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 2024  giugno 14 Venerdì calendario

Biografia di Pier Luigi Pizzi

Pier Luigi Pizzi, nato a Milano il 15 giugno 1930 (94 anni). Regista teatrale. Scenografo. Costumista.
Titoli di testa «Ho sempre saputo che nel mio futuro ci sarebbe stato il teatro»
Vita «Sono nato impaziente. Ero già impaziente al momento di entrare nel mondo. Impaziente di vivere, non mi sono accorto che il fratello concepito insieme a me non ce la faceva a starmi dietro e il suo cuore si era spento. Devo averlo sentito, devo averne sofferto. […] Impaziente, a scuola ho fatto studi rapidi inventandomi scorciatoie astute, spericolate, per fare prima. […] La passione per il teatro era nata prestissimo. Ricordo perfettamente quando, bambino, fui portato per la prima volta alla Scala ad una matinée. Si dava Hänsel e Gretel di Humperdinck. Che emozione! Ho visto allora, poi, tutti i grandi balletti classici. Il lago dei cigni mi turbò profondamente. La rappresentazione teatrale per il suo impatto diretto mi ha subito magnetizzato, stregato. Mi piaceva anche il cinema, anzi ne andavo pazzo – ho visto non so quante volte La corona di ferro di Blasetti –, eppure sentivo il teatro più vivo, più coinvolgente. […] Anche la musica è stata una presenza costante, un naturale bisogno. Ho avuto un’infanzia vivificata dalla musica, con un nonno materno melomane che suonava il flauto e uno paterno il clarinetto. Mia madre mi fece giudiziosamente impartire le lezioni di pianoforte, ma andò malissimo: […] è mancata la fortuna di incontrare la persona giusta che mi facesse amare quello che mi insegnava. […] Un elemento che ha avuto un ruolo determinante forse ancor più degli spettacoli veri e propri è stata la scoperta delle funzioni religiose. La liturgia è stata per me bambino la rivelazione della rappresentazione suprema. Ho memoria di interi pomeriggi passati nel Duomo di Milano ad assistere proprio come fossi a teatro ad ogni messa solenne o ad ogni Te Deum. Potevo stare ore su quella mia panca incantato dal rituale dei gesti, da quel cerimoniale di cui mi sfuggiva il significato ma che mi magnetizzava. Cercavo come potevo – ero solo un bambino di sei anni – di comprendere l’intimo segreto di quel codice solenne, misterioso, lasciandomi trasportare in un altro universo. […] Non potevo staccarmi dalla teatralità antica di quei rituali. Mia madre se aveva delle commissioni da fare mi lasciava solo seduto sulla mia panca sicura che non mi sarei mosso per nessuna ragione al mondo, stupita che potessi stare fermo in silenzio per ore, io che ero così irrequieto e impaziente. Solenni funzioni sontuose, processioni, teatralità antica: questa era l’immagine della Chiesa che conoscevo e che aveva il potere di incantarmi. […] Il mondo del teatro si mostrò ai miei occhi come una terra di avventure e di fermenti percorsa da una vitalità e da una curiosità perfettamente in sintonia con i bisogni più urgenti del ragazzo che ero. Avevo 17 anni, un’età magica. […] Avevo tutti i dubbi del mondo, ma almeno una certezza: avrei fatto del teatro. […] Ci andavo praticamente ogni sera. […] Frequentavo già la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. […] Anche l’interesse per l’architettura si era ormai inscindibilmente associato alla passione per il teatro. Avevo già deciso di diventare scenografo, ma bisognava fare presto, trovare subito il modo. Giorgio Strehler era in quel momento il regista di punta. Aveva appena fondato con Paolo Grassi il Piccolo Teatro della città di Milano. Era lui che dovevo incontrare. Lui è stato il vero punto di riferimento. Avevo saputo che stava cercando dei mimi per il Riccardo II di Shakespeare che doveva mettere in scena nella sua seconda stagione del Piccolo, e cioè nel 1948. Non esitai a presentarmi, e fui scelto. In tal modo mi acquisivo il diritto di assistere alle sue prove, e fu, la sua, una magistrale lezione di teatro che mi valse almeno tre anni di corso di una qualsiasi accademia teatrale. Fu un’occasione unica: respiravo l’aria del palcoscenico, che sarebbe diventata il mio ossigeno per il resto della mia vita. Incontravo ogni sera il maestro nelle pause dello spettacolo: mi incoraggiava, mi suggeriva dei temi da svolgere. […] I nostri incontri erano appassionanti: c’era tra noi il naturale rapporto maestro-allievo, ma avvertivo già i possibili scambi tra regista e scenografo. Ne svelavo il mistero. Ma intanto poneva condizioni traumatiche, perché avrei dovuto con urgenza fare i conti con mio padre. Lui non era uomo che conoscesse ed amasse il teatro al punto di condividere o almeno capire la mia scelta. Avevo ricevuto una proposta che per me era tutto