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 2024  luglio 01 Lunedì calendario

La fine del capitalismo, Ulrike Herrmann, ed. Castelvecchi

La prosperità è un miracolo: un europeo occidentale di oggi è in media venti volte più ricco dei suoi progenitori di duecento anni prima. Inoltre, il capitalismo non ha solo aumentato le quantità di ciò che già esisteva, ma ha creato un mondo completamente nuovo. Un’auto con un motore da cinquanta “cavalli”, o CV, non è una carrozza trainata da cinquanta cavalli, ma qualcosa di completamente diverso. Né le lampade di oggi sono costituite da milioni di candele da accendere col fuoco. Il capitalismo è stato una rivoluzione.

Tuttavia, questa rivoluzione industriale non è stata un evento improvviso. La trasformazione del mondo si è protratta per diversi secoli ed è iniziata molto sommessamente: all’inizio, solo un ramo della produzione fu meccanizzato in Inghilterra -l’industria tessile- e anche qui ci sono voluti decenni affinché l’ultimo telaio a mano scomparisse. 
Non c’è una risposta chiara sul perché la Rivoluzione Industriale sia iniziata in Inghilterra nel 1760.<<Sebbene siano stati scritti migliaia di libri, questo straordinario fenomeno rimane un mistero>> afferma la storica dell’economia statunitense Joyce Appleby. I modelli standard dell’economia neoliberista, in particolare, non riescono a rispondere a questa domanda. Secondo questi modelli, la crescita economica viene generata dalla proprietà privata, dalla divisione del lavoro, dai mercati, dalle banche e dall’istruzione. Ma nessuno di questi fattori spiega perché il capitalismo sia iniziato proprio in Inghilterra. 
Sebbene le fabbriche tessili inglesi appartenessero a proprietari privati, anche nel resto dell’Europa occidentale la proprietà privata veniva protetta - senza che questo abbia portato ad alcuna crescita economica. Inoltre, la protezione della proprietà privata non è un’innovazione inglese: gli antichi romani avevano già escogitato tipologie di società private che limitavano la responsabilità dei proprietari. Evidentemente, allora, la sola proprietà privata non basta per creare ricchezza, altrimenti la crescita economica sarebbe iniziata già nell’antica Roma.
Anche la divisione del lavoro è emersa ben prima del XVIII secolo. Persino l’antichità conosceva il metodo di velocizzare il processo di produzione dividendolo in piccoli passi. Se già I filosofi greci Aristotele, Platone e Senofonte menzionavano la divisione del lavoro, furono i romani a perfezionarla: in latino esistono oltre cinquecento espressioni per indicare mestieri diversi. Anche al di fuori dell’Europa, i vantaggi della divisione del lavoro erano conosciuti già da secoli. Per produrre le loro famose porcellane, i cinesi suddividevano il lavoro in più di settanta passaggi diversi, con artigiani formati appositamente per ogni singola attività. Ma ciò non ha portato allo sviluppo di una vera e propria industria della ceramica. Come gli antichi romani, i cinesi si fermarono alla produzione artigianale.
Inoltre, la mera presenza di un mercato non può spiegare perché l’economia inglese si sia espansa proprio a partire dal XVIII secolo. Il capitalismo viene descritto come una “economia di mercato” ma questo termine è fuorviante, perché sia il mercato che il commercio a lunga distanza si ritrovano quasi ovunque nella Storia. I turchi avevano i loro bazar e gli arabi i loro souk, senza che però questo abbia portato allo sviluppo del capitalismo industriale. Inoltre, l’Europa stessa era frammentata in molti piccoli Stati che si isolavano a vicenda con alte barriere doganali. Fare commercio in Europa era difficile, non facile.
Se fosse vero che avere un grande mercato interno porti alla ricchezza, allora i grandi Imperi della Storia avrebbero dovuto fiorire economicamente. Gli zar russi, i turchi ottomani, i moghul indiani e la dinastia cinese Qing regnavano su Imperi giganteschi e quasi privi di dazi doganali interni. E invece questi Imperi erano economicamente stagnanti e venivano ripetutamente colpiti da carestie. La Cina aveva circa trecento milioni di abitanti nel XVIII secolo, mentre il Regno Unito aveva una popolazione di sette milioni di persone. Eppure, è stata proprio questa piccola isola a sviluppare i primi macchinari industriali.
Si sottolinea spesso che gli inglesi svilupparono ben presto un forte sistema bancario. Ciò è sicuramente vero, ma queste banche ebbero poco a che fare con le prime fabbriche. Per quanto strano possa sembrare, il capitalismo moderno inizialmente non aveva quasi alcun bisogno di capitale. Le prime macchine erano così piccole ed economiche che gli imprenditori tessili potevano procurarsi il denaro necessario prendendolo in prestito da familiari e amici. Il futuro socialista Robert Owen, ad esempio, aprì la sua fabbrica a Manchester con sole cento sterline, prese in prestito da una cerchia di suoi conoscenti. Quindi, il motivo per cui il capitalismo ha preso piede in Inghilterra e non altrove non può essere nemmeno il denaro.
Tra l’altro, gli inglesi non erano nemmeno in possesso di conoscenze particolarmente avanzate. Certamente l’Europa del XVII secolo vide scoperte rivoluzionarie nei campi dell’astronomia, della meccanica e dell’ottica. Questa Rivoluzione Scientifica non era però circoscritta all’Inghilterra, ma fu portata avanti da ricercatori in tutto il continente - da Galileo Galilei in Italia a Otto von Guericke a Magdeburgo. Inoltre, queste nuove scoperte erano irrilevanti per la costruzione delle prime fabbriche. Le prime macchine tessili non furono costruite da scienziati, ma soprattutto da artigiani che sapevano a malapena leggere e scrivere. Questi smanettavano con i loro macchinari fino a farli funzionare.
