il Giornale, 6 luglio 2024
Scalfari, i merli, l’Ingegnere e le Brigate Rosse
Giovanni Valentini, Il romanzo del giornalismo italiano. Cinquant’anni di informazione e disinformazione (La nave di Teseo). Punto a capo.
Va bene così? Ho cominciato subito con la notizia, direi lapidaria: autore, prodotto, prezzo. Ottemperato al primo comandamento del bravo giornalista, separare i fatti dalle opinioni, a questo punto, fornisco il mio parere: è un bel libro. Il racconto di mezzo secolo di giornalismo italiano scorre, grazie alla perizia dell’autore, come un fiume che va placido e pulito verso il Mare. Quale mare? Il Mar Morto. In realtà, Valentini cerca di farsi coraggio, e il capitoletto finale lo intitola «Un futuro possibile», e chiude con queste parole speranzose: «Il romanzo continua». Ah, certo: le frontiere che apre Internet, le piattaforme su cui si ergeranno nuovi mezzi e nuovissimi messaggi. Tutto vero. La cosa sicura è che quel mondo lì che lui e io abbiamo vissuto, entrambi in tutti i ruoli, da quello di cronista a quello di direttore, è in agonia. E non ce n’è uno nuovo che nasca dalle ceneri.
Eppure, proprio leggendo queste pagine, che paiono la cronaca degli ultimi giorni di Pompei, mi rendo conto che l’essenza del giornalismo, comunque si declinerà in futuro, è immortale, sempre che l’umano persista: alcuni uomini e alcune donne vivono per raccontarla, la vita. Quella dei piccoli e dei grandi, quella degli altri e la propria. È qualcosa di ineluttabile. Due mestieri sono eterni: la prostituzione e il giornalismo, non so quale dei due sia più nobile. Persino la descrizione mesta che Valentini ci offre dei segni della sua fine, e cioè i catorci di metallo che una volta si chiamavano edicole e adesso ingombrano come rottami gli angoli della città, è la prova che deve per forza sopravvivere anche dopo la sua morte. Valentini lo testimonia con il suo stile piano e per così dire attico, senza singhiozzi né riccioli, sostenuto da citazioni di semiologi americani dell’università dell’Ohio, con rettilinei e larghe curve alla Scalfari; la medesima cronaca sulla fine del giornalismo l’ho gustata in libri e articoli di Massimo Fini: stesse edicole sparite, stile diversissimo, prosa impetuosa, cannoni e vele al vento. Basta così, la finisco con il piagnisteo.
Val la pena piluccare dal libro che non è tutta la storia del giornalismo di quando Valentini cominciò la sua carriera, ma di quello progressista, che ha avuto per nume Eugenio Scalfari, del quale Giovanni è stato figlio prediletto, ma come spesso capita a chi si ama troppo, trascurato nel momento in cui Barbapapà (questo il soprannome del fondatore di Repubblica) accettò senza battere ciglio l’indicazione del suo successore: e cioè Ezio Mauro, con sua ovvia delusione, manifestata senza ipocrisie.
Valentini racconta scontri e tradimenti di quel gruppo di giornalisti mostrando che non sono affatto moralmente superiori. C’è stato, secondo Valentini, un primo grande inquinatore della purezza scalfariana (e di quella del suo socio, Carlo Caracciolo, il principe rosso, fratello di Marella, sposa di Gianni Agnelli), e cioè l’Ingegnere, Carlo De Benedetti, tratteggiato come uomo spietato, irriconoscente, e neppure tanto furbo, al punto da farsi turlupinare nei suoi affari dai belgi, che non passano per campioni di astuzia. Io dell’Ingegnere ho avuto un’esperienza invece positiva, e rendo noto che mi offrì – e non credo proprio scherzosamente – di dirigere La Repubblica, ritenendomi immeritatamente l’unico che avrebbe potuto portare il quotidiano da lui acquistato a peso d’oro da Scalfari e Caracciolo a un milione di copie. Mi tentò, ma stavo bene da Berlusconi.
