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 2024  luglio 07 Domenica calendario

Una bella intervista a Red Ronnie

La mitica Fender Stratocaster bianca che Jimi Hendrix suonò a Woodstock nel 1969.
«Comprata a un’asta di Sotheby’s il 25 aprile del 1990. Al telefono con un mediatore».
Era così ricco?
«Non avevo un soldo. Mi ricordai che il direttore della Banca Commerciale era un mio fan. Lo cercai sull’elenco alle 8 e mezza del mattino. Trovato. Gli chiesi un fido di quaranta milioni di lire. Aprì la filiale di giorno festivo, soltanto per me. Mi mandò un fax di credito illimitato “perché non si sa mai ti servisse un milioncino in più”. Ne spesi 550. Gianni Morandi mi disse che ero matto da legare».
Tre anni dopo però l’ha rivenduta.
«Ero rimasto al verde. Una notte ho sognato Jimi. Gli spiegavo i miei guai. “Ho acquistato la tua chitarra, ora però non so più come fare”. Il giorno dopo mi chiama la segretaria di Paul Allen, co-fondatore di Microsoft. Dice che il boss vuole acquistare la Fender di Hendrix. Gliela rivendo a 750 mila dollari. Non ci guadagno, mi riprendo solo gli interessi. E ci pago i debiti».
Ha mai osato suonarla?
«Solo una volta, prima che arrivasse a prenderla la sorella di Allen. L’ho attaccata all’altoparlante e ci ho fatto il giro di Hey Joe».
Roxy Bar va in onda da 32 anni filati.
«Oggi solo sui miei social e sulla mia web tv, ogni mercoledì alle 21, tre ore, ultimo programma in cui gli artisti si esibiscono dal vivo. Ora sono in pausa, riprendo a ottobre».
Era un quindicenne di San Pietro in Casale, Bologna.
«Frazione di Sant’Alberto, aperta campagna. Il papà del mio amico Maurizio aveva un negozio di amplificatori, lui ne rubò un paio e me li rivendette a metà prezzo. Costruimmo due casse col truciolato. Il venerdì sera aprivo la finestra della mia cameretta e sparavo a tutto volume Hendrix, Eric Clapton, Led Zeppelin, Doors, Jefferson Airplane e i ragazzi del paese correvano a radunarsi lì sotto per tutta la notte, qualcuno dormiva da me, nel letto o sul tappeto».
Dagli 8 ai 14 in seminario.
«Un dramma, mi sentivo abbandonato. Papà mi accompagnò con la Bianchina. Gli domandai: “Tieni chiusi i finestrini, così mi porto dietro l’aria di casa”. Piangevo sempre. Ero emarginato. Avevo il soffio al cuore, perciò non giocavo a pallone, passeggiavo da solo nel boschetto. Ero stonato, quindi fuori dal coro delle voci bianche. E avevo i capelli rossi, mi prendevano in giro: “Rosso Malpelo” o “Roscio, passa domani che oggi è moscio”».
A Bologna, nel ’76, fondò una radio privata con Bonvi, Dalla e Guccini.
«Il grande disegnatore di Sturmtruppen era il mio idolo. Facevamo interminabili riunioni e poi andavamo a mangiare da Vito, osteria vicino casa di Francesco. Dopo i disordini con gli autonomi ci chiusero. “Ti cerca la polizia, cambia nome”, mi esortò Bonvi. “Io sono famoso, a me non mi arrestano”. Ero Gabriele, diventai Red – come rosso – e Ronnie come Peterson, il mio pilota preferito».
Il disco che le cambiò la vita.
«Disraeli Gears dei Cream. Il primo però fu Big Hits dei Rolling Stones, pagato poco, un amico lo aveva doppio. Ho circa 40 mila vinili, tutti messi in ordine».
Lavorò in banca, uno strazio per un rockettaro.
«No, mi so adattare, tutto serve. Contavo i soldi alla cassa. Un giorno ritirai 150 milioni in contanti dal caveau centrale del Credito Romagnolo e buttai la valigetta sul sedile della 500».
Vita spericolata, la sua. Vasco Rossi.
«L’ho conosciuto a Zocca nel ‘76, ero andato a proporgli un programma radio con interviste ai piloti di Formula 1, diventammo amici, negli anni Ottanta uscivamo spesso insieme, poi è diventato una rockstar, ora ci vediamo ogni tanto. Ci scriviamo sul cellulare. “Ma io sono venuto da te a fare Sally in versione acustica o me lo sono sognato?”, mi ha chiesto tempo fa. Quando nel 1984 fu arrestato, andai con le telecamere al capannone di Casalecchio, ma appena saputo che l’avrebbero portato via in manette le spensi».
Davvero era geloso dei Duran Duran?
«Sì, mi prendeva in giro. “Vai da Simon Le Bon, vai. Come fanno a piacerti, se ami il rock e me?”. Di Vasco conservo riprese imbarazzanti (ride). Lui che canta “voglio una f... spericolata”. O che, sulle scogliere di Dover, fa pipì rivolto contro una centrale nucleare».
In canoa con Jovanotti.
«Dormiva spesso a casa mia, portò un quadernetto su cui aveva scritto La tribù che balla, gli dissi: “Vai così che vai bene”. Siamo andati a Cuba insieme due volte. Nel 2001 uscimmo in mare con due canoe. Di colpo il cielo si rannuvolò. “Il mare si muove, torniamo”. Invertimmo la rotta ma nella manovra ci urtammo e io caddi in acqua. Non riuscivo a risalire. Mi sono aggrappato con un braccio alla mia, per stare a galla, e con l’altro alla sua, per farmi trascinare. Lorenzo remava, ma le correnti ci spingevano al largo. Ce la siamo vista brutta, specie io. Per fortuna ci hanno salvato dalla riva».