Per tracciare brevemente le tappe di questo percorso: nel 1733, l’inventore John Key brevettò il suo Flying Shuttle, che in tedesco viene un po’ goffamente tradotto con “telaio a fuoco rapido”. Si trattava ancora di un telaio a mano, ma era molto più grande del modello precedente e richiedeva un solo tessitore per funzionare. La tessitura divenne così veloce che i filatori non riuscivano più a tenere il passo - il che portò poi allo Spinning Jenny, inventata nel 1764 dal tessitore James Hargreaves. Inizialmente, questa aveva otto fusi ed era già tre volte più produttiva del filatoio convenzionale. Ma la vera svolta era ancora dietro l’angolo. Il fabbricante di parrucche Richard Arkwright costruì un filatoio alimentato a energia idrica, il Water Frame, nel 1769. Ora bastava un solo operaio per monitorare centinaia di fusi. Nel 1779, il tessitore Samuel Crompton combinò entrambe le macchine del suo Spinning Mule, che ora produceva filati di cotone perfetti e finissimi.
Queste invenzioni non erano dovute alla condizione di nascita dei loro inventori: se John Kay era figlio di un produttore di lana e guidò l’azienda di suo padre sin dalla tenera età, tutti gli altri ingegneri meccanici provenivano da famiglie modeste. Il tessitore James Hargreaves probabilmente non aveva mai frequentato la scuola, erano alfabeta, e doveva sostentare tredici figli. Costruì la sua prima Spinning Jenny con un coltellino tascabile. Samuel Crompton era orfano di padre e dovette cominciare a filare il cotone all’età di cinque anni. Pare che però ogni tanto andasse a scuola, dove si dice che eccellesse soprattutto in matematica. Non è chiaro Se Richard Arkwright sapesse leggere. In ogni caso, era l’ultimo di sette figli e i suoi genitori non avevano i mezzi per mandarlo a scuola. Tuttavia, Arkwright riuscì a costruirsi un impero e i suoi discendenti divennero i più ricchi cittadini comuni del Regno britannico.
Teoricamente, quindi, sarebbe stato possibile inventare queste macchine tessili già nell’antichità, visto che le prime invenzioni <<non richiedevano molta più conoscenza di quella che Archimede già aveva a sua disposizione>>. Tant’è vero che gli inglesi non furono i primi a costruire macchine per la filatura dei tessuti. Già nel 1313, il cinese Wang Zhen aveva descritto “una macchina per filare la canapa” molto simile alla Spinning Jenny di Hargreaves e al Water Frame di Arkwright. In Cina, però, diversamente da quanto sarebbe accaduto in Inghilterra, queste conoscenze andarono perdute e si tornò presto al lavoro manuale.
Allora perché furono proprio gli artigiani inglesi a costruire i primi macchinari? È plausibile che anche i tessitori austriaci o italiani armeggiassero con i loro coltelli tascabili per sviluppare i nuovi filatoi, visto che anche loro avevano le conoscenze necessarie. La risposta più convincente è che l’industrializzazione è iniziata in Inghilterra perché era lì che venivano pagati i salari più alti al mondo. Nel XVIII secolo i lavoratori inglesi guadagnavano almeno il triplo dei loro omologhi dell’Europa continentale. Fu proprio Il fatto che i lavoratori giornalieri costavano tanto ai loro padroni che rese il redditizio l’utilizzo di macchinari - per risparmiare in manodopera.
Le prime macchine tessili erano piccole, poco appariscenti e venivano ancora costruiti in legno, ma costavano anche denaro: la Spinning Jenny di Hargreaves era settanta volte più costosa di un arcolaio convenzionale. Questi costi venivano recuperati solo perché queste macchine hanno permesso di risparmiare gli alti salari degli operai inglesi. In Paesi dove la mandano dopo era costava di meno, infatti, la meccanizzazione non diede gli stessi risultati. Secondo i calcoli dello storico dell’economia Robert C. Allen <<nel 1780, la redditività di una filatura della Arkwright era del 40% in Inghilterra, del 9% in Francia e dell’1% in India. Tuttavia, con gli investitori che si aspettano un rendimento di almeno il 15% sul loro capitale fisso, non c’è da meravigliarsi che in questo periodo nel Regno Unito siano state costruite circa centocinquanta filande Arkwright, in Francia quattro e in India nemmeno una>>.
Gli alti salari riflettevano una prosperità generale che era già iniziata in Inghilterra prima dell’industrializzazione e che stupiva profondamente i visitatori continentali. Nel 1737, il francese Abbé Le Blanc visitò l’isola e riferì nelle sue lettere che i contadini inglesi godevano di tutte le comodità della vita. Persino i servi bevevano il tè prima di iniziare ad arare i campi - si consideri che il tè era considerato un bene di lusso all’epoca. Le Blanc rimase molto colpito dall’eleganza degli abitanti della campagna. In inverno, indossavano cappotti e le loro mogli e le loro figli sembravano vere nobildonne. Si dice che nel 1778 un ambasciatore spagnolo si sia meravigliato che nelle sale del mercato di Londra <<si venne più carne in un mese di quanta ne viene consumata in Spagna in un anno intero>>. 