ma ai suoi occhi era meno che niente, semmai il sintomo preoccupante di uno sbandamento, di un capriccio infantile. Stimavo mio padre, certo, gli volevo bene, ma non c’era tra noi nessun rapporto intellettuale, nessuna confidenza o complicità. […] Quando gli dissi che intendevo interrompere per un periodo gli studi per andare a Genova a fare del teatro come scenografo, fu durissimo, non sentì ragioni né accettò patteggiamenti: nessuna trasgressione prima della laurea, fu il suo verdetto, o fuori di casa. Non ebbi scelta. L’impazienza stava reclamando l’unica decisione possibile. Partii per Genova la sera stessa: senza bagagli, senza l’adorata Vespa, senza libri, col solo vestito che avevo addosso, con i pochi soldi che avevo in tasca. Orgogliosamente, anche troppo, e comunque senza sensi di colpa, andavo sereno e pieno di aspettative incontro al mio incerto destino di uomo di teatro. […] Il mio debutto genovese ebbe luogo felicemente, con grande successo, e fu l’inizio di un lungo percorso senza soste». Dopo il debutto genovese come scenografo e costumista della Léocadia di Jean Anouilh diretta da Giulio Cesare Castello, continuò dapprima a collaborare con il Piccolo Teatro di Milano, per poi trasferirsi a Roma, stabilendo un fecondo sodalizio con la «Compagnia dei giovani» fondata da Giorgio De Lullo, Romolo Valli, Rossella Falk e Anna Maria Guarnieri. «Di quella ventennale esperienza – dal ’54 al ’74 – passarono alla storia i Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, messi in scena nel 1965 quando tutta l’attenzione della critica, e della ricerca teatrale, era concentrata verso il cosiddetto “teatro povero”. Sia Pier Luigi Pizzi che Luca Ronconi, che firmò la regia di un altro capolavoro andato in onda sulla Rai, Orlando furioso, preferirono un’altra strada e continuarono a mantenere un livello alto nella ricerca e nell’allestimento dello spettacolo» (Antonio Ricucci). «Il debutto come scenografo d’opera si è avuto molto precocemente, quando nel 1952 affrontò al Teatro Carlo Felice di Genova il Don Giovanni di Mozart per la regia di Giulio Cesare Castello e con la direzione d’orchestra di Franco Capuana. Pizzi si trova per un lungo periodo di tempo a inframmezzare l’attività teatrale di prosa con quella lirica. […] L’anno di svolta è il 1966, quando allestisce per la regia di De Lullo l’Alceste di Gluck per il Maggio Musicale Fiorentino [Diego Poli] • Nel 1970 «c’è Angela Gheorghiu che come al solito pianta grane e viene cacciata da una Traviata a Madrid con questa sentenza: «Le note scritte non le fai perché non le sai, quelle non scritte non le fai perché non le hai» […] C’è Alberto Arbasino giovane che si taglia le vene per un amore infelice ma poi replica «con tagli più superficiali» per un altro lui, e «noi amici cercammo ironicamente di dissuaderlo dal ripetere lo stesso gesto ogni volta, altrimenti tanto valeva farsi installare una cerniera lampo direttamente sui polsi» [Mattioli, Foglio] • Sempre 1970 I vespri siciliani di Verdi per il Teatro alla Scala di Milano, sempre con lo stesso regista. […] Riuscì poi Pizzi a stupire con una tanto memorabile quanto discussa Tetralogia wagneriana in collaborazione con Luca Ronconi, presentata tra il 1974 e il 1980 al Teatro alla Scala sotto la direzione d’orchestra di Wolfgang Sawallisch. Nel 1977 Pizzi comincia ad assumere la piena responsabilità dello spettacolo affrontando ancora, e questa volta con propria regia, il Don Giovanni di Mozart allestito per il Teatro Regio di Torino» [Diego Poli]. «Alle soglie degli anni Ottanta mi trasferii a Parigi, e vi rimasi per più di vent’anni, lavorando a stretto contatto con il mondo dell’arte. A quell’epoca facevo soprattutto degli spettacoli barocchi, e un conservatore del Louvre che stava preparando una mostra sulla pittura italiana del Seicento e che aveva visto i miei lavori a teatro mi chiese se fossi interessato ad allestire la mostra. Non lo avevo mai fatto, ma ero molto incuriosito, perché era un ambito che amavo. Ho avuto l’opportunità di realizzare al Grand Palais, per conto del Louvre, una grandissima esposizione dedicata alla pittura italiana del Seicento presente nei musei di Francia. […] Questa mostra del 1989, intitolata Il Seicento, ha fatto epoca, vincendo un premio per la museografia inventato per l’occasione dal ministero della Cultura. Da quel momento ha preso il via un nuovo capitolo della mia attività, con una serie di commissioni, per esempio a Napoli, insieme a Nicola Spinosa, e a Firenze, con Mina Gregori e Antonio Paolucci. Grandi mostre pensate come concetti, non come un accrochage. Il primo obiettivo era mettere le opere a confronto tra loro e farle parlare, offrendo