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 2024  luglio 06 Sabato calendario

Intervista a Martina Mondadori

Martina Mondadori, classe 1981, fondatrice di Cabana Magazine, primogenita di Leonardo Mondadori e Paola Zanussi, mamma di tre figli. Milanesissima. «Sono tornata a Milano nel 2020, durante la pandemia. Ma sono grata a Londra: negli anni in cui ci ho vissuto c’era un bell’eclettismo culturale. Senza Londra forse oggi non ci sarebbe Cabana: nel Regno Unito la decorazione d’interni è un patrimonio culturale».
La Milano di oggi.
«Piena di stranieri che l’hanno scelta per viverci. Purtroppo anche pressapochista: la gente ha poco amore per la propria città e manca la cultura del verde».
La Milano di bambina.
«Quella della drogheria Parini, in via Borgospesso, dove comperare il panettone a Natale. Sono cresciuta nel Quadrilatero, figlia di divorziati. Il ristorante da Bice era il luogo della mia colazione domenicale con papà. Do un ruolo centrale ai ricordi».
Il piatto della memoria.
«Da piccola con papà ordinavo solo i tagliolini in bianco. Lui chiamava la mamma e gli chiedeva: Martina mangia solo pasta al burro?».
Il suo primo flashback.
«Nella casa della mamma, in via Bigli. Sto giocando».
I suoi genitori.
«Si sono lasciati che non ero nata. Ho avuto una bella infanzia, anche se poco tradizionale. La porta era sempre aperta: ero una figlia unica piena di amici».
Niente Guerra dei Roses.
«Mia madre non ha mai avuto una parola negativa verso mio padre e viceversa. Quando si è ammalato gli è stata accanto».
Nonostante il nuovo matrimonio di suo padre.
«Sono stati anni complicati. Siamo caduti in quelle trappole tipiche delle famiglie italiane benestanti. Ma con i miei fratelli nati dal secondo matrimonio c’è un bel rapporto. Papà ci portava in viaggio dall’Asia al Canada, solo noi quattro».
Cosa le ha insegnato?
«L’amore per la cultura. Sperava che studiassimo negli Stati Uniti. Anche se gli studi umanistici rappresentano le mie radici: leggere Sant’Agostino è stato un sollievo quando ho perso papà».
Le fece conoscere Thomas Harris, autore del libro Il Silenzio degli Innocenti.
«Mi portava a fare dei giri letterari: finimmo a Long Island, dentro a un capannone in giardino pieno di libri. A pranzo Harris si abbuffò: compresi come aveva potuto scrivere un libro del genere».
Ha mai deluso suo padre?
«Forse quando ho deciso di fare l’Università in Italia. Gli dissi che avevo scelto filosofia, lui rispose: “Proprio come me?”. Accettò, ma fece una lista di professori con cui avrebbe preferito non facessi esami. Per uno liberale come papà era strano. Mi spiegò: “Sono autori Mondadori”».
La chiamava con un nomignolo?
«Martins, io invece Poppi. Aveva un grande senso dell’umorismo. Una volta al telefono finse di essere dei surgelati Bo Frost, con un carico enorme da consegnare...»
Sua madre.
«Aveva i piedi per terra, come tutta la sua famiglia friulana. Mi ripeteva: “Ricordati non fare il mio errore di non lavorare, gli amori possono passare, i figli vanno via di casa, costruisci qualcosa che sia tuo”. Ha cominciato a dirmelo all’età di 7 anni».
Deve a lei la sua attività con Cabana?
«Quando ho iniziato a progettare Cabana, Deborah Needleman, caporedattore di The New York Times Style Magazine, mi disse che avrebbe voluto fotografare la casa di mia madre, tutta pensata da Mongiardino. Per noi italiani era una figura polverosa, per gli americani era leggendario. “Perché vuole fare foto qui?”, domandò mia mamma. “Ma se ti fa comodo dille di sì”».
Renzo Mongiardino.
