Corriere della Sera, 3 luglio 2024
Ritratto di Keir Starmer
La foto che non ti aspetti è appesa a un pannello pieno di post-it gialli dietro la sua scrivania. Judy, la segretaria che organizza la sua agenda, allarga le braccia quasi a scusarsi. «Non so come ci è finita lì sopra, ma sarà stato lui stesso a metterla: è il suo idolo assoluto». Con la maglia biancorossa di quando giocava all’Ajax, un giovane Johan Cruyff sorride a Keir Starmer ogni volta che lui apre la porta, di ritorno da quelle che il probabile nuovo primo ministro del Regno Unito chiama «le mie giornate con pasti tripli». Tre colazioni, tre pranzi, spesso tre cene.
L’ultima tappa prima del rientro a Londra nel quartier generale di Camden, il suo collegio elettorale, è stata a Hucknall, piccola città nella contea di Nottingham, ai piedi del cosiddetto muro rosso del Labour, le terre operaie delle Midlands e del nord Inghilterra che nel 2019 crollarono sotto i colpi del populismo istrionico di Boris Johnson. «Lord Starmer, ce la fa a tornare a casa prima delle 18?», gli ha chiesto a pomeriggio ormai inoltrato un militante, mentre palleggiavano insieme sul campo della locale squadra di calcio. «Non credo», è stata la risposta. «Ma grazie a Dio non è ancora venerdì».
Quando le cose possono andare bene, lo faranno. La campagna elettorale di Starmer sembra sovvertire i luoghi più comuni. Anche la polemica del giorno è girata per l’ennesima volta in suo favore. Durante la consueta diretta radiofonica del mattino, ribadisce di voler dare del tempo di qualità ai suoi figli, come afferma qualunque genitore. «Quindi il venerdì, al solito, non farò nulla di lavorativo dopo le sei del pomeriggio, qualunque cosa accada». Ma i Tories attaccano a testa bassa: «È uno che timbra il cartellino», «Sarà un primo ministro part time». Interviene anche Rishi Sunak, per far presente che da quando si trova a Downing street non ha mai staccato alle 18, anzi. Passano poche ore, e il sospetto di aver sbagliato l’ennesima mossa di una campagna elettorale da Paperino si fa strada tra i Conservatori. Ma la misteriosa Victoria, la First Lady riluttante, ossessionata dalla privacy al punto che nessuno conosce i nomi dei due figli della coppia, non è forse di religione ebraica? Ahia. Come in Francia, anche la campagna elettorale inglese ha avuto come sottotesto il tema dell’antisemitismo strisciante. E da abbonato all’Arsenal nonché simpatizzante in seconda battuta dell’Ajax, la squadra del ghetto di Amsterdam, Starmer non si lascia sfuggire l’occasione di segnare un altro gol in contropiede: «Per alcune religioni il venerdì sera è un momento importante. Ma conta anche la volontà di stare con i miei cari».
Non è vero che Keir Starmer stia solo approfittando della dissoluzione dei Tories. Nel piccolo ufficio di Camden, anch’esso scelto con cura, in uno dei pochi caseggiati popolari del quartiere, le sue devote assistenti affermano che «ha tutte le carte in regola». A cominciare dalle origini operaie, sventolate con orgoglio, nonostante la laurea a Oxford e la residenza nella ricca enclave di Kentish Town ne facciano anche un esempio dell’alta classe britannica. Nasce nel 1962 alla periferia di Londra da papà Rod, attrezzista in una fabbrica, e da Josephine, infermiera in congedo per una grave malattia. Entrambi socialisti, i genitori lo chiamano Keir, che in gaelico significa «oscuro», in omaggio al capo dei minatori scozzesi Keir Hardie. Il padre gli vieta di guardare la televisione. Lui reagisce sviluppando una mania per il calcio, che oggi usa come metafora per qualunque argomento. Proprio ieri gli è stato chiesto se si sarebbe mai immaginato di poter diventare un giorno primo ministro: «I miei quattro fratelli non hanno potuto andare all’università. Io sono stato il primo della famiglia a farlo. C’è sempre stata una voce nella mia testa che mi diceva: la gente come te non diventa parlamentare».
Starmer l’oscuro comincia come avvocato. È in questa veste che conosce la collega «Vic», che nel 1997 sta facendo la volontaria per la campagna di Tony Blair. Lei lo converte al vegetarianismo, non totale, e lo inserisce nella comunità ebraica londinese. Nel 2019, quando diventa segretario di un Labour disastrato e tacciato di antisemitismo, la convinzione generale è che quell’uomo dal faccione bonario e dall’eloquio mai brillante sia una figura di passaggio. Keir e Vic, che più volte lo convince a non mollare, hanno altre idee. Starmer avvia una specie di terapia d’urto. Elogia Margaret Thatcher come «fulgido esempio di servizio pubblico». Affronta il tema dei costi della transizione ecologica, un tabù a sinistra. E abolisce ogni discussione sulla Brexit, definita addirittura «una opportunità da perfezionare».
La vera rivoluzione è l’allontanamento degli elementi in odore di antisemitismo, a cominciare dal suo predecessore Jeremy Corbyn. Lentamente, e non senza contraddizioni, il Labour torna a essere una scelta potabile per il ceto medio. Il resto lo fanno i Tory. Starmer non ha mai colpi d’ala, ma si impegna nel trasmettere una immagine di solidità a un Paese spaventato dal proprio declino. Ieri, sul campo di Hucknall, gli è stato domandato anche quale definizione darebbe di sé. Ci ha pensato sopra un momento. «Sono una persona che quando si accorge dell’esistenza di un problema, cerca di risolverlo. Molti pensano che la passione consista nell’urlare e insultare. Per me invece si tratta di aggiustare le cose, rendendole migliori». Subito dopo, Keir Starmer si è girato e con il sinistro, come amava fare spesso il suo idolo Cruyff, ha calciato il pallone, che è entrato nella porta vuota.