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 2024  luglio 05 Venerdì calendario

Intervista a Enrico Rava

“A New York c’era questo guru, Carmine Caruso. Ci andavano tutti: Dizzie Gillespie, Chet Baker. Non era un musicista: gli parlavi dei problemi di quando suonavi e ti calmava. Sulla porta aveva scritto: Trumpet Therapist”. Uno psicoanalista della tromba”.
Salti un giorno di esercizi e “lei” ti fa sentire in colpa.
È un rapporto conflittuale. Uno strumento merdoso. Al mattino escono suoni fantastici, al pomeriggio fai schifo. Se prendi una stecca la sentono pure i sordi. Ti chiedi: cosa ho fatto di male per essere punito così? Però pochi istanti sublimi con la tromba valgono una vita di torture.
Mai pensato di smettere, caro Enrico Rava?
Una volta al mese progetto di passare al sax, dove si fa meno fatica. O vado col flicorno. Intanto cerco di cogliere segnali.
Quali?
Partenza per un live a Lucca. Poggio la custodia morbida sulla strada e un’auto ci passa sopra. La mia Yamaha distrutta, sembrava un’opera di Cattelan. Al contrario, un giorno mi serviva una sordina, vado a cercarne un’altra sul soppalco e trovo una bellissima Benge. Mai usata. Avevo dimenticato fosse lì.
Come c’era finita?
Per i 40 anni mamma mi aveva regalato soldi per una nuova tromba. La comprai sulla 48ª, poi la lasciai in soffitta. Mi ci sto esercitando. Ogni esemplare ha una personalità, resiste o cede al tuo volere.
Mollò l’azienda di famiglia per la musica.
Mio padre non mi parlò per anni. Ero un talebano di dischi, ci spendevo tutta la paghetta. Nel ’56 venne a Torino Miles Davis con Lester Young e il Modern Jazz Quartet. Ogni nota di Miles riempiva il teatro: ne fui sconvolto. Davis è stato il più grande dei moderni. Riconosceva che tutto quel che la tromba può offrirti lo aveva inventato Louis Armstrong.
Conobbe Miles.
Nel ’69 feci un disco con un gruppo di jazz rock, i Gas Mask, prodotto da Teo Macero, l’uomo dietro i capolavori di Davis. Suonavamo da Ungano’s, sulla 70ª: Teo mi annunciò che Miles sarebbe venuto ad ascoltarmi. Dopo 50 sigarette vedo la folla che si apre, in mezzo un Mosè, quest’uomo bellissimo che mi sussurra: ‘Sono qui per controllarti’.
Lui.
Telefono a mia moglie, le dico di portarmi una dose antipanico di Valium. Vivevamo con Gato Barbieri e la sua donna. Il concerto va bene, Miles mi promuove con un pugno sulla spalla, in camerino mi confida di avere bisogno di un sassofonista. Corro a parlarne con Gato, che però in quel periodo era pieno di paranoie e si rifiuta. Sarebbe stata un’occasione unica per la storia del jazz.
E lei, invece?
Continuai il tour con i Gas Mask, di supporto a Sly & The Family Stone: funk pazzesco, spaziale. Peccato che in un tavolo del backstage Sly avesse una montagna di coca, e chiunque passava poteva approfittarne. Così, per il loro sballo, troppe date furono cancellate.
Gato era un fratello.
Anni prima, da dilettante, suonavo a Chivasso: il nostro bassista portò questo sassofonista sconosciuto, si faceva chiamare Cat Barbieri. Venuto dal Sudamerica, amico di Che Guevara. Mai sentito un suono così magico. Mi disse che avevo talento, che dovevo fare il musicista. Lo seguii a Roma, ingaggio di nove mesi in un locale chiamato Purgatorio: c’era Franco D’Andrea al piano, fantastico. La mia vita cambiò per sempre.
Gato inseguì la fama pop.
Tutto cambiò dopo Ultimo tango: Michelle, la moglie di Gato, lavorava con Bertolucci. Lui si avventurò verso una disco latina, collaborò con Santana. Agli inizi del Duemila feci un paio di tour con Gato, il suono era splendido, ma aveva perso l’incanto. La musica non ti perdona, se la tradisci.
Quanti incontri, Maestro.
Nel ’65 Steve Lacy mi portò a Londra. Non avevo una lira, si viaggiava confidando nell’ospitalità delle comunità jazz e hippie. L’anno dopo in Argentina fui testimone del golpe del generale Onganìa. Sono a New York nel ’67, la Summer of Love: in un monolocale sull’81ª pagavo solo 80 dollari al mese. Poi torno in Italia per la green card e il Sessantotto lo vivo a casa. Un grande avvenire dietro le spalle, diceva Gassman.
Però ora, a 85 anni, ha pubblicato un album splendido, Fearless Five, con la sua band di giovani.
Non so che futuro avrò, ma oggi mi sento in un’isola felice circondata da un mare tempestoso. Questi sono men che trentenni, commoventi nella loro passione, decisi a fare cose bellissime. Non me ne faccio una ragione di quanti loro coetanei idolatrino trapper delinquenziali, armati di pistole, crack e canzoni di merda.
Tenga duro.
Martedì torno dal vivo alla Casa del Jazz di Roma. Sono reduce da una polmonite e ho annullato i live precedenti. Vediamo se la tromba mi vorrà.