Il romanzo di Valentini, invero molto realistico, fornisce elementi idonei a ricavare l’idea che tutto il mondo del giornalismo – a bandiera progressista o di destra – è lo stesso Paese. Irriconoscenza, colpi bassi, presunzione, lamenti, insieme a formidabili talenti. Ne ricavo alla fine questa considerazione: che peggio del giornalismo di destra c’è solo quello di sinistra. Un po’ come la classe politica.
Tra i tanti aneddoti che movimentano il racconto di Valentini ne pesco due. E si riferiscono entrambi al momento della carriera che abbiamo in comune: la direzione dell’Europeo. Lui la assunse giovanissimo, a 29 anni, senza grane sindacali, essendo Giovanni di sinistra; io a 45, accolto da due mesi di sciopero, perché inviso ai redattori comunisti (vinsi io).
Il primo è la chiamata alla direzione da parte dell’editore Angelo Rizzoli, dipinto con simpatia. «A febbraio del 1977, mi trasferii a Milano alloggiando provvisoriamente in un residence in via San Pietro all’Orto, a due passi da San Babila e dal Duomo. Nella stessa strada, a pochi portoni di distanza, c’era l’elegante casa milanese di Angelone, cinque anni più grande di me e diversi chili più grosso. La prima volta che mi invitò a colazione subii un piccolo choc. In attesa che l’editore arrivasse, il domestico mi aveva fatto accomodare cortesemente in un salottino. Ma all’improvviso saltai su un divano quando sentii una voce roca e profonda che arrivava da un’altra stanza e ripeteva meccanicamente: An-ge-lo, An-ge-lo, vaf-fan-cu-lo!. Pensai a un litigio familiare... Era un merlo indiano, nero con il becco giallo, che mi fissava tutto fiero della sua bravata» (pagine 57-58). Feci un’esperienza simile ospite di Indro Montanelli: un altro merlo indiano, stesso vaffanculo.
Trovo poi una rivelazione che non mi risulta essere stata presa in considerazione da nessuna delle commissioni parlamentari di indagine che perseguitano il povero Aldo Moro. Lo statista democristiano fu torturato. Vuol dire che sin dall’inizio le Brigate rosse avevano deciso di sopprimerlo. Non si restituisce alla libertà uno che ha scritto e parlato sotto tortura, per ovvie ragioni di propaganda. Valentini aveva scelto di pubblicare sulla copertina dell’Europeo e nelle pagine interne le fotografie di Moro sul tavolo dell’obitorio. Quel numero del settimanale fu sequestrato, in nome di un articolo del codice Rocco che vieta la pubblicazione di immagini raccapriccianti. Il risultato fu quello di occultare una notizia poi sparita dalla circolazione. «Nell’articolo che accompagnava quelle immagini, (Roberto) Chiodi rivelava fra l’altro un particolare inedito: l’autopsia aveva consentito di accertare che Moro, nel corso del rapimento, aveva riportato alcune fratture alle costole. Per un uomo come lui, tanto ipocondriaco da girare con una borsa di medicinali sempre appresso, doveva essere stato un supplizio. E chissà in quali condizioni, fisiche e psicologiche... al limite della tortura» (pagine 65-66). Uno scoop rimandato di 45 anni.
Infine, un consiglio per direttori, capiredattori e docenti alla scuola di giornalismo, non aver seguito il quale ha causato decadenza e agonia del giornalismo persino più di Internet. Quando Valentini è assunto al Giorno, viene accolto da Gaetano Afeltra, amalfitano, alla guida del quotidiano edito dall’Eni dopo essere stato vicedirettore del Corriere della Sera per decenni. Si presentò così: «Si ricordi che io le didascalie, sotto le foto, le facevo scrivere a Dino Buzzati». Rispetto del lettore, cura e umiltà del mestiere.
Vittorio Feltri