la Repubblica, 7 luglio 2024
L’America senza timone
Il mondo anticipa l’America. Tutti considerano che dal gennaio prossimo Donald Trump tornerà alla Casa Bianca. Eppure mancano quattro mesi alle elezioni, un’eternità nel calendario accelerato che scandisce il tempo dal 24 febbraio 2022. Né sappiamo se a sfidare il candidato repubblicano sarà il senescente Biden o un rimpiazzo dell’ultimo minuto. Però soccombiamo al dominio mediatizzato delle aspettative che devono autorealizzarsi. Sicché rivali e alleati dell’America, di nome o di fatto, sono già sintonizzati sull’èra Trump. E si muovono di conseguenza. Tanto per ricordare come, malgrado tutto, Washington resti nella percezione diffusa il meridiano di Greenwich della geopolitica mondiale.
Solo su questo sfondo s’intende il duello fra Biden e Trump, tra un politico di razza oggi ombra di sé stesso e un golpista fallito, mentitore seriale. E siccome in America i partiti che li designano sono comitati elettorali, non classiche strutture all’europea, quello che sarebbe già accaduto altrove, ovvero la sostituzione di uno o di entrambi i candidati, è esercizio di alta acrobazia dipendente in buona misura dagli orientamenti di chi li finanzia.
Ma se vogliamo provare a capire qualcosa della superpotenza e del suo immediato avvenire conviene sfuggire alla trappola futurista. Restiamo con i piedi per terra. Primo, perché il presidente degli Stati Uniti non è autocrate onnipotente. Secondo, perché a prescindere dachi si installerà il 20 gennaio 2025 nello Studio Ovale, la traiettoria geopolitica dell’America si legge nel medio periodo. Il ciclo attuale dura da due decenni e parla chiaro: declino. Da stabilire quanto rapido, profondo e, soprattutto, pacifico. Per ordine.
Stando alla narrazione classica, il presidente degli Stati Uniti è capo del mondo. Re e imperatore del pianeta. Dotato di doppio corpo: quello fisico, individuale; e quello metafisico, collettivo, che prescinde dalla sua persona e si trasmette dall’uno all’altro inquilino della Casa Bianca via sacra unzione elettorale. Perpetuo incarnarsi del superpotere americano. Marchio dell’egemonia a stelle e strisce.
I fatti ci raccontano un’altra storia. È grave errore scambiare un presidente dai limitati poteri – salvo in tempo di guerra – per ordinatore del sistema internazionale. O anche solo del suo Paese.
Per gli americani, il supremo magistrato è simbolo e portabandiera della repubblica. Punto. Non un monarca, tantomeno imperiale. Garanzia che le ex colonie di Sua Maestà britannica non scadranno mai a dispotismo grazie all’equilibrio fra i poteri. Espressione di una società fondata sul primato dell’individuo e sulla indifferenza – spesso diffidenza – per i riti della politica. Sul timore dello Stato intrusivo. I 450 milioni di armi da fuoco in possesso dei cittadini – in media più di un fucile per ciascuno – dicono tutto. Non proprio monopolio statale della violenza.A prescindere dall’esito del voto, è possibile che la sera del 5 novembre il perdente non riconosca la legittimità del vincitore. E se pure lo facesse, la sua mezza America continuerebbe a non sentirsi parte della medesima nazione. Per trovare un parallelo storico, tocca risalire alla Guerra civile (1861-65). Di cui si parla come fosse attualità.
Di certo poco capiamo se persistiamo a rappresentare la figura del presidente quale monarca repubblicano, come era il suo omologo francese, prima che Macron perdesse la bussola. Una persona sola non può essere il cuore del sistema. Né sembra più esserlo il Congresso, desacralizzato dal tentato golpe trumpiano del 6 gennaio 2021, oggi apprezzato dal 12% dei cittadini. Minimo storico.
