il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2024
mattina di aprile del 2014 presi un volo da Kyiv a Donetsk, poi un treno locale per Luhansk per raggiungere il gruppo di osservatori dell’Osce che ero stato incaricato di guidare
mattina di aprile del 2014 presi un volo da Kyiv a Donetsk, poi un treno locale per Luhansk per raggiungere il gruppo di osservatori dell’Osce che ero stato incaricato di guidare. Le prime settimane del mio incarico come capo regionale Osce, designato dal ministero degli Esteri italiano, furono drammatiche. Coincisero con la nascita dei movimenti separatisti appoggiati dalla Russia nelle due regioni più orientali dell’Ucraina, Luhansk e Donetsk, e con l’inizio della campagna militare di Kyiv contro di essi. La missione speciale Osce, approvata il 21 marzo 2014 dai 57 paesi membri su richiesta del governo ucraino, era incaricata di monitorare la situazione politica e la sicurezza in tutto il paese dopo l’Euromaidan e l’annessione russa della Crimea. Per via del rapido dispiegamento della missione, carenze materiali limitavano il lavoro del mio gruppo di dieci osservatori (presto raddoppiati) che avevano incominciato ad arrivare a Luhansk all’inizio di aprile. Operavamo senza un ufficio, utilizzando i nostri appartamenti per riunirci, condividendo computer portatili e auto. Nessun responsabile della sicurezza fu distaccato dalla missione a Luhansk prima di fine giugno 2014. Il 6 aprile, l’Osce fu testimone dell’occupazione del palazzo dei servizi d’informazione ucraini (Sbu) da parte di circa 5.000 persone, nonostante la presenza di quasi 400 agenti di polizia a guardia dell’ingresso dell’edificio.
Nei giorni successivi, gli occupanti eressero barriere con vecchi copertoni e filo spinato e misero uomini armati a guardia dell’edificio.
In quelle prime settimane, diversi gruppi di militanti erano attivi a Luhansk, sia anti Maidan o “federalisti” opposti al governo di Kyiv, sia pro Maidan o partigiani dell’“unione” ucraina. L’amministrazione regionale era fedele a Kyiv, nonostante il Partito delle Regioni del deposto presidente Viktor Yanukovich detenesse la maggioranza di seggi in consiglio regionale. Il 12 aprile, un gruppo paramilitare comandato da Igor Girkin, detto “Strelkov” (fuciliere), colonnello in congedo dell’Fsb russo, attaccò Sloviansk, nella regione di Donetsk, occupando palazzi amministrativi e l’ufficio locale dell’Sbu. Il giorno dopo, il presidente ucraino ad interim Oleksandr Turchynov annunciò l’inizio dell’“operazione anti terroristi” contro i separatisti pro russi. Questi eventi sono generalmente considerati come l’inizio del conflitto nel Donbas.
Dialogo Il 17 aprile, due rappresentanti degli occupanti della sede Sbu dichiararono all’Osce che l’occupazione non era finalizzata a promuovere il “separatismo”, ma a “proteggere i diritti dei cittadini di Luhansk”. Critici sia nei confronti di Kyiv sia dell’amministrazione regionale, gli occupanti non espressero chiaramente i propri obiettivi. Altre dichiarazioni di attivisti pro Maidan esprimevano simile insoddisfazione nei confronti di Kyiv. Questo ci portava a pensare che l’Osce potesse organizzare un dialogo a livello locale tra i diversi gruppi di attivisti ed esponenti politici per cercare di evitare un’escalation. L’idea fu rafforzata da un documento firmato il giorno prima da vari paesi, Russia inclusa, la “dichiarazione di Ginevra”, che incoraggiava a “stabilire un ampio dialogo nazionale”. Nei giorni seguenti, lavorammo per convincere politici e attivisti locali che l’organizzazione di tavoli di dialogo inclusivi fosse la formula giusta per discutere le loro rimostranze e cercare di attenuare le tensioni.
Ma gli occupanti della sede Sbu di Luhansk annunciarono il 21 aprile la nomina di Valery Bolotov, un veterano dell’esercito sovietico ed ex manager minerario, a “governatore del popolo”. Con un ultimatum a Kyiv, chiesero di amnistiare tutti i loro militanti, ristabilire la lingua russa come ufficiale e tenere un referendum sullo status di Luhansk. La risposta doveva pervenire entro il 29 aprile alle 14:00.