Oltre che in questi aneddoti, la prosperità inglese dell’epoca è stata documentata anche da dati numerici oggettivi. Gli inglesi avevano già un sistema di raccolta di dati statistici che permetteva loro di documentare i redditi di ogni regione del Regno. Tra gli altri, è rimasto celebre il compenso di un giardiniere di quarant’anni che viveva vicino a Londra con la moglie e quattro bambini piccoli. Nel 1797 riceveva circa trenta penny al giorno. Con questo salario medio la famiglia poteva permettersi cibo in abbondanza: ogni giorno c’erano pane di grano, formaggio, mezzo chilo di carne, tè, zucchero e un boccale di birra. Potevano permettersi scarpe e vestiti nuovi, nonché di pagare la retta scolastica per i due figli più grandi. La famiglia viveva in una casa dotata di giardino e riscaldamento a carbone.
Secondo calcoli molto successivi, i lavoratori londinesi consumavano 2.500 calorie al giorno e arrivarono a un apporto proteico quotidiano di 112 grammi. Una tale quantità di proteine era addirittura eccessiva: ne sarebbe bastato un terzo, in base alle raccomandazioni odierne dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
In nessun altro Paese al mondo i lavoratori godevano di standard di vita così elevati. In Italia o in India venivano consumate mediamente solo 1.900 calorie pro-capite, una quantità insufficiente per sostenere un’intera giornata di lavoro fisico. Anche in Francia molte persone erano malnutrite e mangiavano porridge di cereali a giorni alterni. Si stima che un quinto dei francesi fosse così debole da non poter fare lavori fisici e da poter svolgere al massimo tre ore di lavoro leggero.
Anche la statura elevata degli inglesi era indici della loro relativa ricchezza: alla fine del XVIII secolo, i soldati britannici erano alti in media circa 172 centimetri. I francesi arrivavano a 165 centimetri, gli italiani e gli austriaci appena a 162. Ma per quale motivo gli inglesi erano così ricchi - prima ancora che iniziasse le industrializzazione? Questa è una lunga storia che include, tra le altre cose: la peste, le pecore, il commercio internazionale, una rivoluzione e il carbone.
Tutto ebbe inizio con la “Morte nera”. La peste arrivò in Europa nel 1347 e, nel giro di quattro anni, uccise circa un terzo della popolazione. Tuttavia, la “Morte nera” non fu l’ultima delle pandemie - la peste tornò più volte. Soltanto in Inghilterra, la peste scoppiò ancora nel 1361-1362, nel 1369, nel 1471 e nel 1479-1480. Ognuna di queste pandemie uccise fino al 20% della popolazione. La peste colpì Londra per l’ultima volta nel 1665-1666 mietendo vittime soprattutto tra le classi più povere, come già notarono gli osservatori dell’epoca. Il commerciante e scrittore Daniel Defoe accolse questa “grande piaga di Londra” con un certo sollievo, ritenendola addirittura una “redenzione”. La peste aveva ucciso proprio <<quelle persone che, se fossero rimaste in vita, sarebbero state un peso insopportabile a causa della loro povertà>>.
La decimazione delle classi più basse ebbe importanti conseguenze economiche: improvvisamente venne a mancare la manodopera. I salari aumentarono bruscamente, il che pose fine alla condizione di sudditanza dei contadini. Dal 1400 circa, i contadini inglesi non erano più incatenati ai loro signori senza diritti individuali, ma avvenivano assunti con contratti a lungo termine per lavorare la loro terra, ricevendo un compenso fisso. Quindi, se i contadini investivano nei campi in cui lavoravano per aumentare la produttività, da contratto l’eventuale resa aggiuntiva sarebbe rimasta a loro; il proprietario non poteva cioè più appropriarsene. Questa certezza giuridica erano unicum In Europa. I coloni diventarono imprenditori agricoli che cercavano di massimizzare i loro profitti.
Ogni innovazione disponibile veniva prontamente utilizzata. Non appena si scoprì, nel XVIII secolo, che una diversa rotazione delle colture era molto più redditizia, i coloni abbandonarono immediatamente la coltura tre campi del Medioevo. In quest’ultima, la terra veniva lasciata incolta una volta ogni tre anni in modo che potesse riprendersi dopo la coltivazione in cereali invernali e primaverili. Gli agricoltori si resero conto che, piantando il trifoglio o le barbabietole tra un raccolto e l’altro, non era affatto necessario lasciare la terra incolta per un anno intero. 
In retrospettiva, questo cambiamento nella rotazione delle colture può sembrare una banalità, ma ha rappresentato una svolta epocale in un mondo che fino ad allora aveva combattuto contro due limiti assoluti: non c’era abbastanza grano per nutrire sufficientemente tutte le persone e non c’era abbastanza mangime per gli animali da soma e da tiro necessari. Il nuovo metodo di coltura risolse entrambi questi problemi. Grazie al trifoglio e alle barbabietole, divenne possibile foraggiare un numero sufficiente di cavalli da poter usare estensivamente per la natura dei campi. Il terreno poteva ora essere arato molto più in profondità, il che aumentò significativamente la resa del grano. Le mucche, a loro volta, non fornivano solo carne e latte, ma anche letame con cui potevano essere fertilizzati i campi di grano, aumentandone ulteriormente la resa.
Furono aggiunti anche nuovi prodotti, come ad esempio la lana. Poiché la peste aveva dispopolato il Paese, non tutti i terreni venivano utilizzati per l’agricoltura. Alcuni campi furono trasformati in pascoli per le pecore. Il tessuto di lana inglese divenne un bene di lusso molto ricercato all’estero - rappresentava quasi il 70% delle esportazioni britanniche alla fine del XVII secolo. Quindi l’industria tessile inglese era fiorente già prima dell’avvento dei macchinari.
