la Repubblica, 4 luglio 2024
Illuminista o reazionaria Le anime eterne della Francia
Ad est della città, il forte di Vincennes, al margine d’una foresta, ha rappresentato un baluardo contro eventuali offensive prussiane. Nel suo fossato venne fucilata Mata Hari, nello stesso fossato, angolo Sud-est, ai piedi della torre detta “della regina” sorge, quasi addossata alle mura, una colonna mozza con una scritta misteriosa: “Hic cecidit”. Chi cadde in quel luogo allora sinistro? La colonna testimonia la fucilazione, in realtà un assassinio legalizzato (marzo 1804), del duca d’Enghien, torbido affare nel quale ebbe parte il ministro di polizia Joseph Fouché.
Sono sempre esistite due France, quella luminosa, razionale, coerente con i principi di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, proclamati nel 1789 e l’altra Francia sospettosa, tentata dal ribellismo, insofferente all’autorità dello Stato pur facendone parte. Fouché la rappresenta a pieno titolo.
Non possiamo certo biasimare noi italiani queste inclinazioni avendole forse addirittura inventate fin dal nostro agitato Rinascimento, per di più esiste dovunque nel mondo una divisione tra luci e ombre, diritti e sopraffazioni, interesse generale e avidità personale.
Il caso francese però ha una connotazione aggiuntiva, probabilmente unica, la vasta rappresentazione letteraria che questa realtà politica ha sempre avuto. Joseph Fouché duca d’Otranto ne è stato la perfetta incarnazione. Chateaubriand (clericale ma di gran livello) lo disprezzava profondamente per un trasformismo politico geniale e cinico che gli consentì da servire e tradire qualunque regime riuscendo sempre a mantenere la testa sul collo anche quando bastava una parola sbagliata perché rotolasse in un cesto. Balzac nel suo Un caso tenebroso mette questo ex giacobino estremista poi bonapartista, questo “succhia-sangue”, al centro di un processo farsa concluso con un’ingiusta condanna. Secondo lo scrittore, Fouché era l’emblema perfetto dei nuovi tempi senza onore generati dalla Rivoluzione.
La fatalità ha voluto che questo servitore d’ogni padrone, in realtà solo di sé stesso, finisse a Trieste, appendice marittima dell’impero austro-ungarico. Iresti di colui che viene considerato l’inventore della polizia politica, spietato inquisitore, abilissimo manovratore d’intrighi giacciono nella basilica di San Giusto.
Muore nel 1820 poco più che sessantenne accompagnato anche lui, come ogni malvagio, da un’ultima leggenda nera. Mentre il magro corteo sale nelle prime luci dell’alba verso il camposanto di San Giusto, una violenta raffica di bora fa ribaltare la bara che nell’urto si apre sicché il cadavere rotola giù per il declivio tra le grida d’orrore dei presenti. Macabra e appropriata apoteosi, degna del Grand Guignol.
L’esercizio del potere s’è sempre accompagnato in Francia ad una certa teatralità, ne fu intriso perfino l’infame processo contro il capitano Alfred Dreyfus, accusato di alto tradimento e mandato a scontare la pena nell’infernale isoletta detta appunto del Diavolo. Il caso Dreyfus è stato forse il più appassionante e torbido affare criminale di fine Ottocento, la prima prova che i servizi segreti, in certo modo fondati da Fouché, possono facilmente diventare “deviati”, ponendosi al servizio d’una fazione; quel processo fu anche la prima prova clamorosa che l’antisemitismo, diffuso nelle forze armate, può condurre a ingiustizie somme – nello stesso tempo però il caso segnò anche la nascita del giornalismo d’indagine e d’intervento con il famoso J’accuse di Émile Zola, risvolto positivo di una storia per ogni altro aspetto abietta.
Alla fine l’antirazzismo, cioè la ragione, vinse e lo sventurato capitano tornò libero e fu riabilitato. Una vittoria solo momentanea perché il 4 giugno 1908, durante la solenne traslazione delle spoglie di Zola al Pantheón, un giornalista di estrema destra, Louis Grégori, sparò contro Dreyfus qualche pistolettata, ferendolo al braccio. Al processo, il giornalista dichiarò con baldanza d’aver voluto colpire non la persona, ma il rappresentante di chi voleva «glorificare il tradimento e l’antimilitarismo di Zola». I giurati lo assolsero giudicandolo «non responsabile dei suoi atti».
Una certa Francia impaurita e scontenta si rispecchia oggi in quella di ieri. La Francia che ad Aigues-Mortes nel 1893 massacrò una ventina di operai italiani che lavoravano nelle saline, quella di Vichy che soggiacque ai nazisti, i delatori che nella Francia occupata denunciarono i loro vicini ebrei, i francesi che appoggiarono il tentativo di colpo di Stato del generale Jacques Massu quando si doveva porre fine all’occupazione coloniale dell’Algeria, i francesi che, smarriti per un presente che li spaventa, rinuncerebbero volentieri alle libertà repubblicane in cambio di massicce dosi di “legge e ordine”.
