centro-destra? Avrebbe la scelta tra il ripetere la ben misera figura che ha fatto in tema di salario minimo legale, e il ricordarsi di quella “morte orribile ed inumana” ed aderire alla proposta di legge.