La traiettoria geopolitica della potenza tuttora massima – per quanto? – è determinata dall’intreccio fra diverse agenzie civili e militari, visibili o meno, in collaborazione/competizione permanente. Il regime politico poggia sul
lo Stato profondo, che non corrisponde alla cabala di cui discettano i complottisti ma è la struttura deputata a garantire sicurezza e continuità delle istituzioni. Oggi più che mai, mentre il presidente ostenta la sofferenza del suo corpo fisico e il suo carisma metafisico ne è intaccato, sono gli apparati a far girare il motore. Come ad esempio nel caso del Reagan finale e incoerente, quando Bush padre, vicepresidente, gli organizzò attorno un gabinetto che lo teneva sotto controllo. In carenza di una regìa, anche solo scenografica, e in considerazione del rango occupato da Washington nella gerarchia delle nazioni, amministrazione, intelligence e Pentagono debbono assumersi responsabilità decisive. Gestione della “valigetta” nucleare inclusa. In attesa del nuovo portabandiera.
Quanto al declino, ne è espressione clamorosa l’autoflagellazione delle élite, un tempo sicure fino all’arroganza del proprio diritto al primato. Valga il titolo del saggio di Carlos Lozada sul
del 2 luglio: “L’America è una città sulla collina o una nazione sull’orlo del precipizio?”. Incipit: “Se l’America fosse un dipinto, sarebbe quasi certamente un autoritratto”. Metafora dal doppio senso. Il primo esplicito: siamo totalmente concentrati su noi stessi, esercito di solipsisti che si sentivano superiori al resto dell’umanità e oggi sentono di non esserlo più; secondo, implicito: per questo la nostra strategia non tiene conto di come ci veda il resto del mondo e ne paga il prezzo.
All’origine, l’eccezionalismo. L’idea che l’America, come già spiegava Kissinger, non sia Numero Uno, ma ente supremo sovraordinato all’ordine internazionale. Immagine ripresa dal sermone di John Winthrop, governatore puritano della Baia del Massachusetts, che nel 1630 stabilì: «Noi saremo come una città sulla collina, gli occhi di tutti si volgono qui». Ripresa di Matteo, quando Gesù dice agli apostoli: «Voi siete la luce del mondo. Una città sulla collina non si può nascondere». Da Reagan in poi, questo impegnativo parallelo, basso continuo della pedagogia a stelle e strisce, è slogan obbligato del presidente in carica, non importa di quale colore. Oggi non funziona più. I sondaggi Gallup rivelano che la fiducia in sé stessi degli americani non è mai stata così bassa da quando viene misurata.
Il tempo magico è esaurito. Siamo in pieno disincanto. Lo scontro fra Joe Biden (o chi per lui, se si ritirerà o sarà ritirato in extremis) e Donald Trump mette in scena la duplice crisi dell’America. Domestica e planetaria. Mal d’America dalle cause plurime, in ultima analisi riducibili a due facce della medesima moneta: la repubblica non ce la fa più a sostenere l’impero. Non può e non vuole più farlo. Tabe da sovraestensione, malattia senile degli imperi.
Questa emergenza interna mina la missione universale dell’America, costitutiva della sua identità. Prima che nazione e impero, il Numero Uno è religione.
Il corto circuito fra insostenibilità dell’impero e crisi della repubblica è strutturale. Non contingente. Tantomeno relativo alla personalità del presidente. Sono vent’anni che la parabola imperiale tende alla ritirata per l’eccesso di impegni, non solo militari, di cui si è caricata. Già l’ultimo Bush (junior), poi Obama, Trump e Biden si sono dovuti adattare alla necessità di accorciare il fronte. Dissolte le illusioni del “momento unipolare”, esaltato dalle ambizioni dei neoconservatori che vestono la missione americana da rivoluzione permanente per convertire il mondo allo standard di Washington, restano il peso della deindustrializzazione e la frustrazione dei ceti medio-bassi per l’abbassamento del tenore di vita, quindi del proprio rango, nella nazione “invasa” dai migranti. Insomma, gli americani non si piacciono più come prima. Tendono a compiangersi. Ma non possono fare a meno dell’impero se vogliono restare il Numero Uno.
