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 2024  giugno 10 Lunedì calendario

Biografia di José Bové (Joseph Bové)

José Bové (Joseph Bové), nato a Talence (Francia) l’11 giugno 1953 (71 anni). Agricoltore. Sindacalista (Confédération paysanne). Attivista. Politico (Les Écologistes; già Europe Écologie). Ex europarlamentare (2009-2019). «Sono contro ogni manipolazione e strumentalizzazione della vita, animale, vegetale e umana» (a Silvia Ricciardi) • Primo dei tre figli di Colette Dumeau (1927-2014), professoressa di Scienze naturali, e di Joseph-Marie «Josy» Bové (1929-2016), biochimico lussemburghese naturalizzato francese, il quale dichiarò, a proposito del figlio: «José Bové mantiene, a suo modo, la tradizione “agricola” della famiglia: sono io stesso agronomo di formazione, mio padre e mio nonno erano orticultori e, andando più indietro, un mio prozio, il botanico ed esploratore Nicolas Bové, negli anni Trenta dell’Ottocento percorse il Medio Oriente in cerca di nuove piante per l’agricoltura egiziana, e fu il primo a studiare la flora del Sinai». «Nel 1997 il professor Bové, che attacca l’“atteggiamento intollerante nei riguardi degli Ogm”, scoprì la causa della malattia che aveva fatto strage di aranceti in Brasile. L’anno dopo fece la scoperta di una simile malattia in Cina, dove degli insetti infettavano alberi da frutto. Ricerca benemerita osteggiata dal figlio, che ha persino distrutto una coltivazione Ogm dell’azienda Cetiom, basata sul lavoro dell’istituto di ricerca del padre. Avverte l’anziano biochimico: “Se continueremo a usare la coltivazione organica, milioni di persone nel mondo moriranno di fame”. Il figlio, intanto, continua a ripetere che “gli unici Ogm buoni sono quelli morti”. […] “Nel Medioevo si bruciavano le streghe e oggi si bruciano le coltivazioni transgeniche”, ha scandito il professor Bové contro le azioni dei vandali ecologisti» (Giulio Meotti). Trascorsa parte della prima infanzia all’estero (soprattutto in California) al seguito degli impegni accademici dei genitori, nel 1968 José Bové fu iscritto al liceo privato Saint-Charles d’Athis-Mons, non lontano da Parigi, gestito da gesuiti, ma «subito mette in dubbio professori, programmi, metodi e si fa espellere. Neppure la società nel suo insieme gli piace. Evita i gruppuscoli gauchiste perché non è di sinistra (“Sono libertario, anarco-sindacalista, cattolico-pragmatico, sovversivo-simbolico”) e va a unirsi ai pacifisti, agli antimilitaristi, agli obiettori di coscienza. Frattanto prende il “bac”, si iscrive a Filosofia, passa a Sciences Po, ma ha poco tempo da dedicare alle lezioni universitarie, preso come è dai doveri del ruolo: ogni venerdì lo trovi in un’aula del Tribunale di Bordeaux dove si processano gli obiettori e annota tutto, arringhe, requisitorie, battute, sentenze, con le quali riempie utili dossier da affidare ad avvocati amici e magistrati militanti. Il ruolo lo spinge fatalmente dove c’è bisogno di fare quello che definisce “un grand bazar”. Ha un posto di prima fila sulla nave di Greenpeace che tenta lo sbarco nell’atollo di Mururoa, la palestra delle atomiche francesi. È tra coloro che trafugano documenti sulle importazioni abusive di farine inglesi sotto embargo. Prende parte a tutti i cortei possibili, dalle tardofemministe ai separatisti bretoni ai licenziati del ristorante parigino Lipp. Annuncia di rifiutarsi al servizio militare e sfugge alla prigione nascondendosi per un anno in un cascinale della Dordogna a produrre latte e yogurt accuratamente biologici, sino a quando la polizia lo scopre e lo arresta. Va in carcere gridando slogan di sua creazione, “Montoni, non cannoni”, “Il grano dà la vita, le armi la morte”. Latticini, ovini, cereali: il giovanotto della buona borghesia bordolese incomincia a sentirsi contadino. Lo diventa una volta per tutte il giorno che raccoglie famiglie di squatter e le porta a installarsi nelle fattorie di un terreno assegnato a scopi militari in Aquitania, non lontano da Bergerac. […] Accanto alla moglie e alla figlia di quattro mesi è sul primo di uno squadrone di trattori che penetrano nella zona proibita e si scontrano con le guardie armate, vengono respinti, sottopongono il campo a un assedio sino a quando il presidente Mitterrand, stuzzicato dalla consorte Danielle, protettrice dei ribelli di ogni categoria, annulla l’utilizzo marziale dei 5 mila ettari confiscati e li concede in affitto ai braccianti. Tra essi c’è José, che ha ormai scoperto la sua vera vocazione: l’agricoltura