Ha intervistato chiunque. Paul McCartney.
«Due volte. Mi raccontò di John Lennon. Mi disse che non era un santo, che sapeva anche manipolare la gente. Con George Harrison fu una chiacchierata tra amici, anche lui tifoso di Ronnie Peterson. Li facevo parlare di tutto. Le grandi star sono spesso persone molto normali. A Keith Richards dei Rolling Stones misi in mano una chitarra, la suonò».
David Bowie.
«Agli inizi aveva collaborato con il grande Lindsay Kemp. Un giorno venne da me a Bologna. Alla fine gli dissi: “C’è una persona che vorrebbe rivederti”. “Chi è?”. Feci entrare Lindsay, che per caso stava da quelle parti. Si abbracciarono. Spensi la telecamera, per riguardo».
Fidel Castro.
«Ero amico di Abel Prieto, scrittore e ministro per la Cultura di Cuba. Una sera mi disse: “Mettiti la giacca che ti porto a cena”. Me la prestò un amico. Soltanto in auto mi svelò la destinazione: “Andiamo a palazzo dal Comandante”. A tavola eravamo io, Gabriel Garcia Marquez, Rigoberta Menchù e un regista messicano. Chiesi a Fidel un’intervista. “Ma io non so niente di musica”. “Però di cultura sì”. Mi diede appuntamento il giorno dopo alle 19. Si presentò alle 22, ma restò con me due ore, lasciando ad aspettare il presidente del Cile. Mi fece una bellissima dedica sul segnaposto che avevo conservato: “A Red, un’amicizia nata in pochi minuti”».
Big Luciano.
«Meraviglioso Pavarotti, un uomo semplice. Lo raggiunsi alla clinica Chenot di Merano. “Io sono di Bologna, tu di Modena, guarda tu se dobbiamo vederci quassù”. Dopo cena – frugale, era a dieta – mi annunciò tutto contento: “Ora sai che facciamo? Ci guardiamo la partita della Juventus!”. “E l’intervista?”. “La facciamo domani”. “No, adesso”. Ci restò male. “Ma allora niente Juve?”. Era un bambino. Mi chiedeva consigli per il suo Pavarotti & Friends. “Devi unire la lirica al rap”. Fu così che mescolò la Mattinata di Leoncavallo con Serenata Rap di Jovanotti. Voleva assolutamente duettare con Bono, lo accompagnai col jet privato a Dublino dagli U2, che avevano un manager ferocissimo. Entrai in studio con la telecamera accesa, accanto a Luciano, così nessuno ebbe il coraggio di fermarmi».
Beyoncé e Britney Spears.
«Beyoncé era ancora con le Destiny’s Child. Brave ma tutto lì. Britney era smarrita, una ragazzina. Le comunicai io sul palco che era prima in classifica negli Usa, la più giovane di sempre. Quando hai molto successo così da giovane, ti rovina».
Qualcuno che le ha dato buca.
«Ne ho prese due. Una da Jeff Buckley. Timido, cancellò l’intervista all’ultimo minuto. E poi Van Morrison. Intrattabile. Ogni tre secondi si alzava e mi mandava a quel paese. “Che cavolo di domande fai?”. Mick Hucknall dei Simply Red l’avrà vista dieci volte, rideva come un pazzo».
Nel ‘92 si candidò con il Psi.
«Sempre stato anarchico. Mi cercavano tutti. Il Pds ex Pci, ma non mi piaceva. Roberto Formigoni per la Dc, Enrico Boselli per i socialisti. “Se vuoi aiutare i giovani devi andare in Parlamento”. Accettai. Presi molte preferenze col mio vero nome e altre come Red Ronnie, ma i candidati della mia stessa lista le fecero annullare per non perdere il seggio. Intini mi suggerì di fare ricorso al Tar. “No, basta con voi, siete delle serpi”».
E addio carriera politica.
«Qualcuno mi voleva candidare anche adesso, per le Europee, ma non le dico chi. Comunque ho risposto di no. La Meloni? No, non è stata lei. Però mi piace e la stimo molto, è una che mantiene le promesse, Chico Forti è tornato a casa grazie a lei. Luigi Di Maio parlò tanto ma fece solo casino».
Ha scoperto Ultimo.
«Direi che si è scoperto da solo. Venne da me quando facevo Fiat Music in roulotte, ospitavo artisti emergenti, tra cui lui. Era grande fan di Vasco Rossi. Mi fece sentire un pezzo. “Che ti devo dire? Sei bravo”. Io gli ho solo dato un’opportunità. Mi piace molto, ci scriviamo spesso».
E che vi raccontate?
«Resta tra noi».
Lo sa, sì, che quando sostiene di aver parlato con Jimi Hendrix nell’Aldilà la gente la prende in giro?
«Lo so però non me ne frega niente, io sono sempre sincero, è vero che ci ho parlato, tramite la medium Sonia Benassi, era lui, mi ha detto cose che soltanto io potevo sapere».
Tipo?
«Che il nostro primo contatto è avvenuto in sogno, andò proprio così. Ho fotografato la sua faccia. Ho rivisto anche Franco Battiato».
Crozza la imita che è uno spasso.
«Mi ha fatto capire i miei difetti, come che salto da un argomento all’altro. Lo guardo e mi vedo come in uno specchio deformante. Mi ci diverto moltissimo».