il Giornale, 4 luglio 2024
«Le perizie» di Gaddis smascherano falsi e falsari
«Ricordo la libreria, ormai lontana, sulla Quarantaduesima Strada. Ero in piedi nello stretto corridoio a leggere il primo paragrafo de Le perizie di William Gaddis. È stata una rivelazione, un pezzo di scrittura con la bellezza e la consistenza di un monologo shakespeariano o, forse più appropriato, un’opera d’arte rinascimentale impossibilmente trasformata da immagine a parole. Ed erano le parole di un americano contemporaneo. Questa, per me, era la meraviglia». Don DeLillo (inedito da Satisfiction, www.satisfiction.eu).
«Mr Difficult»: così Jonathan Franzen definisce William Gaddis scrivendo del suo Le perizie, romanzo pubblicato nel 1954 negli Stati Uniti, ignorato e spesso attaccato dalla critica tanto che l’autore si terrà lontano dal pubblicare un nuovo romanzo per vent’anni. E dire che per scrivere Le perizie impiegò sette anni perché lui, scrittore esordiente con oltre mille pagine, voleva rivoluzionare la letteratura americana precedente.
Gli riuscì nel risultato ma non nella comprensione di lettori e critici. Gaddis – ancora oggi indicato erroneamente come uno scrittore postmoderno – aveva semplicemente anticipato i tempi. Erano gli anni sbagliati per la sua critica sociale e il suo umorismo nero, per il suo tipo di spettacolo letterario. La facciata degli anni Cinquanta di Eisenhower cominciava a presentare delle crepe e l’innovazione era visibile in alcune delle altre arti: era un periodo eccitante per la pittura e la scultura, il jazz stava diventando più astratto e sperimentale, la musica rock era esplosa sulla scena e i Beats avevano strappato la poesia dall’accademia per portarla nelle strade. Ma la maggior parte dei romanzi assomigliava ancora, nella forma, ai loro predecessori vittoriani e solo negli anni ’60 alcuni lettori iniziarono a capire che la narrativa poteva essere innovativa come altre forme d’arte. Gaddis non voleva innovare, voleva avvertirci su come la superficie scintillante degli anni ’50 nascondesse il pericolo di una falsificazione del reale, di come il liberismo economico celasse un prezzo da pagare.
Le perizie – ora finalmente riproposto da Il Saggiatore dopo le uniche due edizioni italiane da Mondadori perse nei decenni (pagg. 1224, euro 34, traduzione di Vincenzo Mantovani) – oggi è riconosciuto come uno dei capolavori del ’900 americano, ma nonostante questo, nonostante scrittori come David Foster Wallace o Jonathan Franzen si siano ispirati, usando un eufemismo, alla sua scrittura e al suo stile, il romanzo è ancora troppo poco conosciuto. Ed è un peccato e molta della colpa è della critica, degli accademici, degli americanisti i quali, volendolo innalzare a capolavoro, lo affondano. Gaddis (New York, 29 dicembre 1922 – 16 dicembre 1998) fu spesso paragonato a Joyce, malgrado lui fosse sempre stato chiaro: «Joyce è il risultato della industria accademica». Non le mandava a dire, Gaddis, riluttante ad apparire e a rilasciare interviste, tanto che per anni pensarono fosse lo pseudonimo di Thomas Pynchon.
Niente a che fare nemmeno con Pynchon, perché Gaddis racconta di una società di artisti che nei Cinquanta affollava il Greenwich Village di New York per descrivere in realtà come tutta l’arte fosse stata ormai corrotta, riproducibile, come aveva teorizzato Benjamin, ma andando oltre: non solo le opere d’arte sono prodotto della falsificazione del reale, ma lo sono anche gli artisti. Ed è questo l’aspetto più interessante e innovativo del romanzo: l’aver intuito un apparente paese delle meraviglie dove i protagonisti – pittori, scrittori- vivono prigionieri in un gigantesco labirinto di insensatezze, consumando se stessi nella vana ricerca di una via d’uscita. Sono menzogne personificate: nell’immenso castello di carte che Gaddis costruisce – con stile magistrale in un continuo dialogo – prende forma una storia quasi impossibile da raccontare (ma che una volta cominciata non si riesce più a smettere di leggere): Gaddis disegna un orizzonte composito, lungo il quale sfilano, come marionette, il falso medico, il cinico mercante d’arte, il talentuoso pittore specializzato (un po’ per delusione, un po’ per vendetta e un po’ per interessato calcolo) nella contraffazione dei capolavori dell’arte fiamminga, il critico osannato che mette le proprie competenze al servizio del miglior offerente. Tutti animati da ambizioni, speranze, doppiezze e ipocrisie.
Sembra il ritratto del mondo culturale di oggi, dove l’ ipocrisia è premiata, dove la critica è tale se complica le cose (come è avvenuto per questo romanzo), dove ogni scrittore che possa dare davvero qualcosa al lettore è reso complicato con paragoni, etichette, fonti, interpretazioni. Eppure, come scrive Gaddis a pagina 582: «La critica? Oggi è l’arte più importante, oggi è quella di cui abbiamo più bisogno».
Ma soprattutto Gaddis capisce che «Se il pubblico è convinto che un quadro sia di Raffaello, ed è disposto a pagare il prezzo di un Raffaello allora è un Raffaello» (pag. 416). Ed è questo a importare, a rendere un capolavoro un romanzo che è godibilissimo pur superando nettamente le mille pagine. E se proprio c’è qualche paragone da fare, andiamo alle origini: niente Joyce ma Aldous Huxley che nei suoi racconti qualche decennio prima denuncia la falsità degli ambienti degli artisti e dei critici («idioti con qualche lampo di lucidità») o Wyndham Lewis che ne Le scimmie di Dio sbeffeggia con pari ironia il mondo dell’arte e delle lettere, ormai governato da automi: gente del bel mondo benestante, nullafacente, impegnata in una vita di ostentazione culturale, nello scimmiottamento di Dio, ovvero del vero artista, del vero genio, che non ha più mecenati perché «i mecenati si sono messi tutti, senza eccezione, a scribacchiare e a imbrattare tele».