Inizialmente, l’eccezionalità britannica non era ben riconoscibile. Quando la peste decimò la forza lavoro, i salari aumentarono anche nel resto d’Europa. Ma nella maggior parte degli altri Paesi, l’innalzamento dei salari durò poco: non appena la popolazione riprese da aumentare, i salari reali diminuirono di nuovo, perché i beni scarsi dovevano bastare per più persone, il che a sua volta aumentò la povertà media. Solo l’Inghilterra sfuggì a questa trappola demografica. Il numero di abitanti aumentò, ma lo fece anche il salario medio.
Questo fenomeno straordinario era in gran parte dovuto al commercio marittimo europeo, che era concentrato a Londra. L’Inghilterra era uno stato piccolo, ma Londra era la città più grande d’Europa. Nel 1700 aveva già mezzo milione di abitanti e un secolo dopo quasi un milione. L’ascesa di Londra non fu una coincidenza, ma fu la diretta conseguenza di successi militari inglesi. Per monopolizzare il commercio interno europeo, soltanto contro i Paesi Bassi, gli inglesi combatterono quattro guerre. Entrarono anche ripetutamente in guerra contro i francesi, ottenendo il controllo di quasi tutte le colonie francesi in Nord America.
Il Regno Unito era uno Stato militare di grande successo, proprio a causa del potere del Parlamento inglese. La “Gloriosa Rivoluzione” del 1688 aveva ridotto i poteri del Re, e da quel momento in poi, votare sulle tasse e rifiutarsi di finanziare le guerre era prerogativa dei deputati. Queste competenze del Parlamento inglese sono state spesso interpretate come la dimostrazione del fatto che la “Gloriosa Rivoluzione” abbia ridotto l’influenza dello Stato e della Corona. In realtà è accaduto esattamente il contrario. Proprio perché ora c’era il controllo parlamentare, in Inghilterra lo Stato divenne sempre più importante.
Dopo il 1688, divenne facile aumentare le tasse per finanziare l’esercito e la marina. Solo tra il 3 e il 5% della popolazione maschile aveva il diritto di voto. In pratica solo la nobiltà e i mercanti più ricchi erano rappresentati in Parlamento. Questi sapevano benissimo che vincere le guerre permanenti in Europa avrebbe servito i propri interessi. Chi controllava gli oceani avrebbe nominato il mercato mondiale.
Le entrate fiscali dell’Inghilterra aumentarono quindi rapidamente: tra il 1665 e il 1800 sipassò dal 3,4% ad almeno il 12,9% del prodotto interno inglese. Nella Francia del 1788, invece, le entrate ammontavano solo al 6,8% del prodotto interno francese. Le conseguenze sono note. La piccola Inghilterra vinse tutte le guerre contro una Francia molto più grande, che a quel tempo aveva il doppio degli abitanti.
Furono soprattutto le classi inferiori ad alimentare il gettito fiscale, poiché l’esercito e la marina britannici erano finanziati principalmente dalle imposte indirette sul consumo di birra, zucchero e tabacco. Era quindi evidente che il Parlamento faceva gli interessi degli aristocratici, mentre il resto della popolazione non poteva difendersi. Tuttavia, anche se i lavoratori britannici dovevano pagare le tasse sui consumi, vivevano molto meglio dei loro vicini europei - proprio perché i loro salari erano significativamente più alti.
Anche i visitatori stranieri si meravigliavano del fatto che i prodotti inglesi rimasero competitivi in tutta Europa nonostante gli alti salari dei lavoratori giornalieri inglesi. Alla fine del XVIII secolo, il proprietario della fabbrica di vetro francese Saint-Gobain affermava che gli inglesi non sarebbero mai stati in grado di produrre lastre di vetro a prezzi bassi come quelli della sua azienda.<<I nostri francesi mangiano solo zuppa con un po’ di burro e verdure [...]. I vostri inglesi mangiano carne, e tanta, e bevono birra tutto il tempo, così che un inglese si spende tre volte di più di un francese>>.
Ma il capo di Saint-Gobain aveva sbagliato i calcoli. Gli inglesi poterono permettersi loro alti salari perché avevano carbone a buon mercato, mentre i francesi erano costretti a bruciare legna. I costi energetici nelle vetrerie inglesi erano solo un sesto di quelli francesi.
 A quei tempi, il carbone era l’area in Europa, perché molti giacimenti non erano ancora stati scoperti. Anche la regione mineraria della Ruhr è rimasta a lungo un giacimento sconosciuto: fino al 1851, i prussiani pensavano di vivere in un Paese povero di materie prime. I suoi ricchi giacimenti di carbone furono scoperti solo quando si riuscì a perforare gli strati di marna e a scavare più in profondità. Nel Nord dell’Inghilterra, invece, il carbone si trova molto più vicino alla superficie e anche molto vicino al mare, il che rese possibile trasportarlo a basso costo. Già nel 1600, l’Inghilterra visse una “rivoluzione del carbone”, che sostituì il legno. Molto prima dell’avvento dell’industrializzazione, il carbone veniva già utilizzato nelle attività economiche ad alto bisogno energetico. Veniva usato per ricavare il sale dall’acqua di mare, per raffinare lo zucchero, per preparare la birra, per cuocere il pane, per soffiare il vetro, per produrre mattoni e piastrelle o per riscaldare le case.
Gli inglesi capirono presto che le loro miniere di carbone nella regione di Newcastle rappresentavano una forma di ricchezza paragonabile solo ai giacigli d’argento dell’Impero coloniale spagnolo. Nel 1650 il poeta John Cleveland scrisse i seguenti versi, non senza una certa ironia:
England’s a perfect world, hath Indies too,
Correct your maps, Newcastle is Peru.
