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 2024  luglio 07 Domenica calendario

Intervista a Enrico Boselli

La sua storia iniziò quando era già tutto finito. «Quasi tutto finito. Infatti, nonostante Tangentopoli, non ci rassegnammo. E per quindici anni tenemmo in vita quel che restava del Partito socialista italiano». Enrico Boselli era un trentenne quando il Psi fu travolto dalle inchieste giudiziarie: «Bettino Craxi era stato uno statista che aveva modernizzato il Paese, però l’idea che dopo di lui ci fosse solo il diluvio fu un grave errore. Forse, forse, il partito si sarebbe potuto salvare con la candidatura di Claudio Martelli, ma un avviso di garanzia gli impedì di farlo. La situazione era così drammatica che Craxi arrivò a pensare a me come segretario».
Ma non andò così.
«A bloccare Craxi fu Ugo Intini, che era stato il portavoce del Psi. “Non farlo”, disse a Bettino: “Ti accuseranno di aver messo in campo la Hitlerjugend”. Io all’inizio presi male quella battuta, ma aveva ragione Ugo. Allora ero un giovane, semisconosciuto presidente di regione. Se fossi stato candidato da Craxi al posto di Craxi sarei passato davvero come uno dei ragazzi mandati a morire negli ultimi giorni di Berlino».
Era il 1993. Cinque anni dopo «ciò che restava del Psi» si unì agli epigoni del Partito socialdemocratico guidati da Gianfranco Schietroma. E Boselli divenne il leader dei Socialisti democratici italiani.Ingaggiò così la battaglia per la sopravvivenza.
«Sapevamo che gli eredi del Pci avrebbero fatto di tutto per cancellarci. Quell’anno Massimo D’Alema aveva trasformato il Partito democratico della sinistra in Democratici di sinistra, un’operazione che aveva come unico obiettivo quello di assorbire l’area socialista. Al suo progetto aderirono i Laburisti e i Cristiano sociali. Noi no. Insieme a Ottaviano Del Turco, che era stato l’ultimo segretario del Psi, e al compianto Roberto Villetti, che aveva diretto l’Avanti!, ci ripromettemmo di rimanere autonomi. A sinistra ma autonomi. Le pressioni però non si fermarono mai».
In che senso mai?
«Ricordo un incontro con Giuliano Amato, che nel 2000 era diventato presidente del Consiglio dopo le dimissioni del secondo governo D’Alema. Andai a palazzo Chigi con Villetti. Lui ci considerava amici, compagni, allievi. Era stato generoso con lo Sdi, affidando a Del Turco il ministero delle Finanze. Parlammo per un’ora della diaspora socialista, finché in maniera pacata ci chiese: “Quanto pensate ancora di poter andare avanti? Nel Paese c’è un clima ostile verso qualsiasi cosa evochi la parola socialista. A livello internazionale non contate più, contano i Ds. Se andaste con loro avreste funzioni importanti, ruoli nel partito”».
Più esplicito di così...
«Fu stringente. D’altronde l’idea di D’Alema era stata sempre chiara: togliere di mezzo gli eredi del Psi. Diventato premier non ci voleva nemmeno riconoscere un ministro: “Avete Amato al governo, non siete contenti?”. Fu solo grazie all’intervento del suo sottosegretario Marco Minniti se ci venne concesso un ministero. A patto che non fosse un uomo di partito, ma un tecnico. Scegliemmo Angelo Piazza, un magistrato che era stato mio capo di gabinetto alla regione Emilia Romagna e che si rivelò un buon ministro».
Torniamo al discorso di Amato.
«Ci chiese esplicitamente di entrare nei Ds. A quel punto Villetti ci colse di sorpresa: “Ovviamente ti iscriverai anche tu, Giuliano...”».
E Amato?
«Rispose d’istinto: “Non ci penso proprio”».
Voi sì e lui no?
«Per un minuto rimanemmo in silenzio. Io non sapevo cosa dire. Amato si guardava bene dal parlare, ma dallo sguardo si capiva cosa stesse pensando: “E me lo chiedete pure?”».