di battaglia, nel senso stretto delle parola» (Gino Nebiolo). «Il produttore di latte continuò a lottare per le sue idee, in particolare impegnandosi fortemente nel sindacalismo agricolo e detronizzando l’egemone Fnsea (Federazione nazionale dei sindacati degli agricoltori). […] La vittoria del campo socialista nel 1981 gli ha dato una spinta. Édith Cresson, ministro dell’Agricoltura all’inizio del primo mandato Mitterrand, decise di riconoscere il pluralismo sindacale in questo settore. Il processo ha seguito il suo corso e ha portato, nel 1987, alla nascita della Confédération paysanne. […] Fin dall’inizio, la giovane organizzazione si posizionò in opposizione alla Fnsea, difendendo l’agricoltura contadina. Bové divenne il suo portavoce nazionale 13 anni dopo. Mostrando che un altro mondo era possibile» (Romain Gruffaz). Nel frattempo, Bové «va ad abitare in una cascina diroccata senza luce né acqua né strade; assieme a qualche compagno compera a rate un gregge di pecore e si trasforma in pastore stanziale. Lavora duro. I modesti guadagni dal latte che diventa formaggio, li spartisce con gli amici. […] Ma quella vita lo corrobora, gli offre spunti per realizzare finalmente il progetto di una lotta totale contro i mali che affliggono l’uomo. Alla rinfusa: le modificazioni genetiche in agricoltura, la globalizzazione, la dittatura dell’Organizzazione mondiale del commercio, l’onnipotenza del mercato, il debito del Terzo mondo, la standardizzazione degli alimenti e naturalmente la malbouffe [il cibo spazzatura – ndr] made in Usa. Nelle stagioni morte, al volante di un camioncino Renault blu logorato da 250 mila chilometri, mette la testa fuori dalle sue colline e si getta nell’agone. Al principio sono piccole cose: la corsa per le strade dei villaggi con il carrello di un supermercato pieno di verdure transgeniche, la concione ai contadini il giorno della fiera per invitarli a boicottare i prodotti contro natura, il lancio di uova e patate marce al camioncino della soia importata dall’America, la fondazione di una Confederazione di agricoltori. I paesani gli danno retta non più di tanto. Lo ammirano per quella capacità di parlare tre giorni di continuo senza smettere e stare quattro notti senza dormire, come un fachiro. Apprezzano il lavoratore resistente e l’attivista perseverante, ma tutto lì. Nemmeno il resoconto in piazza del viaggio a Mururoa per opporsi alla ripresa degli esperimenti nucleari riesce a scaldarli davvero. A loro, dell’atomica, non gliene può importare di meno. Per smuoverli ci vorrebbero i cannoni. Invece l’assalto al McDo risuona nelle vallate più di una bordata di artiglierie» (Nebiolo). «La mattina del 12 agosto 1999 le agenzie di stampa mandano in rete un dispaccio dalla cittadina francese di Millau: “Agricoltori assaltano il cantiere di un McDonald’s”. Il mondo ancora non lo sa, ma sta per fare la conoscenza di José Bové, […] destinato a diventare l’icona delle campagne di boicottaggio contro la catena di fast food americana. Oltre che membro del “popolo di Seattle” della prima ora: da quando (novembre ’99) attraversa l’oceano armato di 200 chili di formaggio roquefort per dare una mano a fermare la conferenza del Wto» (Mario Porqueddu). «Decisivo è stato l’assalto […] a un McDonald’s in costruzione alle porte del villaggio. Perché l’assalto? Risposta semplice: “Per la malbouffe”. […] Lei pensa che da McDonald’s si mangi male? Qui il discorso diventa lungo e un filo solenne. “Anche. Ma le ragioni del mio disgusto per quella catena sono: primo, per me rappresenta il peggio della globalizzazione, l’ho presa come simbolo del male che le multinazionali ci fanno, sia alla salute sia al portamonete. Secondo: smontammo quel ristorante per protestare. L’Europa aveva bloccato l’importazione delle carni gonfiate con gli ormoni e gli Stati Uniti avevano risposto moltiplicando le tasse doganali su un centinaio di prodotti europei, tra i quali il roquefort. Mi sono detto: merde, bisogna reagire”. E c’era bisogno di distruggere? Non sa che è illegale? “Alt, amico. È illegale come lo fu l’attacco alla Bastiglia”. E perché lei è stato condannato? “Complotto. Da noi la giustizia è manovrata”. Nessun dubbio sulla sua abilità mediatica. Erano duecento all’assalto del McDo. Quando José fu messo in carcere, e per sfruttare l’interesse che cominciava a germinare nei media rifiutò la libertà mediante cauzione, scesero nelle strade più di cinquecento dimostranti. Che erano già qualche migliaio ad accoglierlo quando fu rilasciato. E