Quindi l’Inghilterra aveva sia la manodopera più costosa che l’energia più economica. Questa combinazione era unica al mondo e spiega perché l’industrializzazione è iniziata in Inghilterra. Soltanto in Inghilterra era redditizio sostituire gli esseri umani con le macchine.
Nel 1796, la Gran Bretagna produceva solo 20 milioni di iarde di cotone stampato, nel 1830 questa produzione era salita a 350 milioni. Si tratta di una lunghezza tale da poter fare sette volte il giro dell’equatore. Anche gli strofinacci da cucina venivano realizzati in cotone, perché questa fibra era straordinariamente versatile: con essa si potevano produrre sia resistenti pantaloni da lavoro che abiti da ballo sottilissimi. Inoltre, il cotone poteva essere facilmente stampato e colorato, mentre la lana sembrava sempre un po’ sporca. Soprattutto, il cotone era relativamente economico, quindi molti ora potevano permettersi più di una di un’unica camicia. Nell’Inghilterra del 1800 esistevano già quattordici riviste femminili che illustravano ampiamente l’ultima moda.
Tuttavia, all’inizio, solo una piccola minoranza degli inglesi beneficiava della nuova crescita, mentre molti stavano anche peggio di prima. I salari alti avevano innescato l’industrializzazione, ma nel XIX secolo gli standard di vita delle masse ripresero a scendere. Questo strano fenomeno è passato alla storiografia economica come early growth paradox: l’economia britannica era complessivamente cresciuta, ma i suoi lavoratori si erano impoveriti. Prima dell’industrializzazione, la tessitura e la filatura erano lavori per operai specializzati. Nelle nuove fabbriche tessili, invece, gli uomini non servivano più. Il lavoro monotono alle macchine poteva anche essere seguito da donne e bambini non qualificati, che ricevevano salari da fame.
Nelle nuove fabbriche, le condizioni di lavoro erano spesso terribili, come denunciava anche la stampa conservatrice. C’erano così tante lamentele nella stampa borghese che Marx le usò per riempire pagine intere della sua opera magna Il capitale. Ad esempio, Marx riprende una storia raccapricciante dal<< Daily Telegraph>> del 17 gennaio 1860:<<Il Signor Broughton, magistrato di Contea, ha dichiarato [...] che, tra le fasce della popolazione urbana impiegate nella produzione di merletti, vi è un grado di sofferenza e di deprivazione sconosciuto al resto del mondo civilizzato [...] Alle due, alle tre, o alle quattro del mattino, bambini di nove o dieci anni vengono strappati dai loro letti sporchi e vengono costretti a lavorare per la loro mera sussistenza fino alle dieci, undici, dodici di sera, mentre le loro membra si dissipano, le loro figure si consumano, i loro lineamenti opachi e la loro umanità si congelano completamente in un torpore impietrito, la cui sola vista è atroce>>.
Molti bambini non raggiungevano nemmeno l’età adulta, cosa che scandalizzava persino i politici liberali. Marx cita, con malcelata soddisfazione, un discorso di Joseph Chamberlain, allora sindaco di Birmingham e successivamente uno dei più importanti politici britannici: <<Il Dottor Lee, funzionario sanitario di Manchester, ha scoperto che, nelle città, la durata media della vita delle classi benestanti è di 38 anni, mentre quella della classe operaia è di soli 17 anni. A Liverpool la prima è di 35 anni, la seconda di 15. Ne consegue, dunque, che la classe privilegiata prende la vita in prestito per il doppio del tempo di cui dispongono i membri più svantaggiati della società>>. Questa citazione del 1875 è interessante Non solo per la sua critica sociale. In retrospettiva, è sorprendente anche quanto sembrasse normale, sia Marx che a Chamberlain, che anche privilegiati non vivessero  in media più di 35 o 38 anni.
L’industrializzazione iniziò nelle fabbriche tessili, ma la loro importanza per l’economia nazionale rimaneva modesta. Nel 1830, i tessuti di cotone rappresentavano solo circa l’8% della produzione economica britannica e la maggior parte di questi primi macchinari erano alimentati a energia idrica. Il resto delle industrie non era ancora stato interessato dal cambiamento tecnologico, e forse la “Rivoluzione Industriale” sarebbe presto finita, se fosse rimasta limitata al tessile. Ma proprio nello stesso periodo ebbe luogo un secondo sviluppo rivoluzionario: la Gran Bretagna scopri l’energia a vapore.
Dal XVI secolo, gli inglesi bruciavano quantità sempre maggiori di carbone. Lo facevano per procurarsi il sale, per produrre birra, per riscaldare le proprie case e per fabbricare mattoni. La “Rivoluzione del carbone” non aveva cambiato il ruolo di questo combustibile. Il carbone continuava ad essere usato solo per generare calore. Fu l’energia data dal vapore che, per la prima volta, utilizzò il carbone per generare energia cinetica e azionare le macchine. Questo salto tecnologico ha cambiato il mondo per sempre.
All’inizio, la forza del vapore veniva utilizzata solo per drenare le miniere di carbone. Più i tunnel delle miniere andavano in profondità, più le acque sotterranee vi penetravano, tanto che gli argani azionati da cavalli non bastavano più per portare l’acqua in superficie. Ancora una volta fu un artigiano a costruire la prima soluzione meccanica: il fabbro e ferramenta Thomas Newcomen. Viveva nella tranquilla Dartmouth e serviva come predicatore laico in una chiesa battista. Per dieci anni Newcomen armeggiò con il suo motore a vapore finché, nel 1712, riuscì a installarne un primo esemplare in una miniera a Dudley.