Lui no e voi sì.
«Noi dicemmo no. E appena usciti dallo studio sussurrai a Villetti: “Ha eseguito la pratica”».
Cioè?
«Aveva fatto quanto gli aveva chiesto D’Alema. Che in fondo era stato sempre ruvidamente sincero con noi: “Se siete d’accordo siete inutili. Se siete contrari, siete dannosi. Dovete chiudere bottega, diciamo...”».
Anche perché vi considerava il braccio armato di Romano Prodi.
«Facemmo cadere il suo primo governo, è vero».
E così vendicaste il fondatore dell’Ulivo, caduto l’anno precedente.
«Prodi avrà pure difetti, sebbene i suoi lo raffigurino come un santo. Ma per ben due volte ha battuto Silvio Berlusconi nelle urne. E da quando nel 2008 ha lasciato palazzo Chigi, il centrosinistra non ha più vinto le elezioni. È tornato al governo ma non ha più vinto. Qualcosa vorrà pur significare o no? Grazie alla genialità di Arturo Parisi, Prodi aveva costruito con l’Ulivo una comunità all’interno della quale ciascuno di noi manteneva la propria identità. E la nostra identità socialista era rispettata».
Ma quando Amato era premier, alla guida dei Ds c’era Walter Veltroni non D’Alema.
«Il messaggio era di D’Alema. Anche perché Veltroni in una prima fase mantenne un atteggiamento dialogante con noi. Diceva: “Io ci tengo a un clima positivo, io non sono come lui”».
«Lui»...
«D’Alema. Infatti noi socialisti riuscimmo ad andare avanti. Con esperienze diverse alle urne. Insieme a Lamberto Dini in Rinnovamento italiano. Con i Radicali nella Rosa nel pugno. Quando Veltroni divenne segretario del Partito democratico ci chiese di entrare nel nuovo partito, ma noi chiedemmo di rimanere autonomi e di poterci collegare a loro. “Troveremo il modo”, ci assicurò. Tuttavia al momento della trattativa elettorale nel 2008, fummo ricevuti solo dal suo braccio destro».
E chi era?
«Dario Franceschini. Che fu molto sbrigativo: “O entrate nelle liste del Pd o dovrete andar da soli. I sondaggi ci dicono che se vi consentissimo di fare la lista e di collegarla alla nostra, noi ne avremmo un danno”. Accanto a lui era seduto Goffredo Bettini, famoso dirigente del Pci-Pds-Ds romano: oggi teorizza il “campo largo” ma allora volle restringere quel campo al solo partito di Antonio Di Pietro».
Italia dei valori.
«Appunto. Chiesi a Franceschini di mostrarmi i sondaggi ma non volle farmeli vedere. E poi gli chiesi perché a Idv venisse concesso quello che a noi veniva negato. Mi rispose che Di Pietro si era impegnato a non fare i gruppi autonomi in Parlamento dopo le elezioni: “Abbiamo firmato un accordo”. Capii cosa stava succedendo. Ci lasciammo gelidamente».
Nel senso che volarono parolacce?
«No. Niente parolacce. Solo una volta mi era capitato di usarle, anni prima contro Dini, e me ne ero pentito. In politica non c’è mai nulla di personale e dunque non è il caso di essere scortesi. Franceschini in fondo stava soltanto eseguendo il mandato di Veltroni: doveva eliminarci».
E come finì?
«Finì che dopo le elezioni Di Pietro fece i suoi gruppi senza confluire in quelli del Pd. Noi nel frattempo, per tener fede all’impegno del 1998, eravamo andati da soli al voto. Prendemmo l’1% e non entrammo in Parlamento. Io mi dimisi dalla guida dello Sdi e lasciai la politica. Fu l’ultima volta che il simbolo socialista apparve sulla scheda elettorale. E fu la volta in cui Berlusconi ottenne una maggioranza senza precedenti».
È vero che non accettaste l’offerta del Cavaliere di andare con lui?
«Fu molto gentile. Ma noi volevamo rimanere a sinistra. Autonomi ma a sinistra».