Il 24 aprile, le tensioni vennero alimentate da voci di movimenti di truppe russe oltre il confine orientale e dalla notizia che militanti pro governativi erano stati imprigionati a Shchastya, dove vi era un centro di addestramento della polizia, e consegnati agli occupanti a Luhansk. Due giorni dopo, il capo dell’ufficio locale dell’Sbu, originario di Lviv, ci rivelò di intrattenere contatti regolari con gli occupanti e confermò la nostra percezione che tra di essi coesistessero posizioni diverse. Si disse anche convinto che la crisi si sarebbe potuta risolvere in modo pacifico.
L’ultimatum La notte prima della scadenza dell’“ultimatum” del 29 aprile, insieme a tre altri colleghi, fummo autorizzati ad accedere all’edificio Sbu per un incontro con i loro leader. Nel buio completo attraversammo le barricate accompagnati da uomini armati. In una costruzione più piccola accanto alla sede, ci ricevettero quattro uomini attorno a un tavolo, tra loro sedeva Valery Bolotov. Si presentarono come i capi dell’“Esercito del sud-est”, e Bolotov disse che lo scopo dell’occupazione era di “proteggere i diritti” dei cittadini di Luhansk, destituire il governo locale e ottenere “il diritto all’autodeterminazione”. Aggiunsero che giudicavano favorevolmente il ruolo dell’Osce nella promozione del dialogo, ma che ormai il tempo stava per scadere. Fino a quel momento, dissero, “si erano adoperati per usare la loro influenza sulla popolazione della regione per prevenire la violenza”. Ma dopo la scadenza dell’“ultimatum”, avrebbero “interrotto i loro sforzi di prevenzione”.
Verso la fine dell’incontro, chiedemmo chiarimenti sulle voci secondo le quali attivisti pro Ucraina fossero detenuti nell’edificio. Poco dopo, Timur Yuldashev, un attivista filogovernativo e allievo poliziotto, fu introdotto nella stanza. Il volto del giovane era livido e tumefatto: disse di essere trattenuto come “scudo umano” in caso il governo volesse attaccare il palazzo occupato (Yuldashev fu liberato dopo 35 giorni). Il giorno successivo, un’ora dopo la scadenza dell’“ultimatum”, centinaia di militanti separatisti occuparono il palazzo del governo regionale e l’ufficio del procuratore. Alcuni miei colleghi riuscirono a penetrare in entrambi gli edifici e osservare vari uffici devastati e finestre rotte. Poche ore dopo, un rappresentante della “Libera repubblica di Luhansk” dichiarò a una tv locale che “tutto è sotto controllo”, e che ci si preparava al “referendum” l’11 maggio.
Divisioni I giorni seguenti, il mio gruppo ebbe difficoltà a seguire gli sviluppi e a distinguere tra fatti e voci che rapidamente si susseguivano. Per via della disinformazione alimentata dalla Russia, pochi media erano attendibili. La città rimaneva tranquilla, ma il primo maggio, una folla di 500-700 persone si assembrò di fronte al palazzo regionale occupato per celebrare la Festa del Lavoro scandendo “Russia, Russia” e sventolando bandiere rosse con falce e martello. I manifestanti pro Kyiv con le loro bandiere ucraine azzurre e gialle, o quelle dell’Unione europea, parevano spariti dagli spazi pubblici. Quando Bolotov, il 3 maggio, proclamò lo “stato di emergenza” in tutta la regione, dichiarò proibiti tutti i partiti e le organizzazioni della società civile.
Gli sviluppi in diversi piccoli centri alimentarono il senso di caos e confusione di tutta la regione, il cui controllo da parte dell’“Esercito del sud-est” di Bolotov pareva tutt’altro che assoluto. Altri gruppi armati erano emersi nel sud della regione, tra questi la Guardia nazionale cosacca di Nikolay Kozitsyn, che aveva raggruppato sedicenti Cosacchi del Don e occupato l’edificio municipale di Antrasyt. A Sverdlovsk, dominava una milizia comandata da un altro cosacco, Alexey Mozgovoy. Entrambi si dichiaravano in opposizione al governo ucraino, ma indipendenti dall’“Esercito” di Bolotov.
