la Repubblica, 7 luglio 2024
Intervista a Ivana Spagna
Signora Spagna, saprà che in tanti pensano che Spagna sia un nome d’arte.
«E invece no, era il cognome di mio padre, un uomo bellissimo che assomigliava a Gary Cooper.
All’inizio della carriera, nelle balere e nelle discoteche adottavo pseudonimi inglesi, la lingua che usavo cocciutamente per cantare. Ma quando ho deciso di fare qualcosa proprio per me, sono diventava Ivana Spagna. Come all’anagrafe».
Ed è stato un successone, o come si direbbe adesso, un tormentone: “Easy Lady”.
«È partito tutto da lì, dopo una dozzina d’anni di gavetta e cambiali: chiuse le serate, ci restavano soltanto i soldi per l’affitto e per mangiare, tutto il resto serviva a pagare i debiti. Ma era bellissimo».
Com’è diventata Spagna?
«La voce è un dono del cielo e dei miei genitori, io ci ho messo il duro lavoro. Mai cercato il successo: quello, è una diretta conseguenza delle cose fatte per bene e con amore. Se lo rincorri, non arriverà mai. Mi ero incaponita di cantare in inglese per far ballare la gente, e con gli pseudonimi cominciai a scalare le classifiche in Germania e Olanda. Per guadagnare qualcosa in più, con mio fratello Theo scrivevamo anche jingle pubblicitari. E ai concerti scaricavo le casse, a volte saldavo anche i jack col saldatore a stagno che so usare benissimo».
Ma perché questa fissazione con l’inglese?
«Avevo deciso e basta. Vennero produttori musicali anche molto importanti, ad esempio Mario Lavezzi e Daniele Pace, che volevano portarmi a Sanremo. Posso cantare in inglese?, chiedevo. E loro mi rispondevano di no. Così, rifiutavo sempre. Se avessi voluto il successo rapido, sarebbe bastato accettare,però sarei diventata solo una brava cantante italiana come tante».
Lei proviene da una famiglia povera. Le è servito?
«Papà aveva un caseificio, ma fallì e andò a lavorarci come operaio. A volte non avevamo neanche i soldi per il brodo, e credo che essere partita in questo modo mi abbia aiutato a considerare una grazia tutto quello che è venuto dopo. Da bambini, però, non ci si accorge di quando a casa mancano i soldi. Sono stata molto felice, piena di fantasia».
Cos’è la fantasia, per lei?
«Non solo arte, anche se con la pittura me la cavo, sono una buona ritrattista: Tina Turner, George Benson e George Clooney hanno a casa i ritratti fatti da me. La fantasia è scrivere e strimpellare al pianoforte fino alle due di notte, io sono un tipo molto casalingo e per niente mondano. Mi piace creare. Stia a sentire: siccome mi piace inventare le cose, una volta mi venne in mente una bambola con i pezzi della faccia intercambiabili, gli occhi, il naso, la bocca…».
La bambola col lifting!
«Sì, giusto, del resto io ne so qualcosa».
Per carità, signora, non volevamo dire questo.
«Ma no, non c’è niente di male, non bisogna mica demonizzare la chirurgia estetica. Sa quanti anni sono, ormai? Lasciamo perdere. Ma dicevo della bambola: volevo brevettarla, però mi spiegarono che produrla sarebbe costato troppo. Morale della favola: me la ritrovai in commercio senza vedere una lira. Come quell’altra volta con la bilancia. Vuole sapere?».
Siamo qui per questo.
«Allora, una ventina di anni fa mi venne in mente una bilancia per pesare i cibi indicando anche le calorie e i grassi. Brevettai il progetto. Però, lo sapete, i brevetti non basta depositarli e pagare, bisogna aggiornarli. Mi arrivò la comunicazione della scadenza ma ero in viaggio, così chiesi a mio fratello di occuparsene. Lui se ne dimenticò, e quella bilancia la fecero altri. Sa, c’è gente che aspetta proprio la scadenza dei brevetti per impossessarsene».
Dicevamo della fantasia.
«Per me non è solo il canto. Ho scritto tre libri, il primo era una fiaba sugli animali da proteggere, e ne ho in mente altri due».
Scrive ancora canzoni?
«Certamente, però poi le lascio lì. Sa, quando mi chiamano in tivù vogliono sempre Easy Lady, Call me o Il cerchio della vita, diventa difficile proporre altro. Forse a Sanremo, ma lì è ancora più complicato».
Però lei canta sempre, no?
«Faccio tantissime serate, è la passione della mia vita e sul palco il tempo si ferma, Ivana Spagna torna la diciottenne che cantava in balera.
Perché sono felice, questa è la chiave di tutto: la gioia nel lavoro».
Lei è stata, come si dice, un’icona
della disco dance. Ne è orgogliosa?
«Quella è musica che entra nella vita delle persone e non se ne va più.
Scandisce i ricordi, il tempo. Un bel tormentone è per sempre, è come lo sbarco sulla Luna. Io me lo ricordo, sa? Con la mia famiglia eravamo a Borghetto di Valeggio sul Mincio, provincia di Verona, dove sono nata.
Era notte: uscimmo sul balcone a guardare la Luna, ci dicevamo “vedi, adesso c’è un uomo lassù”».
Non capita a tutti di essere scelti da Elton John.
«La Walt Disney mi chiamò per un provino per la colonna sonora delRe Leone,scritta appunto da Elton John.
Quando seppi che avrei dovuto cantare in italiano, come al solito dissi no, però poi mi spiegarono che sarebbe stato un cartone animato molto importante, così mi convinsi e accettai. Passarono mesi senza che accadesse niente, ma alla fine mi richiamarono per il provino e mi mandarono il nastro sul quale registrare la canzone, una pizza tipo quelle dei vecchi film: avrei dovuto incidere la mia voce su uno spazio bianco, nella traccia dove già si erano esibite alcune tra le più importanti artiste italiane. Ma i nomi non li faccio».
Le accade di cantare solo per sé stessa? Per il puro piacere di farlo?
«Durante il Covid, chiusa in casa mi venne in mente di fare un arrangiamento a Have you ever seen the rain? resa famosa da Rod Steward. Però, con la tecnologia sono un disastro, così mio fratello mi guidò a distanza, via computer. Ho suonato gli archi, un orgoglio enorme, e ho cantato chiusa dentro un guardaroba per via dell’insonorizzazione».
Altro che gli studi di registrazione di Abbey Road.
«Abbey Road bisogna averla dentro, se no è tutto inutile».