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 2024  luglio 07 Domenica calendario

Intervista a Luciano Canfora

Luciano Canfora, 82 anni, insigne grecista, molti la ritengono un cattivo maestro.
«Pazienza. Evidentemente devo imparare ancora un po’ più di greco».
Il 7 ottobre inizia il processo per la presunta diffamazione a Giorgia Meloni. È preoccupato?
«No. Piuttosto sono stupito nello scoprire che esiste ancora il reato di opinione».
L’ha definita “una neonazista nell’animo”.
«Neonazista è una categoria politica, non un insulto».
I nazisti si sono macchiati di genocidio.
«Ma io non ho detto che è nazista. I neonazisti sono quelli che si richiamano ad alcune ideologie, come la sostituzione etnica paventata dal ministro Lollobrigida, oltreché dal Mein Kampf».
Fino a che punto può spingersi un intellettuale?
«Forse dieci anni fa non sarebbe successo. Oggi prevale una grande pruderie linguistica».
Siamo dentro un inedito?
«Prenda l’inchiesta di Fanpage. Le derive naziste ci sono sempre state solo che con questo governo è diventato lecito esibirle. L’ha ricordato Segre. E io concordo».
Era mai stato querelato?
«Una volta, da Giulio Caradonna, il missino. Sul Corriere lo avevo definito “un ex picchiatore fascista”.
In tribunale l’avvocato Fausto Tarsitano produsse un libro nel quale Caradonna si vantava di avere distrutto la libreria Rinascita di Roma. Venni assolto».
Con Meloni ha avuto contatti?
«No. All’udienza predibattimentale il suo avvocato ha detto che io sono uno stalinista, e siccome Stalin era un criminale notorio, io dovrei essere condannato, suppongo per la proprietà transitiva».
E il pubblico ministero?
«Ha detto che c’è un’aggravante perché la mia frase è stata pronunciata in una scuola».
Che giorno era?
«Il 12 aprile 2022. Sarei dovuto andare in Ticino a parlare di Dante, e invece mi lasciai convincere a partecipare alla presentazione del libro di Sara Reginella sui crimini ucraini nel Donbass al liceo Fermi di Bari».
Chi ha diffuso la sua frase?
«Non saprei. Tre minuti dopo era già sui social. Con Crosetto che mi insultava e la Meloni che annunciava: “Una querela non gliela toglie nessuno”. Il pm ha sottolineato che la preside ha preso subito le distanze».
È stupito?
«Beh, sì. Perché io ricordo che mi ha rincorso per ringraziarmi entusiasta della mia lectio. Don Abbondio era un grande italiano».
La premier ha chiesto un risarcimento di 20mila euro.
«Berlusconi a Laterza chiese un milione, vedo che l’onorevole Meloni è più asciutta».
Come spiega il successo in libreria del suo libro Il fascismo non è mai morto?
«Perché la frase di Gobetti sul fascismo come autobiografia della nazione contiene più di una verità».
Il fascismo ci appartiene?
«Lo abbiamo inventato noi».
Come lo definirebbe?
«Il filosofo Jason Stanley vede nel rancore di chi si contrappone a chi ti porta via qualcosa la radice del fascismo: negli anni Trenta gli ebrei e i comunisti, oggi i migranti».
Ma una democrazia governata dall’estrema destra non è fascismo.
«Però è opportuno occuparsene sin d’ora, cogliendone i pericoli, e discutendone senza impazienze moralistiche. La critica è più utile della retorica».
Il premierato che rischi implica?
«Se passa ci sono le premesse per altri cinque anni come questi».
Il suo antifascismo nasce in famiglia?
«Mio padre era affiliato a Giustizia e Libertà. I fascisti lo mandarono in Calabria nel 1942, quando sono nato io. L’anno dopo, il 28 luglio 1943, era nel corteo che in via Niccolò dell’Arca a Bari chiedeva la liberazione dal carcere dei detenuti politici, tra cui Guido Calogero, il suocero di Ugo La Malfa».
Cosa accadde?
«Dalla federazione fascista spararono sulla folla. Ci furono 28 morti. Mio padre rimase gravemente ferito. Si salvò soltanto grazie a un amico imprenditore, Girolamo Lo Priore, che ebbe la prontezza di adagiarlo su un carrello dell’immondizia e portarlo in tempo in ospedale».
Che facevano i suoi?
«Mio padre insegnava storia e filosofia al liceo Orazio Flacco. Mia madre greco e latino nello stesso liceo».
Che educazione ha avuto?
«Di sprone alla critica. Mio padre a dodici anni mi suggerì di leggere La rivoluzione francese di Albert Mathiez».
E lei che padre è stato?
«Non predicatore. Ho cercato di fornire un esempio. Molti trattati di pedagogia si potrebbero ridurre a poche pagine se i genitori dessero l’esempio».
Con sua moglie quando vi siete conosciuti?
«Studiavamo filologia classica. Era il 1960. Otto anni dopo ci siamo sposati».
Siete diversi?
«Io tendo alla freddezza, perché penso, come Seneca, che l’ira sia una forma transitoria di pazzia. Lei ha una reattività più forte. Ho imparato tantissimo da lei».
Cosa fanno i suoi figli?
«Insegnano all’università: Irene, 54 anni, diritto agrario comunitario, Davide, 51, letteratura italiana».
Non vedo un pc sulla sua scrivania.
«Non so usarlo infatti».
E come scrive i libri?
«A mano, con la stilografica».
Dove andrà in vacanza?
«Me ne starò qui a scrivere».
Ma lei lavora sempre.
«Diceva Croce: mi riposo cambiando lavoro».
Non fa vita sociale?
«No. Vado a letto ogni sera alle 22,35».
Spaccate?
«Sì, e mi sveglio ogni mattina alle 5,10. C’è tanta luce, d’estate, da qui vedo il mare. Ho tutto quello che mi serve per lavorare».