cinquantamila alla fine del processo, dal quale, sconfitto in aula, uscì da trionfatore. La fotografia che Bové ama di più è quella in cui solleva i pugni ammanettati sorridendo soddisfatto alla folla. Erano venuti a sostenerlo capipopolo dall’Honduras, dalle Filippine, dal Senegal e dall’India; c’erano il responsabile della poderosa organizzazione dei consumatori americani e persino un ex ministro polacco. […] José Bové ha impiegato un quarto di secolo, ma alla fine, il colpaccio, gli è riuscito. Il piccolo tribuno diventa una icona della Francia: tanto che, pur non potendolo soffrire, il presidente Chirac e il primo ministro Jospin sono costretti a scomodarsi di persona per dichiarare che il contestatore degli hamburger “lotta per una causa giusta”. Quando non è impegnato nei tribunali o ad assalire tavole calde e serre di colza transgenica, a distruggere bidoni di patatine surgelate, a declamare ai contadini testi di Martin Luther King, Thoreau, Proudhon, Bakunin e del filosofo cristiano Jacques Ellul, quando non lo chiamano gli indiani della provincia di Tarnaka (“Durante le manifestazioni contro la biotecnica ci sono stati 120 morti”), quando non va a Deauville a distribuire tartine al roquefort o mettere in piedi un altro “grand bazar”, quando non si butta a testa bassa contro il portone del palazzo alla Concorde dove sono in corso le riunioni della Wto, quando non mobilita gente nell’Hérault contro un uomo d’affari americano che vuol costruire un albergo con campo di golf, quando non attacca il governo per la mucca pazza, quando non invita i contadini di tutto il pianeta a “globalizzare i diritti dell’uomo”, quando non produce per il suo sito internet slogan tipo “Il mondo non è una merce e io neanche”, José Bové riprende il gregge e la via dei pascoli» (Nebiolo). «Nel 2002 è condannato a tre mesi di carcere per aver devastato un McDonald’s in costruzione a Millau e nel 2001 a sei mesi per aver distrutto coltivazioni di Ogm. Altri otto mesi con la condizionale, li ha accumulati nel ’98 per aver distrutto semi transgenici della svizzera Novartis. […] Cosa propone? “Che il pianeta sia organizzato a partire dai diritti fondamentali dell’uomo. Noi ci battiamo per la sovranità alimentare, il diritto dei popoli a nutrirsi in modo autonomo; chiediamo un’etica mondiale dei beni e dei servizi pubblici, contraria a ogni privatizzazione di ciò che è indispensabile alla vita. Contestiamo la logica perversa dei brevetti farmaceutici, perché la salute deve passare prima del commercio, e di quelli sulla ‘materia viva’: le sementi non devono essere proprietà di nessuno”» (Giacomo Leso). In seguito fu sedotto dalla politica e, accostandosi alla sinistra radicale, si candidò alle elezioni presidenziali francesi del 2007, fermandosi al primo turno con l’1,32% dei consensi e appoggiando per il secondo turno la candidata socialista Ségolène Royal. In seguito, avendo aderito alla coalizione ambientalista Europe Écologie, si candidò alle elezioni europee del 2009, riuscendo a essere eletto, e anche a essere poi confermato nel 2014 (quando era stato persino candidato alla presidenza della Commissione europea, insieme alla tedesca Ska Keller). «Sono un altermondialista, un agricoltore e un sindacalista. Penso che oggi nessuno possa mettere in discussione l’euro come moneta unica. Dobbiamo capire che oggi le sfide sono globali. L’Europa non è solo giusta: solo a livello europeo è possibile intervenire sulle questioni principali come occupazione, finanza, riscaldamento globale o cibo. Se falliamo in questo, non riusciremo a preservare la qualità della nostra vita né il pianeta per le future generazioni» (ad Alessandro Di Matteo). «Dobbiamo essere a livello politico abbastanza forti per influenzare le grandi corporation. Se non siamo in grado di organizzare politicamente 500 milioni di persone, saranno le imprese a esercitare il loro potere su di noi. Questo è quello che sta succedendo adesso con la Transatlantic Trade and Investment Partnership che stiamo negoziando con gli Stati Uniti [Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, progetto nel frattempo abbandonato – ndr]. Questi accordi rischiano di dare alle multinazionali il potere di intaccare le politiche sociali. È un progetto malsano. […] Un’Unione europea più verde è non solo possibile, ma necessaria. Se vogliamo contrastare il cambiamento climatico dobbiamo arrivare, in 30-40 anni, a un modello “zero-carbon”. Dobbiamo combattere lo spreco di energia, promuovere l’efficienza e le