il Giornale, 7 luglio 2024
Intervista a Enrico Ruggeri
I nutile introdurre Enrico Ruggeri, un musicista che calca le scene dal 1977 con successo ininterrotto, un autore di canzoni entrate nella storia, un vincitore (due volte) del Festival di Sanremo. Ruggeri ha appena pubblicato, con La nave di Teseo, Quaranta vite. Il libro è composto da quaranta capitoli, che sono poi quaranta dischi. Ruggeri è un magnifico narratore, soprattutto nelle sue canzoni, ma anche nel suo recente romanzo e in televisione e in radio. Questo libro non solo racconta Ruggeri e la storia dei suoi brani, racconta anche la Storia d’Italia. Alla fine di ogni capitolo, c’è un elenco dei fatti storici avvenuti nell’anno preso in esame da Ruggeri. A volte quello che succede spiega le canzoni, ma più spesso sono le canzoni di Ruggeri che ci aiutano a capire cosa stiamo vivendo. Lo incontro alla Milanesiana, la rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. In questi giorni ha fatto tappa ad Ascoli.
Partirei dalla timidezza, il tema della Milanesiana di quest’anno. A cosa pensa prima di salire sul palco? Le ha mai fatto paura oppure no?
«Paura no. C’è molta impazienza. In genere, il momento più lungo della giornata è il minuto prima di salire sul palco. Non c’è ansia, credo di saper governare la situazione».
Il suo esordio è nel 1977, un anno difficile, a Milano c’erano scontri tutti i fine settimana. Cosa ricorda di quel periodo?
«Una dittatura. Una dittatura che partiva da un clima di terrore. Faccio un esempio. La prima volta che sono andato in piazza San Babila avrò avuto ventotto anni, cioè io per tutta l’adolescenza non sono mai entrato in piazza San Babila per la paura del mito di piazza San Babila: io vado lì, mi menano, mi fotografano Quindi era un periodo di dittatura, che partiva dai professori».
Dalla scuola?
«Sì. Mi ricordo il programma di Filosofia: arrivavi a Kant e poi passavi a Marx. Schopenhauer e Nietzsche come se non esistessero. Nel programma di Italiano, arrivavi al Manzoni, dopodiché il Verga andava bene perché comunque parlava di sottoproletariato, ed era molto più interessante di Svevo che invece parlava della borghesia. Si saltava il Futurismo, si saltava D’Annunzio, e si passava alle Lettere di Gramsci».
Che scuola hai fatto?
«Io frequentavo uno dei migliori licei di Milano, il Berchet. Dovevano formare una classe dirigente. È stato un lavoro capillare nel quale la sinistra è stata molto più lungimirante della destra, che si è disinteressata dell’istruzione e della cultura. La destra non ha capito che creava un vuoto duraturo, infatti c’è ancora. Il contesto era molto violento. Mi ricordo Sergio Ramelli. Un ragazzo di diciannove anni. Aveva scritto un tema nel quale accusava lo Stato di essere troppo morbido con le Brigate Rosse. Il professore di italiano appese il tema nella bacheca all’ingresso della scuola. Lo espose alla gogna. Poco tempo dopo Ramelli viene ammazzato sotto casa a sprangate da sei militanti, credo di Avanguardia Operaia, che poi sono diventati classe dirigente: uno è diventato primario, uno medico, uno avvocato Una parola sbagliata ti poteva costare carissima. Però questo per me fu un vantaggio, perché a un certo punto arrivò il punk; andai in Inghilterra e vidi i punk che dissacravano il sistema».
E così lanciò la sua band, i Decibel?
«I Sex Pistols scioccarono l’Inghilterra. Era il momento del Giubileo della regina Elisabetta. Affittarono un barcone, cantarono God Save the Queen, brano dissacrante. Allora io ho detto: voglio farlo anche in Italia. Però c’era una differenza fondamentale. Cosa facevi, una cosa contro Andreotti? Ma tutti i sabato pomeriggio c’era una manifestazione contro Andreotti! Fanfani, idem.
Non c’era nulla da dissacrare?
«Potevi dissacrare il Movimento, perché il Movimento era la Parola, la Verità. In Italia nessuno aveva capito cos’era il punk, i giubbotti neri, i capelli corti, niente barba: non somigliavano agli Inti Illimani... Quindi mi dico: organizziamo un finto concerto punk. La data era il 4 ottobre 1977. Qualche notte prima mettiamo dei manifesti: concerto punk con Decibel, lire 1500, discoteca Piccola Broadway, via Redi angolo Buenos Aires, Milano. Il padrone della discoteca era ignaro di questo blitz. Andiamo ad appendere i manifesti nei licei caldi, davanti ai centri sociali e vicino alle sedi dell’Anpi. Quindi succede quello che avevo previsto: arrivano un po’ di punk, arriva l’Anpi, arriva il Movimento studentesco; si menano, ci sono dei feriti, interviene la polizia. Il giorno dopo un gruppo sconosciuto come i Decibel era su tutti i giornali, pagine nazionali. Ai primi di dicembre, dopo un’asta fra le case discografiche, ci troviamo nel migliore studio d’Europa, il Castello di Carimate, a registrare il primo album».
