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 2024  luglio 03 Mercoledì calendario

Intervista a Neri Parenti

«Mi piace fare questo mestiere, posso dirmi soddisfatto. Anche se in un genere ritenuto di secondo livello, ho girato tanti film e, alla fine, i grandi incassi mi hanno fatto piacere». Glorioso autore della saga delle vacanze italiane becere, Neri Parenti riceve oggi il premio alla carriera all’Ischia Film Festival diretto da Michelangelo Messina: «Quando ti danno un premio come questo sembra sempre che hai finito, che non farai più film, e invece sappiamo che in giro ci sono registi novantenni che continuano a girare. Sa che cosa è diverso? Prima, quando mi intervistavano, mi chiedevano del prossimo progetto, adesso nessuno fa più questa domanda».
I suoi film sulle vacanze hanno avuto l’amore del pubblico, ma anche le critiche feroci di chi non sopportava certi picchi trash. Si è mai sentito ingiustamente messo all’indice?
«No, forse qualcuno parlava male dei miei film solo per invidia, perché non sopportava il loro successo. E poi ci sono critici e critici, alcuni scrivevano di non amare il genere, constatando però il valore degli incassi, altri invocavano l’ostracismo, dicendo che quei film non andavano più fatti. E alla fine ci sono riusciti».
Ha vinto il “politically correct”?
«Certo, quel tipo di cinema è completamente scomparso. Erano film scorretti, linguaggio un po’ pesante, donne usate come oggetti, argomenti pruriginosi. Tutto questo oggi è vietato, dai miei ultimi due film, Volevo un figlio maschio e In vacanza su Marte, ho dovuto levare tutto. Hanno fatto le pulci alle sceneggiature. Per esempio ho dovuto cancellare la parola “cicciona” sostituendola con “sovrappeso”. Ma lei se lo immagina De Sica che, in una commedia, dice “ahò, a sovrappeso”? Non funzionerebbe».
Silvio Orlando ha parlato di un’epoca di cinema sessuomaniaco, oggi finita. Anche lei ha respirato quel clima?
«Come no! Nell’arco della carriera di situazioni sessuomaniache ne ho viste eccome. Dopo il MeToo e dopo il caso Brizzi tutto è cambiato».
Come?
«Per esempio sono diversi i provini. Da me le attrici sono sempre venute, abbiamo discusso, ci siamo salutati dandoci la mano. Adesso vengono sempre accompagnate e durante il colloquio bisogna lasciare la porta aperta. Ma io ho più di 70 anni, non ho mai fatto le scemo con le ragazze, nemmeno a 30 anni, perché mai dovrei iniziare adesso?».
Altre regole?
«Sul set ai registi viene dato una sorta di decalogo alla Torquemada, che regola i comportamenti, guai a non attenersi. Non si può più scherzare su niente. È chiaro che, invece, in un film comico, si dovrebbe poter ridere di tutto».
Nella galleria delle sue Vacanze a…, qual è il titolo che preferisce?
«Vacanze sul Nilo. Sono sempre stato un appassionato della storia dell’Egitto, mi piacevano i faraoni, la loro genialità, i loro usi e costumi religiosi, ho letto tanti libri sul tema. Il mio grande sogno è girare un film d’avventura alla Indiana Jones, quella volta, nel mio piccolo, ho potuto girare una storia così, con gli inseguimenti, il deserto, la magia, i predoni. Vacanze sul Nilo è anche il film della serie che ha incassato di più».
Una volta è successo che qualcuno si sia messo a contare le parolacce di un suo film e ci abbia scritto un articolo. Le dispiacque?
«No, perché ce le avevo messe io. Il film era Natale in India, ce n’erano 101. Aurelio De Laurentiis aveva assoldato Enzo Salvi, “er Cipolla”, e il numero delle parolacce si era raddoppiato in un attimo».
Ha mai litigato con uno dei suoi interpreti?
«Sì, solo una volta, con un’attrice. Anna Maria Barbera, Sconsolata. Era piena di fisime e di complessi. Abbiamo dovuto bloccare il film».
E perché mai?
«In Christmas in love doveva essere innamorata alla follia di Ron Moss di Beautiful, a un certo punto lui perdeva la memoria, i due si ritrovavano da soli in una baita di montagna e lei gli faceva credere di essere Brooke, la sua passione di sempre. Ogni volta che giravamo la scena, lei si bloccava dicendo “si capisce che lui non mi ama, mi guarda come se fossi brutta”. Le ripetevo che il gioco era proprio quello. Ma niente, dovette intervenire Aurelio, pur di non interrompere la lavorazione, fece un accordo».
Quale?
«Non avrei dovuto mai più rivolgerle la parola, da quel momento, quando dovevo dirle qualcosa, l’aiuto regista faceva da tramite».
Perché la coppia Boldi-De Sica faceva ridere così tanto?
«C’era un’alchimia ottima e avevano a disposizione sceneggiature molto comiche. Uno era il Nord, l’altro il Sud. Il primo era un clown, il secondo, come dicevo io, una specie di Cary Grant in versione volgare. Uno brutto, l’altro bello, uno con la voce stridula, l’altro con il tono da doppiatore. E poi, pur facendo film in coppia, non si logoravano, ognuno aveva la sua parte di storia, non erano mai insieme per l’intera durata del racconto».
Nei suoi film si specchiava la politica italiana. Come sarebbero le vacanze oggi, ai tempi di Schlein e di Meloni?
«L’Italia non è poi tanto cambiata, abbiamo fatto film sul berlusconismo, ma anche sui Dem al governo. Non è un genere che cambia, forse i personaggi possono essere un poco diversi, ma non più di tanto».
Che cosa la fa più ridere della politica attuale?
«Tutti dicono sempre le stesse cose, ma proprio con le stesse parole, trovo che sia imbarazzante, anche perché poi non succede niente di nuovo. La Schlein, per esempio, parla all’infinito della Sanità. Non sono un politico, ma penso che forse si dovrebbe provare a fare qualcosa di concreto, e questo vale sia per il governo che per l’opposizione».
Avete viaggiato tanto, lei, Boldi e De Sica. Come reagivano agli spostamenti i due mattatori?
«C’era una grande diversità, De Sica era un viaggiatore, Boldi si era mosso al massimo da Luino a Milano. Si faceva accompagnare sempre da un segretario, sennò non riusciva nemmeno a mangiare, non comunicava con il resto del mondo».
Durante queste trasferte, che cosa l’ha fatta ridere di più?
«Ricordo una volta ad Aspen. Eravamo in un famoso ristorante giapponese. I menù erano in inglese, Boldi mise il dito sul nome di un piatto. Arrivò una specie di cernia tutta rossa, guarnita con delle pinne. Immangiabile. Un’altra volta, non ricordo dove, arrivò a tavola una testa di capra con dentro un cervello, Massimo non riuscì a mangiarla e, devo dire, nemmeno io». —