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 2024  luglio 02 Martedì calendario

Vestivamo alla Strega

Gli stilisti si sono finalmente accorti (ricordati?) degli scrittori e delle scrittrici italiane e, per la prima volta nella storia del Premio Strega, quest’anno, vestono i finalisti per la cerimonia di premiazione (il 4 luglio a Roma). Dior per Chiara Valerio; Etro per Donatella Di Pietrantonio; Missoni per Raffaella Romagnolo; Lardini per Paolo Di Paolo e Dario Voltolini; Gucci per Tommaso Giartosio. Non si sa che questo, e non ci sono foto di prova, un lembo di tessuto, un selfie fintamente rubato e indiziario nemmeno di Valerio e Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa della linea femminile di Dior, che hanno conversato di moda e letteratura in diverse occasioni, una volta anche su questo giornale (Chiuri aveva detto a Valerio: «Il problema oggi è che l’aspetto capitalista prevale così su quello primordiale della moda, il fatto che essa sia il modo in cui una persona decide di rappresentarsi»). Non si sa se i vestiti resteranno agli scrittori o verranno restituiti, ma si sa che non sono stati disegnati bensì pensati per loro, quindi presi da collezioni esistenti.
Dalla critica di costume della serata al Ninfeo, quindi, spariranno probabilmente i sarcasmi su quanto malveste la letteratura italiana, grande topos paraletterario dei resoconti, paraletterari anche quelli, del giorno dopo. E non è escluso che, in luogo dei sarcasmi, qualcuno si produrrà in accuse di grave violazione dell’essenza del premio, di grave manomissione del significato e del ruolo della letteratura – resta sempre oscuro quali siano – e naturalmente di spudorata “operazione di marketing”, qualcosa di collocabile tra il pandorogate e i seguiti dei romanzi di Federico Moccia.
Non è facile collocare nel tempo la cesura che, in Italia, ha disgiunto moda e letteratura, rendendole avversarie sospettose, incompatibili fino al sabotaggio e poi l’indifferenza, inaugurando una stagione di ostilità che è una guerra fredda poi calda poi tiepida. Di sicuro non è sempre stato così, e le foto d’archivio della Fondazione Bellonci, che organizza il Premio Strega, lo dimostrano: è esistito un tempo in cui il ben vestire era, per gli scrittori e soprattutto per le scrittrici, assai più di un vezzo e anche assai più di un mezzo di rappresentazione di sé: era un’attenzione portata dal settimo senso degli scrittori, la descrizione. «Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l’uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura»: quando entra Carla, all’inizio degli Indifferenti di Moravia, la letteratura italiana cambia anche grazie a quella gonna, a quelle pieghe, quelle calze.
Maria Bellonci, la scrittrice che lo Strega l’ha inventato, girava in guanti di pizzo e mantelli di velluto. La sua eleganza era inconfondibile: si divertì moltissimo quando vide un episodio dei Nuovi Mostri di Dino Risi, La Musa, in cui Gassman la parodiava, ma poi ai presenti urlò: guai a voi se dite a tutti che quella sono io! Non voleva passare né per frivola e né per snob: due modi d’essere tuttora reato per gli intellettuali, specie se donne.
Alla nostra letteratura è mancata la spregiudicata consapevolezza di Saul Bellow, che diceva: «L’abito fa il monaco. In società, le persone nude non contano quasi niente». Contare in società: ecco una preoccupazione assente, perché fortemente giudicata, ed evidentemente giudicata immorale, dalla gran parte dei nostri romanzi e da chi li scrive (e quindi dalla società intera, perché i romanzi hanno il pregio unico di cambiare la vita delle persone, anche quando le persone non li leggono).
La letteratura è un potere e di certo un potere lo dà: agli scrittori italiani è mancato quasi sempre il desiderio di assumere l’aura conseguente, mentre è stato assai presente, il loro, il desiderio di dissimularla (con poche eccezioni: Arbasino, Busi, Inge Feltrinelli, Pasolini, e di recente Mario Desiati e Jonathan Bazzi, che allo Strega ci sono andati con l’eyeliner, lo smalto nero, i lustrini, in Valentino, ed erano stupendi, ribaldi, in festa). «Dove sarebbe la letteratura senza la moda?», ha scritto Diana Vreeland, una delle più importanti giornaliste di moda del ’900. La domanda nel nostro dibattito culturale non si pone: è affare da rubrichette.
Ilaria Gaspari, scrittrice, parlando del suo ultimo romanzo, La Reputazione (Guanda), ambientato in una boutique romana degli anni Ottanta e ispirato a un terribile caso di calunnia, ha detto: «Ho scritto questo libro soprattutto per parlare di vestiti». Rideva, ma denunciava anche la difficoltà di far entrare la moda nei romanzi senza perdere credibilità.
La scelta degli stilisti di vestire la sestina fa parte di un tentativo di riconciliazione culturale? Forse. Ma ora parliamo di soldi. Di certo, c’è ora più che mai, un nuovo, talvolta solo rinnovato, interesse della moda verso la letteratura. In Italia ha a che fare con un auspicabile, urgente mecenatismo, e con un reciproco scambio tra le parti. «Da tempo i designer si rivolgono a grandi scrittori per trarne ispirazione, ma ora sta cominciando un nuovo capitolo della loro collaborazione», scriveva il Financial Times a febbraio scorso, raccontando che i libri sono ormai l’oggetto con cui i brand rendono desiderabili i propri capi. Valentino ha scritto sulle magliette della sua penultima collezione brani di Hanya Yanagihara; MiuMiu ha organizzato un book club a Milano, ad aprile scorso, dedicato ad Alba de Céspedes e Sibilla Aleramo. Se accade perché persino la moda s’è accorta che i lettori non sono sociopatici nerd disinteressati alla bellezza e gli scrittori non sono atroci ex sindacalisti in sandali e hanno cominciato da tempo a sottrarsi all’angustia ideologica del velluto a coste, non importa: conta che gli stilisti si rendono conto che con la letteratura si possono fare i soldi e conta, soprattutto, che questo può far sì che l’editoria diventi un settore di lusso, capace di remunerare al meglio i suoi lavoratori: solo così potrà smettere di essere un lusso per pochi. —