Il secondo album dei Decibel, Vivo da re, le ha regalato il primo successo vero. Come ha reagito?
«A noi piacevano gli Stranglers, il punk, i maledetti come Lou Reed, Iggy Pop, David Bowie. Dopo la nostra apparizione a Sanremo, con Contessa, avevamo un pubblico di ragazzine, e questo non ci faceva particolarmente piacere. Se tu ami Iggy Pop e ti arriva un orsacchiotto di peluche sul palco, ci rimani male. La storia ha reso merito a questo album, però in quel momento lì noi venivamo cercati, più che da Ciao 2001 e da Rolling Stone, dai mensili per ragazzine. Siamo rimasti un po’ sbalestrati. Non a caso poi l’avventura è finita presto. C’è stato un contenzioso tra discografici, sulla nostra pelle. Non eravamo pronti per affrontare questa situazione, e ci siamo sciolti nel dicembre dell’80».
Mi ha colpito la storia di Nuovo swing, canzone che la rese universalmente noto. La vuole raccontare?
«A molti miei collaboratori la canzone non piaceva perché era strana: come, dicevano, tu vieni dal rock, e ora lo swing un po’ alla Tom Waits, un po’ anche, mi dissero, alla Sergio Caputo, bravissimo cantautore che si stava facendo largo. In più, il direttore generale della CGD lesse il testo, e me lo restituì sottolineato, tipo tema scolastico, perché c’era una frase che diceva musicisti session men hanno già sviluppato il refrain. E lui mi disse: La parola refrain non si usa più e la parola session men non la capisce nessuno. Non si può fare una rima così. Mi sono impuntato. Alla fine la casa discografica decide di investire una bella cifra. Registriamo tutta la base con i migliori jazzisti, i numeri uno. Ai tempi dell’analogico si registrava sui nastri. Tutto va bene e i musicisti se ne vanno dopo avere emesso regolare fattura. Noi continuiamo a incidere. Il tecnico sbaglia e noi registriamo la canzone successiva, La donna vera, sopra Nuovo swing, cancellandola in maniera irrimediabile. In un pomeriggio, ri-registriamo Nuovo swing, con la batteria finta, il basso della tastiera invece del contrabbasso, i fiati finti. Facciamo di necessità virtù, e questo crea una sonorità particolare, che forse è il segreto del successo».
Lei ama il tema del volo e Gabriele D’Annunzio. Come mai?
«Il volo su Vienna è un episodio incredibile. Gabriele d’Annunzio riesce a raggiungere Vienna, durante la Prima guerra mondiale, con un aereo col quale noi non andremmo da qui a Macerata per la paura, supera le Alpi senza navigatore, aiutandosi con la bussola Arriva a Vienna, e invece di bombardare gli austriaci, butta i volantini, che dicono: noi potevamo anche spararvi, ma siamo italiani e queste cose non le facciamo. Era veramente un’Italia Purtroppo non è più così, ma quella beffa esalta la parte migliore dell’italianità».
Lei, dall’impegno, non politico, dall’impegno civile, oltre al successo di Si può dare di più, ha tirato fuori un brano come Primavera a Sarajevo. Lei è stato a Sarajevo?
«Io sono stato a Sarajevo con la Nazionale Cantanti. Andai a Sarajevo con una ditta farmaceutica. Ci sono anche dei momenti in cui le ditte farmaceutiche fanno del bene. Ci danno un sacco di medicine, le mettiamo su un Hercules dell’Aviazione militare perché a Sarajevo non c’era più l’aeroporto, e andiamo lì a giocare per i nostri soldati. Era il 2001. Io sono di una generazione che nell’infanzia percepiva le guerre come qualcosa di lontano. Arrivavano con la tv in bianco e nero, che dava un tocco di irrealtà, e arrivavano dal Vietnam, dall’Indocina, dal Sudest asiatico, poi c’erano l’India e il Pakistan Guerre lontane. Poi ecco che negli anni Novanta arriva questa guerra che si combatte dall’altra parte dell’Adriatico, qua di fronte. Un conflitto di una violenza incredibile, durante il quale vengono dissepolte asce di guerra rimaste sotterrate per secoli. Volevo rendermi conto direttamente. Mi innamoro di questa città, ci torno, vado a farci un video, conosco alcune persone, nascono dei rapporti umani con gli operatori ma anche con gli abitanti di Sarajevo. Quindi, come spesso accade dietro a una sensazione forte, nasce la canzone».