Già, ma che bestia è l’impero americano?
L’America è una repubblica dotata di un impero informale. Non può né vuole dichiarare la sua dimensione imperiale perché nata da una rivolta anticoloniale e perché nella sua storia spiccano le vittorie su maligni imperi altrui: dalla Germania nazista al Giappone, fino al sovietico impero del Male (arreso per getto della spugna). Questa percezione è diffusa nell’immaginario collettivo, anche visivo. Star Wars (1977) film e serie iconica dell’americanismo, narra la rivolta contro l’Impero Galattico. Il saggio dello storico Daniel Immerwahr su Come si nasconde un impero indaga le tecniche cartografiche con cui i “Grandi Stati Uniti” si mascherano usando la mappa logo, limitata alla massa continentale contigua, senza i vari territori più o meno afferenti a Washington sparsi nel mondo, con relative installazioni militari e di intelligence.
È dalla guerra contro la Spagna (1898) che gli Stati Uniti sono in espansione extracontinentale. Quasi mai via annessione: l’unica colonia “ufficiale” – le Filippine ereditate da Madrid sconfitta in quella guerra, di cui il presidente McKinley non sapeva che fare – ha conquistato l’indipendenza nel 1946. Paradigma totalmente diverso dagli imperi coloniali europei. E da quello britannico, di cui pure ha ereditato la vocazione oceanica. Ma Londra non ha mai preteso alla redentrice missione universale su cui Washington ha poggiato la sua influenza nel mondo. Né gli inglesi disponevano della strapotenza militare ed economica, ancor meno del
di cui la città sulla collina ha goduto nell’ultimo secolo – oggi assai meno.
L’informalità del suo impero consente all’America un grado notevole di flessibilità tattica. Di qui il sistema di alleanze o di più lasche intese che disegna la sfera d’influenza a stelle e strisce. L’uso disinibito della forza, sia per invadere Paesi nemici sia per missioni di mantenimento della pace o comunque per esercitare pressione militare, è ben rappresentato dallo stemma dell’Aquila Americana, con una freccia legata a una zampa e un ramoscello d’olivo nell’altra. Secondo uno studio di Christopher Kelly e Stuart Laycock risalente al 2015, solo 3 paesi sui 193 riconosciuti dall’Onu non hanno mai sperimentato l’impronta dello stivale americano sul proprio territorio: Andorra, Bhutan e Liechtenstein.
Il postulato su cui dalla Seconda guerra mondiale si orientano gli strateghi americani verte sulla necessità di impedire che in Eurasia nasca una contropotenza capace di sfidare il primato a stelle e strisce. In termini concreti, occorre stroncare ogni velleità di intesa visibile o sotterranea fra russi e tedeschi. Dalla fine del secolo scorso la catena ha aggiunto il terzo anello, quello cinese. Un’intesa Berlino- Mosca-Pechino sarebbe una versione aggiornata e assai più minacciosa dell’asse Roma-Berlino-Tokyo. Nella guerra di Ucraina, quindi, l’obiettivo principale di Biden è stato già raggiunto: il sabotaggio del gasdotto baltico Nord Stream, che connetteva direttamente l’energia russa all’industria tedesca, simboleggia questo successo, chiunque sia stato a compiere materialmente l’attentato.
