il Giornale, 3 luglio 2024
Osborne, gran bevitore e poco santo
Santi e bevitori (Adelphi, traduzione di Mariagrazia Gini, pagg. 202, euro 19) è il bel titolo italiano di un libro di Lawrence Osborne che in inglese si chiamava The Wet and The Dry, l’umido e il secco. Anche il sottotitolo, «Un viaggio alcolico in terre astemie», è più felice di A Drinker’s Journey, un semplice viaggio da bevitore, perché Osborne va a bere, o a cercare di bere, lì dove la religione, gli usi e i costumi lo vietano e/o sempre meno lo tollerano: il Pakistan, l’Indonesia, la Malesia, gli Emirati, l’Oman, l’Egitto...
Bevitore è tuttavia un termine ambiguo, perché confina pericolosamente con quello che è l’alcolizzato, spesso ingentilito con il sostantivo alcolista, altre volte involgarito con l’ubriacone tout court, stadio finale e perpetuo, a meno di una totale disintossicazione, di ciò che in circostanze particolari può condurci alla sbronza, lì dove all’ebbrezza alcolica fa quasi sempre da contrappasso, il giorno dopo, il mal di testa e uno stato catatonico...
La sbronza come conseguenza e non come intenzione è del resto proprio l’elemento distintivo di ogni bevitore che si rispetti ed è un qualcosa che ha a che fare con la nazionalità e quindi la cultura di cui egli è portatore. Non a caso Osborne, che pure è inglese, definisce il rapporto dei suoi connazionali con l’alcol «violento, primitivo. Non riesco a sopportarlo». E sempre non a caso nel libro cita Roland Barthes e l’approccio della Francia con il bere, laddove «il bicchiere è percepito come il dispiegarsi di un piacere, non come la causa necessaria di un effetto desiderato: il vino non è solo un filtro, è anche atto durevole del bere». «Lo stesso – chiosa Osborne – si può dire degli italiani».
Santi e bevitori è di una dozzina d’anni fa e da allora molta acqua, piuttosto che molto alcol, è passata sotto i ponti. Oggi Osborne beve raramente, e soltanto vino, laddove nel libro c’è una memorabile sequenza in cui, dopo undici mai tai mandati giù di seguito al Chameleon di Abu Dhabi, si esibì in un tuffo carpiato nella piscina dell’albergo, rimase incosciente sul fondo della stessa e venne salvato dall’annegamento e messo a letto dai camerieri improvvisatisi bagnini. Non doveva essere un’eccezione, visto che in un’intervista al settimanale Il Venerdì ha ricordato di aver perduto conoscenza in una discoteca russa di Brooklyn dopo 29 shot di vodka. Lo riportò a casa un’auto della polizia e per due giorni non riuscì a camminare...
È un po’ tutto questo a fare di Santi e bevitori un libro malinconico, se non triste, nonostante il suo autore abbia il senso dell’umorismo e un occhio divertito per quelle che sono le stranezze e le assurdità della vita. Per quanto per cultura e gusti Osborne appartenga a quella sfera mediterranea per la quale il bere è un piacere, un’estetica, se si vuole, l’ebbrezza dionisiaca della «pura luce della piena estate», il suo viaggio alla ossessiva ricerca di una birra o di una bottiglia di champagne lì dove l’una e l’altra sono una sfida all’ordine costituito, assume lo stesso sapore nichilistico con cui il mondo arabo cede alla tentazione alcolica del proibito: è la trasgressione e l’infrazione, l’abbattimento di un tabù il motore, non il godimento, tanto meno il gusto... Si beve, paradossalmente, in odio a sé stessi, un peccato che è una punizione.
Romanziere di successo, il meglio di sé Osborne però lo dà in quel genere spurio che è la letteratura di viaggio, lì dove non c’è un obbligo di trama e/o di personaggi, ma il racconto si nutre di impressioni immediate, suggestioni, riflessioni. In Santi e bevitori, già l’idea che ne era inizialmente alla base, un reportage sulla birreria Murree in Pakistan, circondata dai miliziani di Al Qaeda, vale più di mille intrecci narrativi... Così come, ancora ad Abu Dhabi, la richiesta di un’altra rivista a cui collabora, ha un che di irresistibilmente grottesco: «Il direttore vuole conoscere i nuovi trend del mondo arabo dei cocktail. Non so, barman pazzeschi, mode interessanti – ah, nuove formule per le Primavere arabe, cose così. Per esempio: dove fanno l’aperitivo i giovani, dopo aver protestato tutto il giorno?». Già, le «primavere arabe»...
Non so se, come sostiene Osborne, il bar sia una invenzione inglese, ma sono d’accordo con lui, e con Luis Buñuel da lui citato, sul fatto che il bar sia «un esercizio di solitudine. Prima di tutto dev’essere silenzioso, buio, molto ospitale – e, contrariamente alle usanze moderne, senza musica di alcun genere, nemmeno a basso volume. Ci vogliono una decina di tavoli al massimo e una clientela che non ami chiacchierare». Come si comprende facilmente, è un’idea da naufraghi di un mondo scomparso... E tuttavia, vale la pena ricordare, come fa appunto Osborne, che «in Occidente il bar ha avuto origine nel Settecento sotto forma di caffè a Londra e a Parigi: è lì che nasce la politica moderna. La sua assenza, in una città, è un atto di ripudio, una retromarcia». Questo spiega anche l’alterità rispetto al mondo islamico tradizionale, alla sua idea di città: «La moschea e la sua scuola, o madrasa, insieme al suq, al bazar, sono gli unici veri luoghi pubblici della città musulmana tradizionale. La strada è un viottolo fra case private, che lo costeggiano e lo ostruiscono in un ammasso disordinato di cortili rivolti all’interno. La città musulmana è una creazione della shari’a: un alveare di spazi privati, fabbricato cella su cella».
Di tutto questo naturalmente non c’è più traccia nell’artificialità verticale degli Emirati del Golfo Persico o del centro storico di Beirut rifatto ex novo dagli architetti della società Solidere, ma nemmeno in capitali come Il Cairo, città che, almeno sino agli anni Settanta del secolo scorso, incarnava «la grande capacità egiziana di accogliere culture diverse e fonderle in un unico crogiolo umano». Dopo, l’Egitto è piombato nella morsa del pensiero wahabita-salafita, al quale la versione egiziana aperta e moderata dell’Islam ha ceduto il passo. Eppure, al bar del Windsor Hotel, quello che era la mensa ufficiali al tempo di Lawrence d’Arabia, Osborne si sorprende a chiedersi se «la profonda raffinatezza dell’Egitto» debba pur esistere ancora «da qualche parte, come un fiume carsico in attesa di riemergere alla luce del giorno. Non si prosciugherà mai del tutto, perché dall’epoca del faraone Djoser non è mai successo. Ma ci sono periodi di oscurità. Periodi aridi». Nell’attesa che l’aridità finisca, non resta che consolarsi con quella canzone di Cole Porter: «They have found the fountain of youth/ Is a mixture of gin and vermouth»...