21 giugno 2024
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Biografia di Meryl Streep (Mary Louise S.)
Meryl Streep (Mary Louise S.), nata a Summit (New Jersey, Stati Uniti) il 22 giugno 1949 (75 anni). Attrice. Tre premi Oscar (come miglior attrice non protagonista nel 1980, per Kramer contro Kramer; come miglior attrice nel 1983 e nel 2012, rispettivamente per La scelta di Sophie e The Iron Lady), nove Golden Globe (di cui uno alla carriera), tre Emmy Award, un Premio alla miglior interpretazione femminile e una Palma d’oro alla carriera al Festival di Cannes, un Orso d’oro alla carriera e un Orso d’argento al Festival di Berlino. «Da bambina volevo sposare il principe Carlo, non fare l’attrice. Invece è andata così, e non mi lamento proprio» (a Lorenzo Soria) • Ascendenze elvetico-tedesche per parte paterna (tedesco di Loffenau era il trisavolo paterno Gottfried Streeb, colui che trasferì la famiglia negli Stati Uniti, dove tempo dopo il cognome divenne «Streep»), britannico-tedesco-irlandesi per parte materna. Una ricerca genetica ha invece rivelato infondate le convinzioni della stessa attrice in merito a presunte ascendenze olandesi e sefardite • Prima dei tre figli di un dirigente farmaceutico e di un’illustratrice. «Ricordo che da piccola imitavo mia nonna, creavo le rughe sul mio viso per essere come lei. La imitavo perfino negli atteggiamenti. È stato in quel momento che ho capito di voler recitare, di provare quella voglia e quella curiosità di essere qualcun altro» (a Licia Gargiulo). «La prima parte che ho sostenuta fu quella di Maria Vergine. Avevo otto anni, recitavo nel salone per i miei genitori. Dunque la mia vocazione viene di lontano e viene dall’alto». «Non c’è stata recita scolastica, fin dalle elementari, a cui non abbia partecipato con una passione che molti definivano esagerata». «Meryl fin dai primi anni di scuola è afflitta dal complesso del “brutto anatroccolo”, come viene subito etichettata dai compagni. Complici l’apparecchio per i denti, gli occhiali con lenti spesse, i capelli neri crespi, le guance paffute, una bocca larga, uno strano profilo e un corpo ipersviluppato, la sua immagine non è affatto attraente. […] Ma si fa notare anche per una buona predisposizione al canto. Il suo insegnante si stupisce per la precocità della voce da soprano naturale» (Elio Girlanda). «Quando avevo 12 anni cantai a in una recita scolastica Santo Natale: oltre che in inglese mi esibii nella versione anche in francese, cosa incredibile per il New Jersey dell’epoca. Me la cavai bene, tanto che dissero ai miei genitori di farmi studiare canto, e mi mandarono prima da un’insegnante di quartiere e poi da un’insegnante di New York. […] Dopo un paio d’anni mollai. Volevo fare la cheerleader». «La mia prima interpretazione fu quando stabilii di cambiare aspetto. Mi ero stancata di giocare la parte della brutta». «Così, per prima cosa, il brutto anatroccolo schiarisce i capelli e si disfa di occhiali e apparecchio dentario. All’High School di Bernardsville, un’oasi di tranquillità nell’epoca del Vietnam e della contestazione studentesca, realizza la sua prima vera trasformazione in un “personaggio”: diventa una bella ragazza, non più timida e scontrosa ma vivace e competitiva, con atteggiamenti da leader che ben presto le meritano attenzioni e favori. […] Superate le malinconie dell’adolescenza, Meryl sviluppa tanti interessi. Fa nuoto, lavora al giornale studentesco, partecipa con fervore al club teatrale. La recitazione l’attrae» (Girlanda). «Dopo il diploma mi iscrissi al Vassar College di New York, dove ho studiato drammaturgia e scenografia. Poi sono passata all’accademia d’arte drammatica di Yale, iniziando a fare teatro, prima come dilettante poi come professionista. Avevo il pallino di Sarah Bernhardt» (a Silvia Bizio). «Prima come studentessa alla Yale Drama School, poi con il Public Theater dell’impresario Joseph Papp, recita Shakespeare, Ibsen, Shaw e Pirandello. Fred Zinnemann si innamora di lei dopo averla vista in teatro recitare prima un testo di Tennessee Williams e poi uno di Arthur Miller la stessa sera, così la fa subito debuttare nel ’77 con Giulia» (Sandro Mattana). L’anno precedente, invece, il debutto cinematografico era sorprendentemente sfumato: «“Perché mi avete portato questa cosa così brutta?”: così parlò Dino De Laurentiis durante