la Repubblica, 3 luglio 2024
Gli autori italiani non amano il loro mare. Lo denunciava già Italo Calvino: alla nostra letteratura manca l’avventura. E ora lo scrittore svedese rilancia: se i lettori viaggiano sull’acqua attraverso le pagine, chi scrive preferisce la terraferma
«Uomo libero, sempre amerai il mare!». Se si dovesse scegliere una sola frase per esprimere il posto che il mare occupa nella coscienza collettiva, il verso tanto spesso citato di Baudelaire sarebbe un buon candidato. Il mare, per ragioni piuttosto enigmatiche, è considerato come un luogo di sogni, di avventure, di esotismo, di desideri inappagati e, appunto, di libertà. I terraioli che vedono le navi partire verso destinazioni lontane rimpiangono di non essere parte del viaggio, anche se sanno che in realtà non partiranno mai. Il marinaio – più spesso al maschile che al femminile – è diventato il simbolo seducente di una vita di vagabondaggi in cui la zavorra del passato, spesso pesante da portare, non conta più, o comunque poco. Alla condizione, tuttavia, che il marinaio riparta: se restasse nel porto, perderebbe presto la sua seduzione e diventerebbe una minaccia, come i migranti che arrivano per restare.Non c’è dunque da stupirsi se il fascino del mare si esprime anche nel mondo dei libri e se in genere si presume che il mare sia una fonte di ispirazione privilegiata per la letteratura e gli scrittori. Personalmente, non conto più il numero di volte in cui ho dovuto rispondere alla domanda di come il mare abbia ispirato la mia scrittura, come se il mare possedesse un’anima o i marinai avessero una comune visione del mondo, per il solo fatto di affrontare il mare. Ma è vero?Non si può negare che ci siano stati alcuni grandi scrittori di mare, tra i quali Defoe, Smollett, Melville, Conrad, London, Golding, Mutis, Stevenson e qualcun altro. E, soprattutto, c’è stata l’ Odissea, che è considerata l’inizio e l’archetipo per eccellenza del mito del marinaio avventuriero.Quando mi sono messo a documentarmi per il libro che sarebbe poi diventato Raccontare il mare, la prima cosa che ho fatto è stata rileggere l’ Odissea. Con mia grande sorpresa, ho scoperto che Ulisse non meritava affatto il suo status di marinaio vagabondo per eccellenza. Quello che evidentemente si dimentica è che Ulisse è condannato dagli dei a errare sull’oceano di isola in isola, di avventura in avventura, di insuccesso in insuccesso, anche perché, per quanto coraggioso, le sue competenze in fatto di navigazione lasciano piuttosto a desiderare. In realtà Ulisse è, prima di tutto, un soldato che non ha che un unico desiderio: tornare a casa. Ben lungi da lui l’aspirazione a vagare gioiosamente per il mondo senza meta precisa sulla cresta delle onde. Cosa che, del resto, dichiara esplicitamente lui stesso nel libro XV: «Non c’è sciagura, credi, più grande per i mortali dell’andare errando».La rilettura dell’ Odissea ha risvegliato i miei sospetti: forse non c’erano poi tutti quegli scrittori di mare che si pretendeva, cioè poeti e romanzieri che parlassero realmente del mare, non solo come simbolo più o meno metaforico della condizione umana e della libertà, ma come di un luogo in cui si vive e, soprattutto, si lavora.Continuando la mia ricerca, il raccolto è stato magro. Quello che colpiva era soprattutto l’assenza del mare e dei “lavoratori del mare”, per riprendere il titolo del romanzo di Victor Hugo – il quale, in realtà, come del resto Baudelaire, non aveva mai messo piede su una barca. Niente mare, neppure le più infime increspature, in Racine, La Fontaine, Molière, Voltaire, Rousseau, Stendhal, Balzac e Zola, né nei grandi scrittori del XX secolo, Proust, Malraux, Gide, Camus, Sartre, Giono, Gary e altri. Soprattutto in Balzac