«Era molto presente in casa: da piccola sognavo una cameretta diversa, magari bianca con i fiocchi rosa. La mia era tutta una stoffa a righe blu e rosse toile de jouy».
Un suo insegnamento.
«Diceva che nella storia della umanità il tavolo ha sempre avuto la forma di un tavolo. Stare a reinventare più di tanto non ha senso...».
Ora nella casa di sua madre ha creato un salotto culturale che è un crocevia.
«Si chiama Casa Cabana, parliamo di letteratura, società, l’ultimo incontro era dedicato all’antiquariato, a torto considerato fuori moda. Ci trovi da Carlo Orsi a Emma Watson e Gwyneth Paltrow».
Le sue amiche di Londra...
«Emma Watson ha sentito parlare della libreria di papà e l’ha voluta vedere: vuole diventare una scrittrice e sta frequentando un corso a Oxford. I libri sono la sua ossessione».
È stata lei a far innamorare Gwyneth dell’Italia?
«Adora il nostro Paese e il cibo italiano. In Umbria ha imparato a fare le lasagne: mi ha chiesto dove comperare le pentole migliori a Milano. Parliamo di business, il suo Goop per me è un esempio».
L’imprenditrice italiana che la ispira di più?
«Apprezzo molto le cose che ha detto ultimamente Marina Berlusconi».
E l’imprenditore?
«Amo le persone che partono da zero, da un garage, come Nerio Alessandri. E chi continua a seguire con attenzione maniacale i propri affari: sono passata a mezzanotte davanti al negozio di Giorgio Armani e l’ho visto sistemare la vetrina con il suo team».
La tavola più bella?
«Quella di Lee Radzwill a New York: aveva una sala da pranzo con 8 posti, ma per noi due aprì un tavolino pieghevole. E mangiammo lì. Voleva essere sempre aggiornata sulle cose di noi giovani».
Con chi passa volentieri una serata?
«Con Clementina di Montezemolo. Ci chiamiamo tutte le mattine alle 6. Ma la sera più bella l’ho passata ultimamente con mia figlia Cosima, di 7 anni, al concerto di Taylor Swift a Edimburgo».
Anni fa si è messa in affari con Barbara Berlusconi.
«Abbiamo aperto una galleria d’arte. Poi ognuna ha preso la sua strada: è venuta a trovarmi in negozio. È curiosa culturalmente, una qualità che le viene da sua madre».
E si è messa in politica con Walter Veltroni.
«Ha passione per la cultura come me. Lo apprezzavo e lo apprezzo tuttora»
Si vede ancora in politica?
«Quel fuoco l’ho avuto con di Veltroni. Per ora no, ma voglio far parte del dibattito».
Se dovesse fare una proposta al governo attuale ?
«Ripensare all’idea che all’estero hanno della cultura in Italia. In Inghilterra il nostro Paese è visto come un museo diffuso: non c’è solo Venezia, ma adorano Mantova, dove mancano strutture ricettive».
Qualcuno ha scritto che lei è la regina dell’overstatement con understatement...
«Mi riconosco l’understatement milanese. Siamo donne pratiche, che vanno in bici, portano a scuola i figli. Vuoi parcheggiare la macchina? Devi muoverti con una mini car, non con il Suv».
La nuova vita a Milano.
«Nel mio nuovo negozio e in una casa progettata con il mio compagno Ashley Hicks: l’architetto è lui, la decorazione è mia. Abbiamo usato molte tende per creare spazi. Mi diceva: “Le altre vogliono posto per le scarpe, tu per i piatti”».
In cosa è capitana?
«Nell’essere andata avanti per la mia strada, senza avere la pretesa di piacere a tutti. Voglio continuare a essere rilevante».
Un motto che la guida.
«Sono il risultato di un mix: papà mi faceva pensare in grande, mia mamma mi diceva “tieni i piedi per terra”. Direi dunque: sognare con la testa sulle spalle».