il provino per King Kong nel 1976. L’oggetto delle sue critiche era nientemeno che Meryl Streep. […] Quello che De Laurentiis non sapeva era che la colta aspirante attrice aveva studiato italiano e lo capì perfettamente, tanto da rispondere beffardamente nella stessa lingua: “Mi dispiace di non essere abbastanza bella per lei”. […] Un paio d’anni dopo ebbe il suo primo ruolo importante in Il cacciatore, il capolavoro di Michael Cimino che le aprì la strada a un’infinita serie di personaggi indimenticabili» (Valeria Morini). «Il regista di Kramer contro Kramer, Robert Benton, mi aveva vista in una messinscena di A memory of Two Mondays di Arthur Miller, a Broadway, e nella miniserie tv Olocausto […] Dopo il successo di Kramer venne Manhattandi Woody Allen e La scelta di Sophie. Tutti grandi successi, è vero. Eppure c’era sempre qualcosa che non andava: non ero sufficientemente bella, avevo il naso lungo, la faccia spigolosa, facevo troppi accenti stranieri, ero troppo “brava”, in poche parole. Ecco, a volte, alle audizioni nei primi anni di carriera, mi veniva quasi spontaneo di recitare sottotono, non dare il cento per cento, per paura di venire subito scartata. Ma dopo Silkwood, nel 1983, non ho più dovuto fare provini. Ed è stato un grande sollievo. È questo il lusso più grande che un’attrice può vantare. Venire scritturata senza esami di prova». «Nella varietà delle parti che ha ricoperto, attraversando sempre più trasversalmente i generi, ricordiamo l’operaia sindacalista realmente esistita di Silkwood, donna moderna e fuori dalle righe; l’aristocratica avventurosa Karen Blixen in La mia Africa, una pietra miliare del cinema romantico; la figura eterea di Clara in bilico tra due mondi in La casa degli spiriti, dove l’attrice offre una prova magistrale di come invecchiare sullo schermo. È un’editrice letteraria omosessuale di mezza età in The Hours, ruolo per cui ottiene un Orso d’argento a Berlino; una madre superiora implacabile e bigotta in Il dubbio, e la svampita e famosa cuoca Julia Child in Julie & Julia. Ne I ponti di Madison County è diretta da Clint Eastwood, e impersona Francesca Johnson, una dimessa casalinga di origine italiana che riscopre la parte migliore di sé attraverso un amore tanto improvviso quanto travolgente, a cui sarà costretta a rinunciare. Con precisione quasi maniacale interpreta, dieci anni dopo, la fantastica Miranda Priestley, insopportabile guru della moda internazionale, nella commedia campione di incassi Il diavolo veste Prada. […] Grazie alla rivisitazione cinematografica del musical capolavoro degli Abba Mamma mia!, Meryl Streep si conferma un’artista di assoluta e rara polivalenza: canta, recita, balla, al servizio integrale del musical […] È del 2011 la performance nelle vesti della “donna di ferro” Margaret Thatcher in The Iron Lady, che le concede, finalmente, la terza e non più rinviabile vittoria agli Oscar» (Claudia Porrello). Negli ultimi anni, confermando la sua straordinaria poliedricità, è stata la strega del film Disney Into the Woods di Rob Marshall (2014), la leader femminista Emmeline Pankhurst in Suffragette di Sarah Gavron (2015), l’improbabile soprano Florence Foster Jenkins in Florence di Stephen Frears (2016), la coraggiosa editrice del Washington Post Kay Graham in The Post di Steven Spielberg (2017), zia March in Piccole donne di Greta Gerwig (2019) e addirittura la presidente degli Stati Uniti Janie Orlean in Don’t Look Up di Adam McKay (2021) • Detiene il primato del maggior numero di candidature all’Oscar: ventuno in tutto, di cui quattro come miglior attrice non protagonista (da Il cacciatore, nel 1978, a Into the Woods, nel 2014) e diciassette come miglior attrice (da La donna del tenente francese, nel 1981, a The Post, nel 2017). «Sono l’attrice che ha perso più Oscar nella storia del cinema» • Il suo grande amore di gioventù fu il collega John Cazale, che conobbe nell’estate del 1976 a New York tra le scene de La bisbetica domata e con il quale andò a convivere, supportandolo poi tenacemente nella lotta al cancro che nel marzo del 1978 lo portò alla morte, a soli 42 anni. Durante il trasloco dalla casa in cui aveva convissuto con Cazale, la Streep incontrò lo scultore Don Gummer, che sposò appena sei mesi dopo e dal quale ebbe poi quattro figli: il musicista Henry (1979), le attrici Mamie (1983) e Grace (1986) e la modella Louisa (1991). «La maternità ha superato ogni mia aspettativa. È stata… il mio film più bello!» • Grande e vecchia amica di Robert De Niro. «Facciamo ancora le tre del mattino a bere whisky nei locali di Los Angeles, proprio come due ragazzacci incorreggibili» • Democratica e femminista, combatte da anni per la parità salariale tra uomo e donna e si è schierata in prima fila nella battaglia contro gli abusi sulle donne nel mondo dello spettacolo, stigmatizzando il comportamento di Harvey Weinstein, con il quale pure aveva fino ad allora felicemente collaborato (tanto da definirlo «Dio» nel suo discorso di ringraziamento alla cerimonia dei Golden Globe del 2012). Ha più volte duramente criticato Donald Trump, il quale l’ha a propria volta definita «una delle attrici più sopravvalutate di Hollywood» • «Definita camaleontica da molti critici, fu accusata dalla micidiale Katharine Hepburn di essere troppo cerebrale, di non lasciare un’impronta di sé nei personaggi interpretati e di snobbare quel divismo che la Hepburn senior incarnava alla perfezione. […] Delle sue performance, Katharine diceva: “Click, click click”. […] L’attrice, nelle cui reazioni è impossibile non trovare un po’ di sana competitività, si riferiva al modo in cui Meryl è capace di scomparire nel suo personaggio, senza far trasparire la benché minima traccia di sé. Lapidaria nei suoi giudizi, fu contraddetta da un’altra grande star della Hollywood degli anni d’oro: Bette Davis scrisse di proprio pugno una lettera a Meryl, elogiando le sue abilità e, soprattutto, ritenendola una sua degna erede» (Giulio Scollo). «A me interessa interpretare persone sempre diverse, cambiare l’aspetto esteriore. Metto me stessa in ogni personaggio. Ma lo faccio di nascosto» (a Caterina Soffici) • «Lavora così tanto rispetto alle altre perché ha un viso come un letto sfatto: qualsiasi donna può riconoscersi in lei» (Sharon Stone) • Per interpretare la protagonista de La scelta di Sophie, «è stata a lezione da una polacca “che era di Cracovia e aveva un accento proprio simile a quello che dovevo usare io”. […] Si diverte a pensare a quei mesi – solo due – di lezioni di “cattivo anglo-polacco”. “Soffro talmente quando vengo in Inghilterra e sento sul palcoscenico gli attori inglesi che parlano con accento finto-americano. E allora ho pensato: ‘Non posso far la stessa cosa io con i polacchi. Si seccherebbero, si irriterebbero, come me!’”» (Gaia Servadio) • Tra le attrici italiane, ama particolarmente Anna Magnani e Silvana Mangano. «Avevamo la possibilità di vedere i loro film all’università, nei festival o nelle rassegne di film stranieri. Ricordo di aver visto per la prima volta una performance della Mangano in Morte a Venezia e la Magnani con Marlon Brando in Pelle di serpente. Queste due donne mi hanno veramente colpita: le consideravo delle creature esotiche provenienti da un altro mondo, molto diverso dalla mia piccola vita provinciale. C’era qualcosa di fondamentale ed elementare in loro. Qualcosa di così puro e profondo, quella stessa purezza che tra le giovani attrici di oggi possiede anche Alba Rohrwacher, che ammiro e ritengo incredibilmente speciale» • «Cerco sempre di trovare, nei miei personaggi, la qualità che posso apprezzare, l’aspetto che me li avvicina e che rende possibile la mia interpretazione. Siamo esseri umani, e, a prescindere dal luogo in cui siamo nati, dalla cultura da cui proveniamo, abbiamo tanti aspetti simili. Ecco, mi piace trovare il nostro comune denominatore». «La sfida è continuare a sorprendere gli altri, ma prima di tutto me stessa. […] L’importante è continuare ad avere delle aspettative e sapere bene che l’insicurezza è la nostra migliore amica. Per quanto mi riguarda, ogni volta che inizio un nuovo film, mi sento intimidita e preoccupata» (a Fulvia Caprara). «Non leggo mai le recensioni per paura di essere ferita». «L’illusione che ritroviamo nei film è importante. È bellezza, arte, creazione di qualcosa senza tempo. Abbiamo bisogno di questa illusione». «Non mi fate fare bilanci, per carità. Non mi sento ancora in fase di fare consuntivi e poi non sono un ragioniere. Posso solo confermare di avere la stessa gioia di vivere e voglia di fare di quando avevo 30 anni. Quindi, se proprio ci tenete a fare il punto, diamoci appuntamento nel 2030. Come minimo…» (a David Allegri).