Il giorno del voto, non osservammo code o urgenza da parte dei cittadini a esprimersi su un quesito espresso in modo molto ambiguo: “Sei in favore dell’azione di autonomia della Repubblica popolare di Luhansk?”. Ventiquattrore dopo, Bolotov annunciò che l’affluenza alle urne era stata del 75 per cento degli elettori, dei quali il 96 per cento aveva votato in favore della “Repubblica popolare di Luhansk” (Lnr), e il 3,8 per cento contro. Per quanto coloro che votarono condividessero genericamente sentimenti antigovernativi, pensammo, non erano necessariamente in favore di un’annessione da parte della Russia, come indica un sondaggio d’opinione di quel periodo. L’ambiguità della domanda del “referendum” mirava a sfruttare questa tendenza.
Ma i vincitori del “referendum” non dettero l’impressione di avere pianificato le mosse successive, ancorché di avere il controllo dell’intera regione. Due giorni dopo il voto, Bolotov fu attaccato e ferito a colpi d’arma da fuoco, poi ricoverato in una clinica privata. Dove si trovasse tale “clinica” fu chiaro due giorni dopo, quando la polizia di frontiera ucraina annunciò di avere catturato Bolotov mentre rientrava dalla Russia. Nonostante i suoi uomini riuscissero poi a liberarlo, l’episodio dimostrò come le forze separatiste fossero divise, oltre a non avere il controllo del territorio.
“Novorossiya” Oltre alle rivalità tra vari gruppi separatisti, i capi della neo-proclamata “Repubblica popolare” incominciarono a sentire la pressione dell’offensiva delle forze armate ucraine. Le notizie di combattimenti nella regione di Donetsk, portarono Bolotov alla nomina di un “presidente del Parlamento”, a chiamare pubblicamente volontari per il suo “esercito” e fare appello alla Russia perché inviasse “forze di peacekeeping”. I nostri rapporti dell’epoca non paiono indicare che la presenza russa fosse cospicua in quel momento, o che agenti di Mosca fossero attivi, come fu il caso poco più tardi. Questo potrebbe essere spiegato dalla grande incertezza che regnava, con diverse forze che si contendevano il controllo regionale.
Una prova dell’interferenza russa si deduce dai rapporti Osce sugli incontri con i gruppi armati nel sud della regione. Sia le milizie di Mozgovoy che i cosacchi di Kozitsyn avevano equipaggiamenti russi e ammettevano contatti oltre frontiera. Tuttavia, sostenevano di essere in favore di una regione autonoma di Luhansk che “mantenesse buone relazioni” sia con l’Ucraina sia con la Russia.
Il 22 maggio, il comandante del 24esimo battaglione dell’esercito ucraino ci fece sapere che le sue truppe stavano per riprendere il nord di Luhansk, per permettere l’organizzazione delle elezioni presidenziali ucraine previste il 25 maggio. Ma la campagna elettorale, in atto da settimane nel paese, pareva solo un’eco lontana a Luhansk. Dopo l’imposizione della legge marziale, nei giorni seguenti molti esercizi commerciali, banche, bar e ristoranti, restarono chiusi in città. Alcuni collegamenti ferroviari furono sospesi.
Il 24 maggio, il sito di Russia Today annunciò che le “repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk si erano accordate per creare l’“Unione della Nuova Russia” ( Novorossiya) dopo i recenti “referendum per l’indipendenza dall’Ucraina”. I delegati di otto regioni ucraine, si dichiarava, avevano firmato “un manifesto” per “l’autodeterminazione e la protezione della popolazione dal ‘terrore delle bande naziste’”. Interpellato, Bolotov negò la firma dell’accordo, ma riconobbe che negoziati erano in corso. Il giorno dopo, la maggior parte dei cittadini di Luhansk e Donetsk non poté votare nelle elezioni presidenziali. Nonostante gli sforzi delle truppe ucraine per liberare i territori a nord delle due città, fu impossibile allestire i seggi.
L’offensiva dell’esercito ucraino riprese il 27, concentrandosi sull’area a nord di Sieverodonetsk. Le notizie di un’avanzata ucraina contribuirono ad accentuare le divisioni nel campo separatista. Molti gruppi armati al di fuori della città di Luhansk non solo agivano ormai autonomamente dalla leadership della “repubblica”, ma incominciarono a metterla in questione o a opporsi a essa, considerandola “troppo morbida” con Kyiv.