Questa macchina era una meraviglia della tecnica che trasformava l’aria in denaro. Sfruttava il peso dell’atmosfera per sollevare l’acqua dal suolo. In sostanza, l’invenzione di Newcomen era composta da un cilindro metallico aperto, in cui l’acqua veniva riscaldata fino a trasformarla in vapore. Il vapore spingeva un pistone verso l’alto. Veniva poi aggiunta acqua fredda per far condensare il vapore e creare così un vuoto. Questo vuoto risucchiava il pistone verso il basso. Siccome la macchina si basava sulla pressione dell’aria, questa era inizialmente chiamata “macchina atmosferica”. Al pistone erano fissate travi di legno, i cui movimenti azionavano le pompe.
Questo capolavoro, però, aveva un grosso inconveniente: per produrre vapore, e per poi condensarlo nuovamente, la macchina di Newcomen consumava enormi quantità di energia. Per un singolo cavallo vapore (CV) erano necessari 20 chili di carbone. La macchina era quindi redditizia solo nelle miniere di carbone, dove c’era abbastanza carbone grezzo - quasi impossibile da vendere.
Al di fuori delle miniere di carbone, quindi, il motore a vapore di Newcomen era troppo costoso, il che era particolarmente problematico per le miniere di stagno e di rame della Cornovaglia. Anche qui era necessario drenare i tunnel, ma i depositi di carbone più vicini erano nel lontano Galles. Trasportare il carbone era così laborioso e costoso che si cercò subito di trovare un modo più efficiente di sfruttare la forza del vapore.
I successi furono sbalorditivi: nei successivi centocinquanta anni, gli ingegneri riuscirono a ridurre a una libbra la quantità di carbone necessaria per ottenere un cavallo vapore di energia. Quindi il “risparmio energetico” non è un’idea nata di recente per combattere il cambiamento climatico. Il capitalismo ha sempre fatto affidamento sul progresso tecnico per aumentare l’efficienza. Tuttavia, il risultato di questa efficienza non fu una riduzione del consumo di energia, ma l’esatto contrario. Man mano che le macchine diventavano sempre più efficienti, queste si diffusero ancora più rapidamente. Tanto che, alla fine, era necessaria più energia in totale, anche se ogni singolo dispositivo ne consumava di meno. Questo paradosso, noto anche come “effetto rimbalzo”, era già evidentemente evidente riguardo il motore a vapore: dal 1830 l’energia a vapore era così economica che valeva la pena usarla anche nell’industria tessile, che fino ad allora aveva funzionato principalmente con l’energia idrica.
Negli stessi decenni stava nascendo un’altra attività ad altissimo consumo di carbone: il trasporto su ferrovia. Anche lo sviluppo di quest’ultima fu una rivoluzione tecnologica. Più e più volte, sia osservatori dell’epoca che storiografi contemporanei hanno cercato di descrivere gli effetti di questa invenzione. Probabilmente il miglior riassunto viene dal poeta e filosofo francese Paul Valéry a cui bastò una sola frase per dirlo:<<Napoleone si spostava con la stessa lentezza di Giulio Cesare>>. Ma ora gli europei correvano attraverso il loro continente; poco prima della Prima Guerra Mondiale, i treni viaggiavano mediamente a novanta chilometri all’ora. 
Anche la storia della ferrovia inizia nelle miniere di carbone. Da tempo immemorabile, la gente aveva dovuto combattere con il problema di come portare il carbone al fiume o al canale più vicino. I vagoncini da miniera, che viaggiavano su rotaie e venivano trainati da cavalli, furono usati ben presto a questo scopo. All’inizio, queste rotaie erano di legno; dal XVIII secolo in poi, si cominciò a usare il ferro. Ma la vera svolta arrivò con il motore a vapore: quando fu inventato, nacque l’idea di usarlo anche per trainare i carri del carbone.
La prima vera linea ferroviaria fu aperta nel 1825, collegando i bacini carboniferi del Durham al mare. La tratta Stockton-Darlington in realtà doveva trasportare solo carbone e grano, ma presto divenne chiaro che si poteva guadagnare bene con il trasporto di passeggeri. Si diffuse una “mania ferroviaria”; le ferrovie divennero oggetto di speculazione finanziaria. Nel 1850, furono investiti 240 milioni di sterline per la costruzione di nuove tratte ferroviarie, una somma enorme considerando che il prodotto interno della Gran Bretagna nel 1850 ammontava 572 milioni di sterline. Tuttavia, reperire i fondi necessari non fu mai un problema, perché i soldi venivano creati “dal nulla” (questo punto sarà approfondito nel capitolo 7).
Le ferrovie cambiarono profondamente il capitalismo dell’epoca. A differenza dell’industria tessile, le ferrovie avevano bisogno urgente di capitale. Il capitale non serviva solo per costruire ferrovie, ma per creare fabbriche di macchinari, aprire altre miniere di carbone e costruire grandi città.
Con il motore a vapore, il capitalismo è diventato fossile - e senza il carbone il capitalismo di oggi non esisterebbe. Le foreste, da sole, non sarebbero mai bastate ad alimentare i macchinari industriali e la crescita permanente. Un calcolo ipotetico chiarisce bene questo punto: già nel 1850, gli inglesi bruciavano tanta energia quanta gli alberi avrebbero potuto fornire se avessero coperto il 150% della superficie britannica - un’impossibilità fisica. L’Europa di oggi usa venti volte più energia di quella che le foreste potrebbero fornire se queste ricoprissero l’intero continente.
