Corriere della Sera, 4 luglio 2024
Intervista a Paolo Repetti
Paolo Repetti, a metà degli Anni 90, assieme a Severino Cesari, lei diede una svolta alla Einaudi, fondando Stile Libero, nata come collana ma poi diventata una vera officina letteraria.
«Non fu facile, soprattutto perché la casa editrice aveva una storia importante: Pavese, Bobbio, Calvino. Introdurre una collana che mescolava la letteratura a generi come il crime, il comico e la televisione fu un’operazione che incontrò molte resistenze. Ma io ero e resto convinto che quel passaggio fosse necessario».
Perché?
«C’era uno squilibrio tra la produzione che attingeva al catalogo e quella che lanciava nuove proposte. Se cominci a vivere di catalogo, il destino è segnato. Era il 1996 e, per esempio, noi portammo nel tempio einaudiano E l’alluce fu, testo di Roberto Benigni».
Un rischio.
«Alto, perché Benigni ha un “corpo comico” che poteva diventare un flop se trascritto. Ma nulla in confronto al rischio che ci accollammo lanciando i Cannibali».
Nove, Ammaniti, Pinketts. A leggerli oggi sembrano molto diversi tra di loro. Con quale «fil rouge» li uniste?
«Erano autori colti, quindi che avevano frequentato i classici ma, al tempo stesso, parlavano di televisione, di fumetto, di quotidianità. Nove, per esempio, intuì la forza narrativa dell’uomo che si rimbecillisce davanti alla tv. L’antologia fu un successo clamoroso ma, ahimè irripetibile, tanto è vero che credo sia stato l’ultimo grande movimento letterario italiano».
Perché «irripetibile»?
«Perché allora c’era una comunità letteraria compatta alla quale ti potevi rivolgere e che ti seguiva. Gruppi ampi di persone accomunate da interessi, gusti, inclinazioni. Ecco perché la critica aveva molto peso: un articolo di Alfredo Giuliani o di Alberto Moravia “parlavano” a un gruppo vasto di persone. E così anche un’antologia come Gioventù cannibale: i racconti divisero la comunità letteraria in due, i “vecchi” che la osteggiarono e i “giovani” che la appoggiarono. Ma una comunità letteraria c’era: oggi credo che il pubblico dei lettori sia destrutturato, fatto di tante particelle e diventa difficile non solo lanciare una corrente letteraria, ma anche fare critica».
La critica è scomparsa?
«Credo che la critica letteraria non si faccia quasi più, oppure che sia spesso un esercizio impressionistico mutuato dalla rete. “Mi piace” o “non mi piace”. In fondo, la letteratura oggi potrebbe dirsi un grande mainstream globale dove il mantra è “funziona” o “non funziona”. La stagione dei Cannibali, invece, stimolò la nascita di una nuova generazione di critici, come Emanuele Trevi e Filippo La Porta. D’altra parte, oggi, si sono moltiplicati i generi: dal romance nato su Wattpad allo youtuber, ogni giorno ci passano davanti autori e autrici che non potremmo mai pubblicare, per non parlare del lancio promozionale. Ecco perché io sono convinto che la Einaudi di oggi – anche quella del direttore editoriale Ernesto Franco e dell’ad Enrico Selva – sia più difficile da guidare rispetto a quando era un tempio monolitico».
Stasera sapremo il nome del vincitore del Premio Strega 2024.
«Per noi di Stile Libero correre in questi grandi premi è stato sempre difficile. Certo, non è nel nostro Dna, in fondo Stile Libero nasce come collana “di rottura”. Però oggi che siamo, per dire, grandi e grossi (questa settimana in classifica abbiamo 3 libri nei primi 4), incontriamo lo stesso delle difficoltà a partecipare. Per esempio io avrei tanto voluto che almeno Nicoletta Verna, con il suo bellissimo romanzo I giorni di vetro, entrasse nella gara del Campiello. Invece, nulla. Ma non ci arrendiamo».
Però avete pubblicato best seller come «Romanzo criminale» di Giancarlo De Cataldo.
