Corriere della Sera, 3 luglio 2024
Dacia Maraini è tornata nel Paese in cui è stata bambina durante la guerra, tra ricordi e nuove impressioni
Sapporo, Giappone. Il clima è mite, mentre a Tokyo già si bolle. Anche se l’aria condizionata va a tutto volume e molti come me si prendono il raffreddore. Questa zona montagnosa e verdissima del Paese è poco visitata dai turisti e, come succede nelle province isolate, sa accogliere con gentilezza e curiosità lo straniero. Non lo vedono come un pollo da spennare, tipico delle grandi città turistiche, ma come qualcuno che può portare racconti e notizie nuove da ascoltare. In generale comunque i giapponesi sono cortesi e disponibili, e non si tratta solo di una cortesia formale, ma di una scelta antica coltivata per facilitare i rapporti sociali e si basa su una visione del mondo in cui la comunità conta più dell’individuo. Verrebbe voglia di dire: datecene un poco anche a noi, che qui siamo al contrario esasperati dall’individualismo che prevale sul senso della comunità e dello Stato!
Una cosa che colpisce gli stranieri è la facilità con cui i giapponesi distruggono le loro vecchie bellissime abitazioni di legno, perfino i templi più antichi vengono ricostruiti sempre nuovi. Anche l’Imperial hotel, un capolavoro liberty dell’architetto Frank Lloyd Wright, è stato buttato giù a Tokyo per costruirne uno nuovo sotto la guida dell’architetto Takahashi. La pratica viene dalla antica abitudine di edificare tutto in legno. La pietra non era conosciuta dagli architetti, solo legno, ceramica carta e paglia. Il che significava che facilmente le abitazioni prendevano fuoco e quindi erano sempre pronti a ricostruirle rapidamente. Da qui l’abitudine a considerare le case e i templi come qualcosa di fragile e poco duraturo. Ma forse c’è dentro anche una visione del mondo basata sul ricambio continuo, un distacco buddistico dalle cose del mondo: le case per abitare ben vengano ma non sono da tramandare come memorie di un’epoca. Le camere ariose, i meravigliosi pavimenti di paglia intrecciata, devono durare quanto una vita. Col tempo si sporcano, si consumano e devono essere inceneriti come si inceneriscono i corpi morti per fare spazio ad altri corpi, altra vita. Solo che oggi il nuovo consiste in grattacieli sempre piu alti, fatti di ferro e cemento. E gli architetti sono diventati bravissimi nel renderli ondivaghi. In caso di terremoto i corpi altissimi ballano, si torcono, ma non crollano. Il sistema antisismico è applicato con spirito preciso e duraturo. Ma questo ha cambiato il senso di una casa delicatamente esposta e di un giardino che la abbraccia e la accarezza, come racconta la poesia giapponese. Oggi i grattacieli regalano un senso di onnipotenza ma i rapporti che gli abitanti delle case di legno avevano con gli alberi, l’acqua, la luna sono spariti del tutto. I poeti che conoscevano questa arte spirituale oggi mi sembrano disorientati. Che senso ha l’haiku se al posto della luna hai davanti una parete di cemento?
L’università di Hokkaido è immensa e si trova dentro un parco magnifico carico di alberi centenari, di torrentelli d’acqua limpida e piccoli laghi. Dentro questo parco c’era la casa dove ho abitato da bambina con i miei. La casa è stata demolita. Ho ritrovato solo gli alberi centenari e quell’odore di bosco e di acque selvagge che mi hanno accompagnato per i primi anni di vita.
Per incontrare gli studenti mi sono trovata in una sala modernissima dal soffitto a volta di vetro e ferro. Ho capito subito che i ragazzi avevano voglia di ascoltare e di sapere. Come se il più recente passato sfuggisse loro di mano e volessero in qualche modo fermarlo attraverso i miei ricordi. Nessuno di loro sa che ci sono stati dei campi di concentramento per stranieri antifascisti in Giappone. E per chi li ha vissuti non è facile raccontare la fame vera, quella che porta malattie, parassiti, disperazione; il sadismo delle guardie, l’ossessione delle bombe. Ma l’attenzione degli studenti mi ha fatto capire che non era del tutto inutile narrare di quella fame e di quella prigionia.
Mi hanno portato poi a visitare un piccolo museo fotografico in cui appaiono le immagini di un gruppo di studenti degli anni Quaranta che si riunivano per parlare di letteratura e di democrazia. Il gruppo si chiamava Société du coeur. Il francese allora era la lingua internazionale oggi sostituita dall’inglese. Lo scopo del piccolo gruppo era opporsi alla guerra attraverso nuovi legami culturali con Paesi che venivano considerati nemici. Alla Société, costituita prevalentemente da studenti giapponesi, partecipavano infatti due inglesi, una francese e due italiani, mio padre e mia madre. Fra tutti lo studente Hiroyuki Miyazawa era uno dei piu attivi. Quando nel ’43 il Giappone, rinunciando alla sua indipendenza, si è alleato con la Germania nazista e con l’Italia fascista, il povero ragazzo è stato accusato di spionaggio, solo perché frequentava forestieri e aveva criticato le politiche del governo. Messo in prigione è stato trattato con tanta crudeltà che appena uscito, è morto di stenti. Nel dopoguerra è stata riconosciuta la sua innocenza ma intanto il giovane è morto lasciando solo un ricordo di coraggioso antimilitarismo. E oggi quel Giappone che ama la consapevolezza e la chiarezza, chiede che si riconoscano gli errori fatti e si dia visibilità a chi li ha subiti. Viene da riflettere sul fatto che ovunque, appena un governo si trasforma in regime, diventa sospettoso e cerca nemici da combattere. Se non li trova, li inventa. Questo ce lo racconta anche troppo chiaramente la cronaca politica di questi giorni. Dovunque regni la tirannia, nascono i sospetti e i sospettati facilmente si trasformano in vittime. Unico torto è avere criticato il regime o avere detto una verità scomoda che si doveva tacere. Vedi tutti i giornalisti che in questi giorni sono chiusi nelle carceri dei Paesi illiberali.
La tentazione di cedere all’irrazionalità e alla chiusura delle porte sta prendendo piede anche qui nel Paese del riso e del sakè. Ma credo che più che la paura di imbarcare criminali, o di perdere posti di lavoro, le nuove intolleranze nascano dalla paura di smarrire qualcosa della propria antica identità: un sentimento che facilmente fa breccia negli animi dei semplici. La propaganda poi ci mette il suo carico per appesantire le paure collettive. L’associazione che si richiama a Miyazawa si propone di portare alla memoria gli errori fatti dal regime di quegli anni, anche per ribadire le decisioni prese dopo la guerra e oggi rimesse in discussione: non più eserciti, rifiuto di ogni iniziativa nucleare, volontà di mantenere la pace.
Oggi tutti questi propositi vengono rivisti di fronte a un regime tirannico che decide di allargare il suo territorio invadendo e impossessandosi di terre e città non sue. E lo fa con crudeltà e determinazione, incurante dei disastri che provoca, bombardando scuole, asili, ospedali, fabbriche e centrali elettriche.
Qui nasce la grande questione: il diritto di difendersi può coesistere con una volontà di pace? Fino a che punto cedere ai ricatti del più forte per amore di pace? E la sottomissione porta pace e riesce a fermare la guerra?