Evacuazione Il 29 maggio, i combattimenti raggiunsero Luhansk: armati dell’“Esercito del sud-est” si scontrarono con unità della Guardia nazionale ucraina a circa tre chilometri dal centro, dove i separatisti stavano tentando di prendere un edificio tenuto dagli ucraini. La sera dello stesso giorno, un gruppo di nostri colleghi che si era recato quella mattina a osservare la situazione a Lysychansk e Sieverodonetsk, non era rientrato. I quattro osservatori e l’interprete che viaggiavano su due auto non rispondevano alle chiamate. Apprendemmo nella notte che erano stati trattenuti da un gruppo armato, probabilmente tenuti come scudi umani dai cosacchi di Kozitsyn, per scoraggiare un attacco ucraino in quell’area. Industrie chimiche e centri di ricerca si trovavano in quella zona, dov’erano stoccati anche materiali delicati. I nostri appelli ai capi della “repubblica” a Luhansk non sortirono alcun effetto, dimostrando ulteriormente divisioni e rivalità tra i gruppi separatisti.
Nei giorni successivi, infatti, la situazione si deteriorò e combattimenti esplosero in varie zone della città e dintorni. Il 2 giugno, l’aviazione ucraina colpì con un missile l’edificio dell’amministrazione regionale in centro città, facendo 8 vittime e vari feriti tra separatisti e civili. La notte precedente, forze separatiste avevano attaccato vari centri della Guardia nazionale nella regione, principalmente per prendere armi. Molti civili iniziarono a lasciare la regione, utilizzando i treni che ancora funzionavano.
D’accordo con la dirigenza Osce, nei primi giorni di giugno il mio team fu evacuato da Luhansk. Quindici osservatori furono trasferiti a Kharkiv, alcuni viaggiando in circostanze avventurose, in treno o in auto. Insieme ad altri tre colleghi, io restai nella città di Luhansk per mantenere contatti con le forze separatiste e contribuire agli sforzi per liberare i nostri colleghi. A Kyiv, il 7 giugno, Petro Poroshenko entrò in carica come presidente ucraino democraticamente eletto. I quattro osservatori Osce del mio gruppo furono liberati dai loro sequestratori dopo un mese di detenzione, il 28 giugno, psicologicamente provati ma in buona salute.
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Riflettendo a distanza di dieci anni su quel primo periodo della missione Osce a Luhansk, e leggendo i rapporti dell’epoca, non si può fare a meno di provare la sensazione di un’opportunità mancata. Nella primavera del 2014, movimenti separatisti erano attivi in molte città ucraine, Odessa, Kharkiv, Zaporizhia, Dnipropetrovsk. Tutti sostenuti segretamente dalla Russia. Nessuno di questi riuscì a creare delle “istituzioni” separatiste e quelle città restarono saldamente dalla parte di Kyiv. Sarebbe stato possibile che lo stesso accadesse a Luhansk?
Il margine per i negoziati era certo ristretto, ma molte delle forze politiche attive nella regione ci dettero segnali di una volontà di discutere con il governo soluzioni diverse da una “repubblica” separatista. Erano tutti in buona fede? Difficile rispondere con certezza. Alcuni esperti hanno sostenuto che forse un governo eletto e con pieni poteri a Kyiv avrebbe potuto negoziare per cercare di evitare gli sviluppi separatisti a Luhansk. D’altro canto, la forza e la violenza del movimento ribelle a Donetsk influenzarono la posizione di Kyiv, convincendo il governo ad assumere una posizione intransigente anche con Luhansk. Come lo storico Serhii Plokhy ha scritto, la presa di controllo russa del Donbas avvenne durante un “interregno”, tra l’estromissione di Yanukovich in febbraio e l’elezione di Poroshenko come nuovo presidente.
La confusione che regnava sul terreno in quelle prime settimane, con diversi gruppi armati che si combattevano per controllare la regione di Luhansk, certo non facilitò una comprensione della situazione. Questo rese impossibile la formulazione di una strategia efficace da parte dell’Osce e del resto della comunità internazionale. Quanto era avvenuto in Crimea poche settimane prima (e poi a Donetsk) forse nutrì la convinzione generale che non esistesse spazio per negoziare con i separatisti a Luhansk.
Dopo il “referendum”, l’offensiva militare ucraina si intensificò, gradualmente la Russia impose la sua strategia e creò istituzioni fantoccio, con individui diversi, infiltrando i suoi agenti e manipolando con la sua propaganda i sentimenti antigovernativi di gran parte della popolazione. Ma continuo a credere che le cose non fossero destinate ad andare così fin dall’inizio.