energie rinnovabili. Gli investimenti vanno fatti ora, e porterebbero anche alla creazione di molti posti di lavoro. Sto parlando di un’economia nuova». In occasione delle elezioni europee del 2019 decise invece di non ripresentarsi e di ritirarsi dalla politica attiva, pur senza rinunciare a far sentire la propria voce, non di rado in dissenso rispetto al suo stesso partito. «Assieme ad altre personalità francesi, lei ha […] firmato la petizione internazionale per l’abolizione universale della maternità surrogata: Stop Surrogacy Now. Perché? “Questa pratica rientra nella manipolazione della vita. La stessa che, in forme meno gravi, denunciamo nel caso delle piante e degli animali. Le nostre società si devono confrontare oggi con una logica di selezione ed eugenismo. In questo quadro generale, mi oppongo alle tecnologie predisposte in realtà per opporsi alla natura attraverso l’imposizione di scelte artificiali”. E in questo fronte specifico lei per cosa si batte? “La maternità surrogata rappresenta la forma di strumentalizzazione della donna più insopportabile che ci sia. Il giorno in cui vedrò una donna dei quartieri ricchi di Parigi che accetterà di portare in grembo il bambino di una donna senzatetto dell’India potrei vederci qualcosa di positivo. Ma, beninteso, non è questa la realtà. Si tratta di una strumentalizzazione mercantile della donna, una strumentalizzazione dei poveri, fondata sull’idea ambigua del ‘diritto al figlio’. Nessuno ha diritto a un figlio. Un bambino non è una mercanzia. L’idea del ‘diritto al figlio’ è insopportabile”. Come interpreta le divisioni nella sinistra sulla questione? “C’è gente che affronta il dibattito sull’allargamento dei diritti per tutte le forme di relazione eterosessuale od omosessuale e che argomenta a favore dell’estensione di questi diritti personali inserendovi anche il ‘diritto al figlio’, indipendentemente dalla situazione in cui ci si trova. […] Ma, ripeto, un bambino non è mai un diritto”. […] “Sono in gioco un nuovo rapporto e una nuova riflessione su questo punto: il diritto può permettere a tutte le tecnologie di costruire realtà che stravolgono il nostro rapporto con la vita? È una questione che interroga la sfera filosofica, etica e riproduttiva. Le piante, gli animali e l’uomo si sono sempre riprodotti gratuitamente. Ma questo è stato sempre rifiutato dai mercanti, che hanno infatti prodotto gli Ogm, i cloni e adesso pure queste forme di riproduzione umana. […] Questa corsa continua deve indurci a una riflessione e a una moratoria: non si può contemporaneamente tirar dritto e riflettere. Oggi quest’ondata tecnica maschera in realtà una volontà di potenza mai vista prima”» (Daniele Zappalà) • Manifesto principale del suo pensiero il libro, scritto insieme al giornalista François Dufour, Il mondo non è in vendita. Agricoltori contro la globalizzazione alimentare (Feltrinelli, 2001) • Separato, due figlie • «Il caterpillar dei McDonald’s, il Vercingetorige del roquefort ha l’aria di uno di quei contadini del Midi tutto stalla e famiglia. Testa grossa, baffi rossicci spioventi, corpulento, pipa, camicia a scacchi, calli sui palmi: come vuole lo standard. […] Del contadino ha tutto, compreso il mestiere. Però contadino non è. José Bové è un intellettuale scaltro e un poco mattoide (ci perdoni gli aggettivi, e il sostantivo). […] È un utopista che vuole cambiare il mondo» (Nebiolo). «Un personaggio che non si esaurisce nei cliché dei baffoni alla Asterix, del formaggio sulla baguette o della jacquerie contadina: Bové dà voce in modo articolato (è anche sindacalista) al desiderio diffuso di un nuovo modello di economia e di politica, alla voglia di un’agricoltura pulita e di un’alimentazione più sana, che rinunci alle manipolazioni genetiche» (Carlo Grande). «Bové dice di aver risentito dell’influenza di Jacques Ellul, storico, sociologo, teologo, pioniere dell’ecologia politica nel solco del personalismo di Mounier, critico del moderno, della civiltà dell’immagine, delle illusioni postcristiane» (Meotti) • «Tutte le lotte sono la stessa lotta e lo sfruttamento è lo stesso dappertutto» • «Con tutto questo bordello, come fa Bové a definirsi un emulo di quel sant’uomo di Giuseppe Lanza del Vasto, che aveva ricevuto da Gandhi l’appellativo di “servitore della pace”? […] “La mia è una non violenza attiva”. Nel senso? “Nel senso che non incrociamo le braccia, ma le usiamo, merde, in virtù del principio che dice: in nessun caso recare pregiudizio alle persone, semmai alle cose”» (Nebiolo).