La Stampa, 4 luglio 2024
Il mito della Dieta mediterranea
Tratto da “Dieta mediterranea"di Vito Teti
Istituto della Enciclopedia Italiana, 2024
Per gentile concessione dell’editore
Il nostro rapporto con il cibo riflette incertezze, insicurezze, paure, timori, aspettative legate a un mondo che non ha più una direzione e ha smarrito il futuro. In questo contesto anche interessanti e apprezzabili iniziative (che vedono impegnati validi e motivati studiosi di varie discipline, istituzioni scientifiche e centri di ricerca) di promozione e diffusione del modello della «dieta mediterranea», difficilmente riescono a sfuggire alla gastrocrazia, alla gastronomia, alla generalizzata ossessione per il cibo e per le diete e molti suoi convinti sostenitori sembrano davvero sudditi di una «repubblica confessionale fondata dai cuochi».Come ricostruisce, in maniera problematica, Marco Romagnoli, la dieta mediterranea è passata dall’essere questione nutrizionista a valore sociale condiviso dalle popolazioni mediterranee, e rappresenta così l’ennesimo tentativo di costruire uno spazio mediterraneo, una nuova tappa nell’invenzione della «mediterraneità» su una base sociale e alimentare (Romagnoli, 2023). L’espressione «dieta mediterranea» mette insieme immaginari turistici, culturali ed enogastronomici, utopie geo-politiche, commerciali e socioculturali. Nello stesso tempo appare carica di ambiguità semantica: un metodo alimentare che trasforma il paesaggio, la tavola, gli spazi antropologici metaforici, dove la koiné mediterranea è costantemente reinventata; dieta dimagrante; alimentazione sana; pratica per difendersi dalle malattie non trasmissibili, degenerative e metaboliche della modernità (tra cui le malattie cardiache); sinonimo di autenticità, benessere ed equilibrio in un mondo contemporaneo segnato da conflitti armati, crisi sanitarie, insufficienze nutrizionali; baluardo di identificazione sociale e alimentare globale. E ancora, come sottolinea Romagnoli, il mito di una società mediterranea pura e innocente; uno stile di vita alimentare originale e autoctono, che non è altro che la mitizzazione di uno spazio tessuto da una società decadente.
La dieta mediterranea viene mitizzata attraverso la sua ancestralità e idealizzazione ancorata a un passato reinventato sulla base della tradizione. I «confini» del patrimonio alimentare, però, non corrispondono ai confini nazionali. E proprio per questo motivo che la delimitazione della dieta mediterranea è un fallimento in partenza. Al di là di questo esclusivismo culturale diffuso, la dieta mediterranea è riutilizzata culturalmente e realizzata, addirittura materializzata, politicamente all’interno delle comunità che dovrebbero praticarla e hanno la responsabilità di tutelarla dal 2010. La dieta mediterranea diventa l’immagine di un’unità (fittizia) dei popoli mediterranei che la praticano. In realtà il concetto di dieta mediterranea non è «inclusivo», non lo è mai stato, né a partire dalla sua «creazione» da parte di Ancel Keys, né in seguito alla sua costruzione come patrimonio; questa dieta è colorata dall’illusione dell’inclusione.
Naturalmente l’invenzione ha avuto una sua potenza in ambito medico, scientifico, antropologico, delle politiche alimentari e turistiche, con la capacità di ispirare gesti, pratiche, socialità e modi di mangiare e di vivere. Ha le sue implicazioni pratiche per la produzione, la commercializzazione, il consumo dei prodotti “locali”.
Ritengo che il problema non sia tanto che la dieta mediterranea sia un’invenzione, ma che sia un’invenzione vaga, mobile, che abbraccia aspettative e memorie a volte contraddittorie, che torna a un passato mitico e che diventa discorso ideologico chiuso e autoreferenziale. Paradossalmente essa diventa il luogo di un «mediterraneismo» esasperato e insieme di un «mediterraneo?centrismo» che non tiene conto del suo essere frutto di processi storici globali fin dall’antichità, dimentica il carattere sociale e di classe del mangiare e anche le mille varianti locali, che non possono essere “unificate”, in quanto la loro esistenza (legata non tanto al prodotto, ma alla cucina e al simbolo e al rito) non sono esportabili, ma sono realizzabili solo localmente. Il fatto, però, è che il “locale” è stato invaso, assediato, modificato da prodotti, cucine, usanze non locali (si pensi alle cucine nazionali, internazionali, al sushi, ai McDonald) che si mescolano, modificandola a volte radicalmente e contribuendo a creare nuove tradizioni mediterranee-non mediterranee. Per queste ragioni insisto sulla dimensione storica, sociale, simbolica del cibo e sono convinto che, anche se non ha l’impatto pratico delle formule e degli slogan, sia ancora utile parlare di alimentazione o di culture alimentari del Mediterraneo, considerate nelle loro somiglianze e diversità, nel loro variare nei diversi contesti geografici e ambientali, storici e sociali, nella loro complessità e mobilita, nelle loro valenze simboliche e rituali. Soltanto l’espressione «culture alimentari» del Mediterraneo, viste nella loro storicità, continuità e rotture, può fare cogliere le peculiarità di un mangiare mediterraneo che racconta di salute e di benessere mentale, di fame e di abbondanza, di erbivori e carnivori, di feste e rituali alimentari, di far da mangiare e dare da mangiare, di socialità e convivialità, di sacralità del cibo e della sua faticosa ricerca, di mangiare assieme e mangiare da soli, di frugalità e sobrietà per necessita e di digiuno per scelta salutare o religiosa, del folclore alimentare e dei suoni legati al cibo, dei cibi giocattoli e dei cibi simboli erotici.