spunti di riflessione ai visitatori. […] La metodologia di lavoro è quasi identica fra il teatro, l’allestimento di una mostra e la sistemazione di un museo. Seguendo sempre l’idea del racconto, il tipo di approccio è simile: cambiano solo i rapporti. […] Dopo la mostra parigina sul Seicento, un amico mercante mi ha offerto un’opera di quel periodo, che ho comprato e che è diventata la prima di una lunga serie, cresciuta nel tempo, acquisendo una propria fisionomia. […] Dopo vent’anni a Parigi, avevo voglia di tornare in Italia. […] Mi recavo di frequente a Venezia perché lavoravo alla Fenice e avevo molti amici. Dopo aver cercato casa a Firenze e a Bologna, quasi per caso ho trovato a Venezia quella in cui vivo. […] Continuo a lavorare in teatro dove posso farlo come piace a me, senza condizionamenti e con serenità. […] È talmente gratificante passare del tempo in mezzo alla bellezza!» [ad Arianna Testino, ArtTribune] • Nel 988 Semiramide «Montserrat Caballé che arriva alla prima prova della mitica Semiramide di Aix non sapendo la parte, e vabbè, quando mai ne ha imparata una, ma soprattutto dopo essersi ingozzata di meloni la sera prima. Risultato: fuga precipitosa in cerca di una toilette, e «in sala fummo investiti dalla colonna sonora di uno spettacolo pirotecnico. Era l’effetto apocalittico dei meloni» (altre fonti degne di fede raccontano però che la descrizione dell’incidente fu questa: «Uno tsunami di merda») [Attioli, Foglio] •Direttore artistico dal 2006 al 2011 dello Sferisterio di Macerata (per cui ha ideato lo Sferisterio Opera Festival), è tuttora attivissimo: basti citare, per il solo Rossini Opera Festival di Pesaro, il suo trionfale allestimento de La pietra di paragone del 2017 e quello de Il barbiere di Siviglia atteso per l’agosto 2018 • «Sommo scenografo e star internazionale della regia lirica» (Masolino D’Amico) • Celibe. «Non ho mai voluto dividere la mia vita con qualcuno. Se la solitudine è una scelta, non è affatto triste, e neppure sterile. […] Tardivamente ho scelto un figlio adottivo cresciuto sotto il mio occhio vigile, al quale affidare la mia memoria» • «Quello al quale ho dedicato una vita intera è un teatro etico: il mio teatro, basato sulla costante ricerca di valori profondi di cultura, di estetica, di arte e di spiritualità. […] Voglio pensare che il mio sforzo in qualche modo serva a salvaguardare il patrimonio artistico comune» • Da ultimo la Maria Egiziaca di Respighi andata in scena l’8 marzo. Venezia la sente sempre come casa? «Certo, ormai da anni ci vivo. È una Venezia speciale la mia, intima, quella che vedo ogni mattina dalle mie finestre: il campanile di San Polo, i canali, i giardini segreti. Venezia è ora la mia casa. Le altre, sono sparse nei tanti teatri della mia vita». Nel 2023 è uscito Non si puo’ mai stare tranquilli, autobiografia scritta con Mattia Palma. «Tutto Pizzi minuto per minuto e spettacolo per spettacolo, incontri, scontri, passioni intellettuali e amorose (anche etero), viaggi, mostre, mostri. Non parla male di tutti, no. Ma di molti, sì. E naturalmente noi malvagi godiamo di più quando il Nostro demolisce qualcuno en passant, con quella nonchalance distratta che distrugge. E allora Visconti “si prendeva terribilmente sul serio, con l’aggravante di una totale mancanza di ironia», Fellini era «cinico e bugiardo”, Zeffirelli aveva il problema “di mettersi in competizione con Visconti” (diagnosi giustissima, alla fine: da qui l’accumulazione seriale), mentre Wanda Osiris, lanciando rose cosparse di Arpège in platea, “cantava (si fa per dire)”. Rossella Falk sposa un ricchissimo industriale, Rino Giori, e si trasferisce con lui in Svizzera. Qui “cominciò a fare le pulci ai conti della servitù, inimicandosi tutti fin dal primo giorno, ma dato che era piuttosto incauta nel ricevere visite in villa in assenza del marito, la vendetta non ci mise molto ad arrivare: fu subito denunciata a Giori che la buttò fuori di casa”. Naturalmente non manca la celebre guerra delle pellicce fra lei e la Cortese, alle prove di una Maria Stuarda di Zeffirelli, quando le dive arrivarono ogni giorno con dei capi più preziosi e più lunghi, finché “Valentina, con grande senso dell’umorismo, pose fine alla competizione presentandosi con due pellicce una sopra l’altra, con colbacco e manicotto”. È una vita raccontata in modo tale da farci invidiare chi l’ha vissuta. Anche perché, in questo cocktail di sentimenti, l’unico che Pizzi non ha shakerato è la nostalgia. Alla sua età, continua a guardare avanti, non indietro: ed è forse la lezione più importante di questo libro incantato e incantevole».
Titoli di coda «Sono un architetto dell’effimero».