Anche in questo caso noi italiani abbiamo poco da obiettare, considerate le condizioni politiche e la bassa qualità spesso anche personale degli attuali governanti. La Francia ha comunque sull’Italia il vantaggio di una molto più robusta tradizione anche letteraria di pensiero libertario. Come capofila si può forse considerare lo storico Alexis de Tocqueville, conservatore, tra i fondatori del pensiero liberale classico, raccontò i difetti della democrazia americana ma ne difese i principi.
Nella storia recente figurano molti intellettuali a metà tra impegno politico diretto e attività di pensiero; Jean-Paul Sartre fonda la rivista Les Temps Modernes, Albert Camus il giornale Combat, André Malraux durante la guerra civile spagnola organizza per i repubblicani una squadriglia aerea di cui fa parte anche il fuoriuscito italiano Nicola Chiaromonte (1905-1972); al contrario di Malraux, Chiaromonte, grande intellettuale, è stato quasi dimenticato in patria. Raymond Aron, cattedra di filosofia, politicamente conservatore, è stato il lucido rappresentante di quella destra colta, democratica, antifascista (e anticomunista) che in Italia è sempre mancata.
Alla ricerca di un possibile modello che rappresenti questa Francia razionale, libera in un coerente pensiero, indicherei il pensatore Ernest Renan (1823-1892). Entrato nel seminario di Saint-Sulpice nell’omonima piazza parigina spinto da una sincera vocazione al sacerdozio, si applicò con tale impegno da imparare ebraico e greco per avvicinarsi con conoscenza diretta ai testi. Proprio lo studio lo portò a constatare la quantità di errori che li costellano. Ne rimase profondamente scosso. Era un uomo in buona fede, resistette finché poté, poi cedette, perdendo la fede. Le pagine in cui descrive la sua disperata ricerca di qualche buon motivo per continuare a credere sono commoventi, però implacabili.
Esaminate alla luce della ragione, gran parte delle Scritture risultano costruzioni deludenti, scrive, richiamano l’immagine di una cattedrale gotica: «Ne hanno la grandezza, gli immensi vuoti, la poca solidità»; conclude non senza amarezza: «Un solo errore prova che una Chiesa non è infallibile; una sola parte debole prova che un libro non è rivelato». Renan non è stato certo un condottiero di popoli, però nell’implacabile logica delle sue deduzioni può essere considerato un esponente della Francia amante della razionalità cartesiana, quella per la quale vale il principio che la sola prova reale dell’esistenza, il suo valore, sta nell’esercizio del pensiero. Cogito ergo sum.
C’è anche un altro suo aspetto propriamente politico qualche volta citato in maniera grossolana. È quello contenuto nella famosa conferenza tenuta nel 1882. La data è importante; nel 1870-71 eventi catastrofici avevano scosso il Paese. Non è improprio paragonarli a quanto avvenne in Italia dopo l’8 settembre 1943. Il crollo di Napoleone III a Sedan aveva significato non solo la fine del “secondo impero”, ma l’umiliazione d’una Francia invasa, le truppe prussiane martellavano con i loro stivali gli Champs Elysées, la perdita delle regioni sul Reno, il collasso morale della nazione, la più profonda incertezza sull’avvenire. Il pensatore prende in esame vari elementi in grado di definire una nazione: la storia, la razza (come allora si diceva), la lingua, importanti ma non sufficienti. Alsazia e Lorena erano state aggregate al nuovo Stato tedesco proprio per ragioni di “razza” e di lingua. Renan elabora una tesi opposta stabilendo che una nazione si fonda soprattutto sul consenso. Scaturisce da qui la celebre formula secondo la quale l’appartenenza a una nazione «è un plebiscito che si rinnova ogni giorno».
In base agli attuali criteri di valutazione, la sua era una tesi di “destra” o di “sinistra”? Può valere l’una e l’altra possibilità anche se aiuta a calibrarla la conclusione alla quale il pensatore arriva: «le nazioni non sono qualcosa di eterno. Hanno avuto principio, avranno fine. La confederazione europea probabilmente le sostituirà».
Sono queste due France che domenica si confronteranno nelle urne, compresa un’idea di Europa come sbocco naturale della concezione ottocentesca di nazione. Dall’esito delle scelte dipenderà buona parte del futuro del continente.
C’è quella dei principi proclamati nel 1789 e l’altra sospettosa, insofferente all’autorità dello Stato
Il Paese ha sull’Italia il vantaggio di una molto più robusta tradizione di pensiero libertario