D’altra parte, il sottofondo della memoria alimentare delle popolazioni, che abbiamo visto emergere nel corso del Covid-19, ci ha presentato la peculiarità del mangiare mediterraneo nel suo essere un «fatto sociale totale», nel suo richiamare pratiche, rituali, socialità, memorie di un passato che continua in quanto agisce nel corso di una lunga storia e non come recente invenzione ideologica. La cucina e il luogo privilegiato dell’invenzione, della capacità di mescolare, immaginare, di desiderare, ma deve essere una reinvenzione critica (non mitica, astorica, statica) del passato e che sappia guardare al futuro. In questa prospettiva ritengo che la tutela della biodiversità e anche l’inclusione di pratiche vegetariane e vegane possano in prospettiva dare ulteriore dinamicità alle culture alimentari mediterranee. Penso che solo l’immagine di un Mediterraneo inclusivo, aperto, mobile, dove tutto arriva da fuori e dove tutto viene naturalizzato, possa essere l’antidoto alle piccole patrie alimentari, alle recenti chiusure, ai conflitti in atto, ai processi di omologazione. Solo delle culture alimentari che si sono formate nella lunga durata, nei diversi contesti, attraverso arrivi e scambi, saranno in grado di accogliere e integrare le novità che arrivano dall’esterno, anche quelle portate dagli emigrati che tornano, dagli immigrati, dalle cucine esterne, di cui bisogna tenere conto.
Due grandi sfide attendono il Mediterraneo: l’immigrazione e lo spopolamento. Sarà importante sviluppare la capacità di gestire questi due fenomeni legati e complessi, in un periodo di contrasti e conflitti come mai si era visto in passato. Quell’unità, reale, costruita, inventata del Mediterraneo, si sta frantumando o riducendo a luogo comune. Questo in un periodo in cui il Mediterraneo dell’interno e a rischio desertificazione, svuotamento, spopolamento. Il ritorno alla terra, alla Terra, la ripresa di antiche produzioni agricole e pastorali, marinare e commerciali, potrebbe in qualche modo contribuire ad arrestare il declino.
Un lavoro per vinificare con antichi vitigni, per la produzione di buon olio e anche di buon pane, sembra ridare vita all’antica triade mediterranea, anche nel periodo in cui quell’idea di «terre tra mari» sembra sempre più alimentare distanze tra le due sponde che non incontri. Il ritorno ai grani e a semi e piante di una volta, il fenomeno sempre più diffuso di panificare e vendere pane, la tutela dell’ambiente e delle campagne, la cura del suolo e del paesaggio, un’agricoltura «etica», una produzione e commercializzazione sottratte alla criminalità e alle grandi holding alimentari, industriali, la conoscenza della filiera alimentare, la consapevolezza di avere una biodiversità tra le più ricche del pianeta, quindi da proteggere e valorizzare, l’aspirazione al buon cibo, non avvelenato, non inquinato: sono elementi indispensabili per rigenerare comunità locali che stanno morendo.
Il vuoto demografico, che è vuoto spaziale, produttivo, di relazioni, antropologico, che avrebbe un grave impatto anche sui «centri» e sulle città, oggi può essere riempito da pratiche di buona produzione e buona cucina, da un «restare» o da una «restanza» attiva, mobile, creativa, innovativa. Una «restanza» in cui gli avanzi o quel che resta non vengano buttati, ma riusati, mescolati in maniera sapiente e ragionevole, recuperando o inventando il valore di un mangiare parco, frugale, salutare, che mantenga l’attenzione per gli ultimi del mondo, per quanti non hanno da mangiare e da bere. —