C’è un’altra storia incredibile: quella dell’album perduto a Cuba. La vuole raccontare?
«Per fortuna su Internet ci sono tre filmati Enrico Ruggeri a Cuba, altrimenti nessuno mi crederebbe. Il mio produttore di allora, Silvio Crippa, viene contattato da un tipo, un industriale italiano con moglie cubana, che vuole fare un disco a Cuba. Arrivano quattro biglietti di prima classe, albergo e tutto quanto. A Cuba c’erano l’orchestra, gli arrangiatori, i musicisti. Quaranta, cinquanta musicisti cubani hanno iniziato a vivere questo album, mio, di mie canzoni tradotte in spagnolo, come se fosse loro. Bellissimo. Poi io torno, e la persona che mi ha invitato sparisce nel nulla. Il disco non si può fare, perché non sono proprietario delle incisioni. Ma ne ho una copia. Chissà».
Il mercato spinge a fare la singola canzone, lei invece fa un concept album come negli anni Settanta, Frankenstein. Cosa la affascina del mostro?
«Frankenstein è una metafora incredibile. Secondo me Frankenstein è andato al di là delle intenzioni di Mary Shelley. Le è esplosa una bomba in mano, perché ricordiamoci che lei aveva diciannove anni. È l’età media di un fan di Bello Figo oggi. Invece lei scrive Frankenstein e tocca una serie di temi: tutto nasce dall’ambizione sfrenata del dottor Frankenstein, che vuole lasciare un segno. Poi c’è la consapevolezza che l’uomo non accetta più l’idea della morte e rifiuta perfino l’invecchiamento. Un altro tema è il confine sempre più labile tra scienza e filosofia. E ancora, c’è il bisogno d’amore: dare e ricevere amore è un bene primario come mangiare, dormire, bere. Alla fine c’è l’incontro col trascendente, con l’infinito, in mezzo ai ghiacci».
Nel 2014 ha scritto una canzone, L’onda. Presentò questo singolo al Sanremo di Fazio e fu scartato perché il tema era...
«Diceva: Europeisti, cattocomunisti, innovatori progressisti plasmati dall’onda. Portarla a Fazio non fu un’idea geniale».
Il 2020 è stato per tutti un anno stranissimo, lei è passato da una trasmissione di successo in Rai al lockdown. Come ha vissuto quei giorni di solitudine?
«Ho scritto un libro che non sarei mai riuscito a completare così rapidamente, il romanzo Gioco da ragazzi, e credo rimarrà la cosa più importante che io abbia mai scritto e che scriverò. Quindi, per uno come me che fa molte cose insieme, doversi dedicare a una sola dal punto di vista personale è stata una bellissima lezione, quindi sono contento. Dal punto di vista sociale, la mia idea è che l’uomo è fatto per volare alto rispetto agli animali: parla, piange, ride, scrive libri, canta. Per cui vedere le persone contente di stare chiuse in casa e avere come unico scopo mangiare, dormire ed evitare di morire mi ha un po’ intristito. È una umiliazione che il genere umano si è autoinflitta».
In La mia libertà dice: «La mia libertà sarà restare solo
La felicità sarà spiccare il volo». Non è una frase molto dura?
«In realtà la solitudine è un premio, spesso. Non mi ricordo chi disse: se hai paura di restare solo vuol dire che sei in cattiva compagnia. In effetti se sai vivere anche da solo ci sono tante cose belle da fare».
Io ho finito le mie domande. Torniamo alla timidezza?
«Ero un ragazzo timido; poi, un po’ perché gratificato, un po’ perché ho lavorato su me stesso, ho smesso di esserlo. Faccio un piccolo elogio della timidezza. La timidezza ti spinge a misurare le parole. Una volta era così: i ragazzini sentivano parlare gli adulti e si dicevano aspetta un attimo, forse non sono in grado di intervenire, oppure sentivi qualcuno preparato in qualcosa perciò te ne stavi zitto. Un po’ era timidezza, un po’ era educazione, un po’ era prudenza. Con i social non è più così, per cui arriva Fragolina99 e mi spiega come fare i dischi. Abbiamo avuto milioni di virologi, milioni di esperti di politica internazionale, milioni di criminologi, adesso commissari tecnici. I social ci hanno liberato dalla timidezza ma ci hanno fatto diventare, ogni tanto, anche degli inguaribili cazzari».