L’architettura imperiale americana verte sul principio che non vi è letteralmente centimetro quadro di terra o di mare che possa lasciare l’America indifferente. L’intelaiatura della struttura militare e di intelligence che ne protegge gli interessi è quindi globale. La nostra carta dell’impero americano, che evidenzia la marittimità dell’impero, mostra come ogni Flotta della US Navy sia responsabile di una quota di Oceano Mondo. Il punto è controllare direttamente o indirettamente i colli di bottiglia (
regolatori dei traffici da cui passano i nove decimi delle merci, oltre a cavi Internet, gasdotti, oleodotti. Inoltre, il Pentagono attribuisce ai comandi regionali interforze, che coprono tutta la superficie della Terra, una funzione preminente. I responsabili hanno poteri speciali, tanto da muoversi spesso in autonomia rispetto a Washington.
In questa struttura spicca il nucleo duro dell’impero: l’Anglosfera. Centrata sull’accordo dei Cinque Occhi – inglese, americano, neozelandese, canadese e australiano – che si scambiano informazioni privilegiate in nome della fiducia reciproca, non solo figlia della lingua. Rete di tecnocrazie intergovernative che va molto oltre l’intelligence e disegna una comunità anglosferica di formidabile potenza.
L’Europa è l’unica regione organizzata in forma di alleanza: la Nato. Varata nel 1949 e da allora in continuo allargamento, a disegnare la direttrice di espansione dell’influenza americana sul nostro continente. L’Italia ne è socio fondatore malgrado lo status di Paese sconfitto e la mancanza di accesso diretto all’Atlantico. Basterebbe questo per ricordare a noi stessi l’importanza geostrategica dello Stivale, all’incrocio fra Europa e Africa, fra le rotte atlantiche e quelle indo- pacifiche. Sarà bene tenerlo a mente: per Washington è impensabile che l’Italia finisca in mani nemiche. Per noi, spesso attratti dallesirene del neutralismo e incapaci di considerare l’esistenza stessa di un qualsiasi nemico, realtà da imparare a memoria.
L’America vede nella Cina l’unico avversario capace di prendere il suo posto al vertice del sistema mondiale. La Russia non può ambire al titolo supremo, ma contribuisce a minare l’impero americano. È allineata a Pechino per ragioni tattiche – senza il sostegno cinese l’avventura ucraina sarebbe molto più ardua – e di prestigio. In prospettiva storica, la strana coppia sino-russa è eccezione. Prodotta dal tentativo americano di portare l’Ucraina nella Nato, in violazione del principio che i nemici vanno divisi, non uniti. Ciò che America unì, America saprà ridividere? Ogni giorno più difficile, ma non impossibile.
Nella dottrina di sicurezza Usa, dopo i due nemici principali vengono Corea del Nord, potenza nucleare effettiva, e Iran, Stato atomico virtuale, capace di produrre in due settimane un piccolo arsenale. Per il Pentagono occorre aggiungere alla lista il terrorismo – curioso assemblaggio di quattro potenze e un metodo bellico adottabile da qualsiasi soggetto. Per chi come i militari ama gli schemi, 4+1 è la formula del Male.
Washington si concentra sul contenimento dei nemici. Oggi sinonimo di vittoria. La carta che ne illustra i termini evidenzia la priorità oceanica della geopolitica americana. Tutti i nemici citati si concentrano in Eurasia, il continente che prima della scalata statunitense al potere mondiale ha espresso i principali imperi. Qui sono incardinati i terribili Quattro. Per stroncarne le ambizioni è obbligatorio controllare i mari che circondano il supercontinente. Dove possibile, grazie al contributo di alleati insediati lungo le frange eurasiatiche o nella loro immediata prossimità: i paesi euroatlantici, a ovest, la Corea del Sud e il Giappone, in Estremo Oriente. Più lontana anche l’Australia, nello scacchiere sud-orientale, con la Nuova Zelanda.
La parola d’ordine che legittima tale strategia è “aperta e libera navigazione” in tutti i mari. Tradotto, significa poter esercitare contro Russia, Cina, Iran e Corea una pressione tale da imporre un blocco navale che verta rispettivamente su Kaliningrad, San Pietroburgo e Dardanelli, sui Mari Cinesi e lo Stretto di Taiwan, su Bab al-Mandab e Hormuz, infine sul Mar del Giappone.