Il motore a vapore è stato inventato prima ancora che fosse chiaro esattamente come e perché funzionasse. <<Una vera e propria teoria dell’energia a vapore fu sviluppata solo a posteriori, dal francese Carnot negli anni Venti del XIX secolo>> osserva lo storiografo britannico Eric Hobsbawm. L’importanza del vapore venne riconosciuta solo a posteriori. Il famoso economista Adam Smith trova le prime macchine a vapore così misere da attribuire questa invenzione epocale alla furbizia dei bambini. Nella sua opera principale, La ricchezza delle nazioni del 1776, Smith scrive: <<Così, nelle prime macchine a vapore, un ragazzo doveva continuamente aprire e chiudere il passaggio dalla caldaia al cilindro, mentre il pistone saliva e scendeva. Uno di questi ragazzi, che avrebbe preferito andare a giocare con gli altri, osservò quanto segue: collegando la maniglia della valvola che apriva il collegamento con una cordicella, la valvola si apriva e si chiudeva da sola, lasciandogli così il tempo di giocare con i suoi amici>>. Questo ingegnoso collegamento delle valvole è ancora oggi l’esempio più famoso di come funzioni l’automazione - ma Smith ci vide poco più che una ragazzata. 
Eppure, Smith avrebbe dovuto comprendere il potenziale della forza del vapore, visto che conosceva personalmente l’inventore James Watt. Smith era un professore di filosofia a Glasgow dal 1751, ma dovette anche occuparsi dell’amministrazione dell’università. Tra le altre cose, fece allestire un’officina per Watt, allora ventunenne, per la manutenzione delle apparecchiature scientifiche dell’università. Fu proprio in questo laboratorio che Watt iniziò i suoi tentativi di ottimizzare il motore a vapore di Newcomen.
Watt a Smith avevano un caro amico in comune, il chimico Joseph Black. Black passò alla storia della scienza, tra l’altro, perché scoprì l’anidride carbonica- senza sapere, ovviamente, che questo gas avrebbe poi innescato il cambiamento climatico. In retrospettiva, è quasi ironico che Watt, Smith e Black si conoscessero così bene, perché non solo divennero i padri fondatori delle loro rispettive discipline, ma ebbero già a che fare con gli stessi fenomeni che rimangono ancora oggi al centro del capitalismo: tecnologia fossile, crescita economica ed emissioni di gas serra.
Tuttavia, da questi incontri personali non si sviluppò alcuna tendenza generale: la tecnologia non reversiva alcun ruolo nelle spiegazioni di Adam Smith in merito alla prosperità delle nazioni. In verità, Smith non era l’unico sottovalutare la tecnologia. Gli inizi dell’industrializzazione erano così umili che i contemporanei li giudicarono male o semplicemente li ignorarono. Nel 1828, l’economista francese Jean-Baptiste Say vide le prime locomotive a vapore e predisse che <<nessuna macchina avrebbe mai potuto fare ciò che può fare il cavallo, ovvero trasportare persone merci attraverso la folla di una grande città>>.
Quindi, nessuno ha pianificato o previsto il capitalismo. Al contrario, è emerso perché alcuni produttori tessili e proprietari di miniere volevano essere più efficienti e competitivi. Non intendevano iniziare una “Rivoluzione Industriale”, ma si preoccupavano solo del loro guadagno individuale.
Nel XVIII secolo non esisteva ancora l’idea di una modernità tecnica; il modello da seguire continuava ad essere l’antichità. Non era il futuro che interessava, ma il passato - come illustra il piano di studi del prestigioso college di Eton. Delle ventisette ore settimanali di insegnamento, tre erano dedicate alla scrittura e dell’aritmetica, altre tre all’istruzione religiosa e ben ventuno al latino, al greco antico e alla storia antica. 
È quasi un caso che il capitalismo sia nato in Gran Bretagna. Le macchine sono state sviluppate e utilizzate lì solo perché la manodopera era molto costosa. Ma le conseguenze furono enormi, perché da quel momento in poi l’umanità ha cominciato a usare i combustibili fossili. All’inizio si bruciava solo carbone, a cui si sono aggiunti poi anche gas e petrolio. L’umanità scoprì di avere a disposizione una specie di batteria naturale: milioni di anni di energia solare immagazzinata in giacimenti fossili. Per superare i limiti del presente, si sfruttavano i resti delle piante del passato. Da tempo memorabile l’umanità era costretta a consumare solo ciò che ne forniva la natura vivente. Questa Era “organica” era ormai finita - ed è stata sostituita da un’Era fossile.
I combustibili fossili sono estremamente convenienti perché sono abbondanti, facili da estrarre, comodi da trasportare, disponibili ventiquattro ore al giorno e semplici da usare. Per la prima volta nella storia umana si creò un eccesso di energia. Fu questo eccesso a rendere possibile la prosperità e la libertà. Gli svantaggi dei combustibili fossili, invece, sono stati ignorati per molto tempo. Un chilo di carbone, bruciandosi, si trasforma in 3,7 chili di CO₂, e questa legge naturale della chimica non si può cambiare.
Gli inglesi furono i primi a beneficiare di questo combustibile fossile: tra il 1770 e il 1870 e il loro reddito pro-capite raddoppiò. Tuttavia, la distribuzione delle nuove ricchezza era molto diseguale. I salari reali dei lavoratori aumentarono solo del 30%, quindi molto meno rispetto ai profitti dei padroni. Ciononostante, il fatto che anche i ceti più poveri potessero permettersi più dello stretto necessario ebbe conseguenze enormi. Questo potere d’acquisto di massa creò la moderna società dei consumi, cambiando così il capitalismo per sempre.
