La Stampa, 5 luglio 2024
Intervista a Fioretta Mari
Compie 83 anni il 19 luglio Fioretta Mari. Ottanta dei quali trascorsi recitando. Il debutto a tre anni, primo spettacolo accreditato a 17. Poi ha girato il mondo, incontrato il gotha del teatro e del cinema italiani, in tv è passata dagli show del sabato sera ai talent. A Taormina, pochi giorni prima, le faranno festa grande con un Premio alla carriera. Ma tutta la stagione appena conclusa è stata intensa: in tournée con My Fair Lady e Donnacce, lezioni al Lee Strasberg Theatre and Film Institute di New York dove insegna da 8 anni. E poi il gran successo Netflix, Ricchi a tutti i costi, con Angela Finocchiaro e Christian De Sica.
Interpreta un’attrice ottantenne cui l’età non impedisce entusiasmi e voglia di godersi la vita fino in fondo. E lei?
«La vita è un lungo fiume più o meno tranquillo. Il corso a volte è contorto e doloroso, spesso impetuoso, comunque memorabile. Poi, sempre, finisce nell’oceano».
Sbaglio se dico che per lei quell’oceano pare molto lontano?
«In famiglia funziona così... (ride, ndr). Dodicesima generazione di gente di spettacolo, di quelli che una volta si seppellivano in terra sconsacrata. Mia figlia (soprano) la tredicesima».
Teatranti veri, dunque?
«Della nobile famiglia d’arte dei Carrara per parte di mamma. Turi Ferro è mio zio: all’inizio non volevo farlo sapere per non dare l’impressione sbagliata, poi abbiamo lavorato tanto insieme».
Il suo debutto?
«A tre anni in Mi porti un bacione a Firenze, con Odoardo Spadaro. Ma in scena ho rischiato di nascere: mamma ebbe le doglie anticipatamente mentre faceva Fioretta nell’opera comica Il Beffardo. Di qui il mio nome: fregò sul tempo mio padre che, ufficiale di carriera, mi voleva Barbara in onore della Santa dei militari».
L’ufficiale e l’attrice: quasi un film, non trova?
«Babbo era anche un artista e un letterato, come dimostrò quando smise la divisa. Ma era, soprattutto, un fan dell’opera: e mamma un ottimo soprano. La scomparsa di mamma è stato uno dei più grandi dolori della mia vita. Morì che ero a teatro, al Sistina: la sera del debutto di Parole d’amore... Parole, regia di Nino Manfredi, con Gianluca Guidi debuttante. Durante l’intervallo mi avvertirono, ma “show must go on” e quindi finii lo spettacolo. Ma una cosa è certa: gioie e dolori andrebbero rispettati».
Manfredi “fuori scena”?
«Era molto attento a spendere, non gli piaceva pagare. Per via dell’infanzia povera? È una cosa che ti resta attaccata. Era la moglie Erminia la sua più grande ricchezza».
Molto “attento” anche Alberto Sordi, con cui fece Il malato immaginario.
«Una diceria: erano altri i tirchi veri. Lui a cena mi invitava... Aveva un grande cuore e ha dato, senza clamore, molti denari a favore di anziani e animali. Mi fa piacere essere parte del docufilm Alberto Sordi Secret uscito il 28 giugno: interpreto la nonna».
Altri ricordi?
«A otto anni sulle gambe di Totò, che gli chiedo: “Principe, che occorre per essere attrice?”. “Piccerè, ’a cazzimma. Ma tu già la tieni”. Walter Chiari una sera a Taormina che, forse dopo un bicchiere di troppo, mi recita una poesia che aveva dedicata ad Ava Gardner: erano passati molti anni ma ancora soffriva per lei. Giorgio Albertazzi, che mi aveva riportata a teatro con La figlia di Iorio dopo la morte di mamma, che fa il gesto di fermare gli applausi per indicare me. Ugo Tognazzi il più signore di tutti: riservato, spiritoso, innamoratissimo delle donne. Dovevo lavorare con lui nell’Avaro, mi invitò in camerino, mi fece un complimento sulla – be’– sulla mia bellezza. “Rassegnati, sono sposatissima”. “Vabbè – incassò –. Vuol dire che sarai la mia migliore amica”, e così fu. Ci sono gli uomini (e vanno onorati e amati) e i maschi (da usare). Sono passata da brutte esperienze».
Brutte quanto?
«In tanti, attori e registi, mi sono saltati addosso. Quasi tutti morti, ora. Sono cose lontane, inutile fare i nomi. Ma erano tempi bui: oltre all’umiliazione, perdevi il posto, nessuno ti credeva... A nove anni e mezzo fui violentata da un bruto, per giunta malato di sifilide. Le visite, dopo, furono un’altra violenza. Mio padre a un certo punto si scocciò, mi prese e portò in caserma con lui: i suoi soldatini mi hanno “guarita”. È grazie a loro se ho superato il trauma e ho ripreso a credere negli uomini (ma da allora ne odio l’odore: sapone e deodorante, chiedete ai miei ragazzi di Amici)».
Con Amici fu una seconda carriera?
«Forse quella più bella. Iniziò tragicamente: la prima riunione di redazione fu l’11 settembre 2001. Ci interruppero: “L’America è in guerra”. Uno shock. Dovevano essere 4 puntate, furono 10 anni. Insegnavo recitazione e dizione, ma davo anche un sostegno psicologico: il teatro è terapia che aiuta a capire chi sei».
Degli allievi di Amici chi ricorda?
«Alessandra Amoroso: aveva un grande talento, ma piangeva sempre, e io le tiravo libri per farla reagire. Marco Carta lo presero solo perché avevo insistito, poi ha vinto tutto».
Una definizione di Maria De Filippi?
«Una regina e un capo nato. Come lei Lina Wertmüller: una specie di gendarme a cavallo, cui mi legano 50 anni di amicizia, da quando insegnai il siciliano a Giancarlo Giannini Mimì Metallurgico alla sua ultima regia teatrale, A che servono gli uomini».
Ma tv fu anche Pippo Baudo e Rai.
«In Secondo voi e Luna Park ho espresso la mia vena comica (anche se mi spiace essere stata definita “cabarettista"). Nel cast Solenghi, Grillo e Troisi. Beppe era già allora un abile intrattenitore (il politico non mi interessa). Massimo un attore in sottrazione come solo i più grandi e una persona meravigliosa: mi fece promettere che avrei aperto una scuola di recitazione nel suo paese (cosa che feci). In quegli show anche Michele Guardì, che anni prima, proponendosi come mio autore radiofonico, mi aveva conquistato con una battuta: “Compare Alfio, scompare Turiddu”. Troppo simpatico. Ma sa chi non scordo?».
Chi?
«Silvio Berlusconi. Dopo la prima di Tovaritch, che aveva prodotto, venne in camerino: “Voglio che entri nella nostra famiglia” e mi offrì un contratto per 10 anni. Ma ero in Rai e dissi di no. Me ne sono pentita».
Si fermerà mai?
«Ribadisco: appartengo alla razza per cui la morte deve trovarci ben vivi, ovvero in scena. Non guardo al passato e non penso al futuro, conta solo il presente. Carpe diem».