e Zola, che avevano la dichiarata ambizione di raccontare ogni aspetto della vita degli uomini nella società, questo peccato di omissione non può essere frutto del caso. D’altra parte si potrebbe far notare che né Marx né i suoi discepoli hanno mai parlato dei proletari a bordo delle navi, nonostante il fatto che l’industrializzazione dell’Europa senza il commercio marittimo non avrebbe mai potuto realizzarsi.In un articolo intitolato “Letteratura italiana: il mare”, Goffredo Fofi fa una sintetica analisi della presenza del mare nella letteratura italiana. La sua conclusione è chiara: «Il mare non produce immaginario, o quantomeno non produce immaginario nei letterati». E continua sottolineando il divario tra una fortissima presenza del mare nella storia della penisola Italia, e la sua scarsissima presenza, invece, in quella letteraria. Secondo il luogo comune, l’Italia sarebbe «una terra di santi, poeti e navigatori», ma in letteratura, nota Fofi, «se i santi e i poeti hanno lasciato tracce scritte assai forti, i navigatori no». Infine Fofi mette in rilievo un’espressione rivelatrice che riguarda i pescatori, definiti a volte come “contadini del mare”, che dimostra che in Italia «il mondo dei pescatori e dei marinai doveva ancorarsi alla terra, decisamente, saldamente». In realtà gli italiani, tranne le eccezioni che ci sono sempre, sono prima di tutto rivieraschi, gente della costa. Certo ci sono velisti italiani che partono all’avventura e per luoghi lontani, ma ce ne sono anche molti che escono dal porto per mettersi in rada davanti alla spiaggia, tornando a terra per ilpranzo. Si va alla pesca per mangiare pesce fresco, si va in spiaggia per fare il bagno e starsene ore con i piedi a mollo a chiacchierare.Come dunque spiegare l’entusiasmo di tanti lettori italiani per i miei libri di mare, come Il cerchio celtico, Il porto dei sogni incrociati eLa saggezza del mare, per non parlare de La vera storia del pirata Long John Silver, centinaia di migliaia di copie vendute – tutti longseller per passaparola più che bestseller di una stagione? E che per di più sono tutti ambientati nelle acque fredde e inospitali dell’Atlantico, facendo scalo in porti che non sono conosciuti né per la loro cucina né per i loro monumenti storici.Voglio credere che il mio modo di raccontare in qualche modo c’entri. Ma forse la spiegazione migliore è che la mia visione del mare e del navigare corrisponde alla sensazione di una mancanza in molti italiani: quella di poter vivere la vita in mare, o altrove, come un viaggio all’incontro dell’altro, come una scoperta di altre culture e, ovviamente, come un’espressione del nostro margine di libertà di vivere in modo diverso, di uscire dai sentieri battuti, di non essere follower, ma artefici della nostra propria vita. Secondo Calvino, nel suo saggio Mancata fortuna del romanzo italiano, «una cosa è sempre mancata al romanzo italiano, che mi è la più cara nelle letterature straniere: l’avventura». È senza dubbio vero che l’attaccamento di tanti italiani alla terra, alla famiglia, ai piaceri della tavola, al patrimonio culturale, se vogliamo, rende difficile partire all’avventura se non per necessità, per ragioni di lavoro o, come nel passato, per sfuggire alla fame e alla povertà.Fortunatamente c’è la letteratura per ricordarci che le mancanze possono anche essere rimediate, che i sogni, perlomeno non quelli utopistici, ma i sogni realistici, possono essere realizzati, facendo uno sforzo. Alla fin fine, una delle funzioni più importanti della letteratura è di aiutarci a esercitare la nostra capacità di immaginazione per poterci dire che il mondo può essere diverso da quello che è diventato. Mi sembra che ne abbiamo davvero bisogno, in mare come a terra.