Corriere della Sera, 3 luglio 2024
Intervista a Fabio Treves
«Si ricorda di Lou Marini? Il mitico sassofonista dei Blues Brothers che viene “cacciato” da Aretha Franklyn dal fast food? Ho festeggiato con lui il primo round del mio mezzo secolo di carriera». Sì, i Blues Brothers, ovvero il blues. Se in Italia si può identificare un musicista con un genere questi è Fabio Treves: all’anagrafe gli anni sono 75, ma appunto sono 50 quelli in cui il cantante e armonicista è salito su un palco con la Treves Blues Band. Traguardo che celebrerà nella sua Milano, lui detto il «Puma di Lambrate», al Castello Sforzesco, il 6 agosto. Ma, come vedremo, è stato tante cose Treves: fotografo, consigliere comunale, milanista militante... E Marini non è che l’ultimo di una lista di grandi con cui si è intrattenuto.
Com’è celebrare questo traguardo, Treves?
«La prima sensazione è l’orgoglio. Quello di aver fatto conoscere un genere che era sconosciuto quando ho iniziato io: dovevi andare in Svizzera per ascoltare il blues».
Quando è nata questa passione ?
«Merito di mio padre, psichiatra singolare che andò a Lascia o raddoppia? come esperto di cinema. Ma anche appassionato di musica: portava a casa dischi di jazz e fado, ma anche di blues tradizionale, Howlin Wolf e Robert Johnson. Da lì sono rimasto stregato. Peccato sia morto prima che iniziassi. Ma i meriti li divido con un altro».
Chi?
«Renzo Arbore. Fin dai tempi dell’Altra Domenica è stato il primo a chiamarmi, scommettendo su un genere che in Italia conoscevano appunto in pochi».
Quanti concerti ha fatto in mezzo secolo?
«Più di mille».
E ha suonato dappertutto, nelle fabbriche e nei manicomi: quello più bizzarro?
«In un paesino in Sardegna, a Ulassai. Per arrivarci c’erano duecento tornanti. Arrivati in cima sembrava di essere in Arizona, con le rocce rosse. Surreale».
Il più emozionante?
«Beh, quando ho aperto i concerti di Bruce Springsteen nel 2016, la realizzazione di un sogno. Quando ci siamo conosciuti abbiamo scherzato sul fatto che fossimo della stessa leva, il 1949, sembrava ci fossimo incontrati al bar due giorni prima. Ed avere ricevuto i suoi complimenti non ha pari».
Il primo grande che incontrò fu però Jimi Hendrix, nel 1968 al Piper di Milano.
«Mi immaginavo una montagna di muscoli. E invece era più piccolo di me, con queste dita affusolate, un vero gentleman. Facevo solo il fotografo allora: le istantanee che realizzai sotto il palco hanno fatto il giro del mondo. L’avrei rivisto due anni dopo all’Isola di Wight, al suo ultimo concerto, insieme a Santana, Janis Joplin, Miles Davis».
E i Doors?
«Di loro ho un’immagine piuttosto sfocata, suonarono troppo tardi. Ricordo bene invece Joni Mitchell, fischiata perché si presentò con una chitarra acustica, il pubblico voleva il rock’n’roll».
Hendrix
Prima di incontrare Hendrix credevo che fosse un omone e invece era più piccolo di me
Saltiamo di nuovo in avanti: Frank Zappa, 1988.
«Mi lasciò di stucco quando mi propose di suonare con lui con la mia armonica. La band era esterrefatta: non invitava mai nessuno che non conoscesse a salire sul palco perché era troppo pignolo».
In quel periodo faceva anche il consigliere comunale a Milano, indipendente in Democrazia Proletaria e poi nei Verdi nella Milano da bere.
«Non ricordo quell’esperienza con piacere, le dinamiche della politica politicante mi schiacciavano. Anche se ho organizzato delle belle rassegne. Più piacevole rievocare i matrimoni che celebravo con la fascia tricolore...».
Ed era anche insegnante di fotografia...
«L’ho fatto per quarant’anni. Prima però solo ai concerti, facendo le foto sui palchi sognavo di salirci sopra».
Tornando alla Milano da Bere, venne devastata dall’eroina.
«Uccideva tutti, ricchi e poveri. Ho cercato nel mio piccolo di far capire che si poteva fare altro. Anche con il blues».
Ma, in fin dei conti, cos’ha di così speciale il blues?
«È il sottofondo della vita di tutti i giorni. È uno stato d’animo più che un genere. Perdi una persona cara, ti innamori, viaggi: lui c’è».
Chi è un bluesman mancato?
«Ramazzotti sarebbe perfetto. Sono però tanti quelli a cui ho prestato la mia armonica che non sono per nulla blues: Branduardi, Cocciante, Finardi, Celentano...».
A chi avrebbe voluto prestarla e non l’ha fatto?
«A Gaber, a De André. E all’amico Jannacci, con cui ne abbiamo combinate tante, allo stadio da milanisti, in palestra dove era un grande karateka, a fare cose matte come il windsurf all’Idroscalo senza un filo di vento. Ma mai in sala d’incisione».
E cosa le manca di fare nei prossimi cinquant’anni?
«Vorrei suonare a San Siro alla festa per la seconda stella del mio Milan. Però mi sa che devo aspettare ancora qualche anno...».