«Quel libro doveva intitolarsi Storiacce. Perché Giancarlo, con maestria, era riuscito a estrapolare da migliaia di pagine di sentenze, cinque personaggi memorabili ma con storie criminose dietro. Poco prima di andare in stampa, parlando con una giornalista, dissi: “È un romanzo criminale”. Così mi venne l’illuminazione».
Il film ne fu la consacrazione: lì c’erano tutti i futuri famosi, da Germano a Accorsi a Santamaria.
«Una felice congiunzione, che si ripeterà, per esempio, anche con alcuni libri di Niccolò Ammaniti, per me uno dei pochi autori che non ha mai perso lettori pur frequentando territori letterari molto diversi».
Carofiglio lo avete strappato alla Rizzoli?
«Gianrico ha la capacità unica di inoculare etica nei suoi legal thriller, cosa che si lega alla sua visione politica».
E il successo di Maurizio de Giovanni?
«Ha avuto una intuizione geniale: mettere assieme il melodramma, il giallo e la città di Napoli».
Anche Viola Ardone è una creatura di Stile Libero.
«Il suo Il treno dei bambini si rivela un successo anche se ci si limita a leggere le prime trenta pagine. Perché a parlare è la potenza della storia».
Un aneddoto legato a uno dei suoi scrittori?
«Quando venne in Italia David Foster Wallace, negli Anni 90, notò che gli italiani erano incollati alla tv per seguire i mondiali di calcio. Allora osservò: “Noi in America non potremmo mai appassionarci a uno sport che finisce 1-0, siamo abituati ad altri punteggi”».
Chi è il più grande scrittore vivente?
«Faccio fatica a dirlo, perché mi vengono in mente solo nomi come Tabucchi o Tondelli. Vale come risposta?».
Ci dica allora il più grande scrittore «recente».
«Resto “in casa” e dico Vitaliano Trevisan. Da uomo del Nord Est ha saputo essere feroce con la sua terra, facendo così grande letteratura».
E tra le scrittrici e gli scrittori di tutti i tempi?
«Kafka. Quando lessi il suo Lettera al padre mi misi a piangere. Io sono cresciuto con un padre distante, ci parlavamo in francese, una lingua diplomatica che non poteva lasciare ferite».
In questa serie, sia Gian Arturo Ferrari che Antonio Franchini hanno espresso un’opinione su Umberto Eco scrittore. Ora tocca a lei.
«Penso che Il nome della rosa sia, in quanto giallo raffinato, una perfetta opera chiusa che, paradossalmente, conclude il ciclo di Eco, che come tutti sanno è una riflessione sull’opera aperta».
Gioco della torre: chi butta giù, Pavese o Fenoglio?
«Pavese. Penso che Fenoglio sia stato uno dei maggiori scrittori del secolo scorso».
Manganelli o Arbasino?
«Con immenso dolore, dico Manganelli».
Secondo lei oggi un romanzo come Lolita verrebbe pubblicato?
«Io lo pubblicherei subito. Ma sarebbe difficile, perché il politicamente corretto non coglie il ruolo degli scrittori che oggi sono importanti più che mai, perché sono le sentinelle dei territori che non possiamo esplorare».
Come definirebbe Michela Murgia?
«Un’autrice enorme, perché sapeva trattare certi temi importanti con rigore letterario. Purtroppo non c’è più, sono rimaste le sue seguaci».
Un autore «datato»?
«Forse il Pasolini narratore, perché il poeta e il saggista sono straordinari».
Repetti, ci sarà mai un «ultimo libro»?
«Io penso che il libro sia uno dei territori più resilienti di fronte alla invasione del digitale. Se ci pensiamo, la rete si è mangiata il cinema, la tv, i giornali. Ma l’unica declinazione digitale del libro è stato l’e-book, quindi un altro libro. E sono certo che se avessero inventato il cartaceo dopo, al Mit di Boston avrebbero detto: “Ma che invenzione geniale la carta, si può anche sfogliare, sottolineare”. Ecco perché penso che, no, non ci sarà mai un “ultimo libro”».
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