A complicare il quadro, la penetrazione cinese e russa in Africa, con annessa campagna di reclutamento nel “Sud Globale”. Sigla generica, che accomuna una eteroclita famiglia di ex colonie sovraccariche di risentimento verso i loro ex padroni europei, oggi più o meno allineati con l’America. Russi e cinesi puntano a presidiare le vie di comunicazione africane con l’Eurasia anche attraverso la costruzione di basi e porti tra Mediterraneo e Mar Rosso, che insieme formano il Medioceano, come pure lungo le coste dell’Oceano Indiano. L’allarme riguarda oggi la possibilità che la Cina, già insediata a Gibuti, crocevia strategico fra Medioceano e Indiano, apra una base lungo la facciata atlantica del Continente Nero. Affiancata magari dalla Russia.
Oggi l’America ha più bisogno che mai di amici e alleati. Alcuni dei quali pensano di aver meno bisogno dell’America. Non è il caso dell’Italia. La crisi americana è un problema esistenziale per chi da tre quarti di secolo vive all’ombra del Numero Uno, al punto da essersi autoesonerato dal definire il proprio interesse nazionale, salvo chiacchierarne a intermittenza. Rovesciando la prospettiva, è anche il segnale che l’Italia deve assumersi le responsabilità irresponsabilmente scansate finora. È tempo di rimettere a fuoco gli interessi reciproci, italiani e americani, e di agire per conseguenza.
L’occasione per crescere deriva dalla necessità americana di devolvere parte della sicurezza occidentale a Paesi affidabili. Non è solo questione di orientamento geopolitico, ma di capacità di assumere un ruolo concreto e fattivo nel contesto della nostra alleanza. La Nato è di fatto un insieme di intese bilaterali a varia intensità imperniate sugli Usa.
Nel recente passato, la nostra passività e un’interpretazione servile del rapporto con Washington, punteggiata da qualche scappatella, ci ha inflitto un doppio danno. Primo, a forza di sentirsi rispondere di sì a prescindere dalla domanda, i leader americani hanno rinunciato a chiederci qualcosa, prendendosi quel che serviva, a cominciare dall’uso allegro delle basi. Secondo, poiché dopo la fine della guerra fredda gli interessi essenziali di Italia e Stati Uniti non sono più automaticamente sovrapponibili, abbiamo accettato di collaborare a destabilizzare il nostro estero vicino, dai Balcani al Nordafrica. Come mostra la carta che suggerisce le aree di speciale collaborazione italo- americana, oggi possiamo avviare la ristabilizzazione di quegli spazi perché Washington li considera secondari ma non ininfluenti. Evitare che cadano sotto l’influenza cinese, russa o di altra potenza ostile è interesse comune. Una parte del lavoro può essere svolta da noi, perché ne va della nostra sicurezza. In collaborazione con americani ed europei occidentali disponibili. Ma a partire dai nostri interessi, e dall’interesse americano a spendere risorse altrui per sciogliere nodi che intralciano la strategia a stelle e strisce.
Fresco bagno di realtà, dopo decenni di retorica. La difesa europea non esiste e non esisterà per inesistenza del soggetto che dovrebbe produrla. La difesa dell’Italia e dell’Europa si fa con l’America o non si fa. Per orientarla anche verso i nostri interessi, urge varcare finalmente la linea d’ombra che ci classifica immaturi. L’America non è la mamma soccorrevole cui ci siamo finora aggrappati. Ma continuerà ad aver bisogno del suo impero europeo, Trump o non Trump. Quindi anche di noi.
Qualche anno fa, un dirigente del Dipartimento di Stato si rivolse a un ospite italiano con queste parole: «Vede, con voi abbiamo un problema che non abbiamo con nessun altro. Quando vi chiediamo che cosa volete da noi, tacete». Impareremo mai a rispondere a questa domanda?