Il capitalismo di oggi sarebbe inconcepibile senza il consumo di massa, perché i beni di consumo rappresentano ormai quasi l’80% della produzione economica. Se i salari reali non fossero aumentati, il capitalismo si sarebbe estinto nel XIX secolo e probabilmente lo sviluppo tecnologico si sarebbe fermato alla ferrovia. È stata l’enorme domanda da parte dei lavoratori a rendere possibili noi prodotti nuovi cicli di crescita economica. Questi non sarebbero mai stati innescati solo dallo stile di vita dei ricchi. Come riassume lo storico Eric Hobsbawn:<<A rivoluzionare l’industria automobilistica non fu la Rolls-Royce, ma la Ford “Modello T”>>.
Il capitalismo è nato in Gran Bretagna, ma ha avuto fin da subito conseguenze globali. Di lì a poco, il mondo cominciò a dividersi tra vincitori e vinti. 
I primi a rimetterci furono gli indiani. I loro tessuti di cotone smisero presto di essere competitivi sul mercato mondiale, perché i filatori britannici miglioravano sempre di più e nel 1825 producevano già sedici volte più velocemente che nel 1780. I tessuti inglesi divennero così economici che nemmeno alla donna indiana più povera conveniva filare il cotone da sé. Fin dall’antichità, l’India era famosa per i suoi tessuti morbidi e leggeri. Ora non rimaneva più nulla di questa industria tradizionale. Nel giro di pochi anni, l’India altamente sviluppata si trasformò in uno Stato puramente agricolo che poteva fornire solo cotone grezzo o riso all’Inghilterra.
L’India era intrappolata in un paradosso: i salari erano bassi, il che la rendeva ancora più povera. Dati i suoi costi di manodopera bassi, non valeva la pena acquistare macchine costose. Anche gli Stati europei hanno dovuto lottare con questo circolo vizioso, visto che anche i loro salari erano bassi. L’industrializzazione britannica improvvisamente trasformò tutti gli altri Stati in “Paesi in via di sviluppo”. Questi venivano ulteriormente marginalizzati dal fatto che investire in tecnologie costose non era economicamente sensato.
In ogni caso, non mancavano né la conoscenza nella volontà di mettersi in pari: le potenze europee rivali videro che in Gran Bretagna era in atto uno sviluppo senza precedenti e cercarono di imitare questo “miracolo inglese”. I principi tedeschi inviarono immediatamente spie industriali sull’isola e sovvenzionarono imprenditori disposti a copiare le macchine in inglesi. 
Il tutto si basava spudoratamente sul plagio, cosa che i primi capitalisti tedeschi ammettevano apertamente: la prima filanda meccanica di cotone in Prussia fu costruita a Ratingen nel 1783 e fu opportunamente battezzata a “Cromford” - dal nome del villaggio inglese in cui Richard Arkwright aveva fatto costruire la sua prima fabbrica. Nella nuova fabbrica in Prussia, i Water Frames di Arkwright erano stati costruiti fedelmente all’originale, sebbene gli inglesi avessero cercato con ogni mezzo di impedire agli europei di rubare le loro idee.
Ma la “Cromford” prussiana non è redditizia quanto quella inglese, proprio perché i bassi salari in Germania rendevano antieconomico l’uso di macchinari. Invece, per gran parte della Germania era più redditizio rifornire di prodotti agricoli l’Inghilterra in forte espansione - e continuare a fare affidamento sul lavoro manuale anziché costruire una propria industria. Per buona parte del XIX secolo, tedeschi e indiani svolgevano un ruolo simile: fornivano materie prime agli inglesi.
Nemmeno gli svizzeri si industrializzarono all’inizio, sebbene la loro produzione di cotone fosse più antica delle fabbriche britanniche. Dopo lunghe discussioni, i Confederati giunsero alla conclusione che non conveniva acquistare macchine e che sarebbe stato più economico continuare a lavorare il cotone manualmente.
C’era solo un paese al mondo che riuscì presto a tenere il passo con gli inglesi: gli Stati Uniti. Negli “Stati-fabbrica” del Nord fu subito vantaggioso copiare e utilizzare le macchine britanniche, poiché anche lì la manodopera era molto costosa. A differenza che negli Stati del Sud, al Nord non c’erano quasi schiavi. Al Nord I lavoratori - immigrati dall’Europa come libri cittadini - dovevano essere pagati bene, anche solo per poterli assumere. Invece di sfiancarsi nelle fabbriche, gli operai potevano trasferirsi in campagna in qualsiasi momento e avviare una propria attività agricola. I terreni agricoli erano abbandonati fino al XIX secolo, il che fece aumentare i salari nelle città.
Data questa situazione quasi nessuno si infastidiva per il fatto che i terreni agricoli erano solo apparentemente senza proprietario. I terreni rimanevano a disposizione degli immigrati europei semplicemente perché gli indigeni erano stati precedentemente espulsi o uccisi (maggiori informazioni su questo tema nel capitolo 6).
Sebbene gli Stati del Nord si siano industrializzati velocemente, anche questi rimasero inizialmente dei semplici imitatori ed erano tecnologicamente poco avanzati. Dovevano trovare un modo per resistere alla concorrenza britannica, che vantava una qualità superiore. Così si isolarono ermeticamente dal mondo esterno. Gli alti dazi all’importazione, che oscillavano dal 35% al 50% facevano sì che le merci britanniche potessero raggiungere il mercato americano solo a prezzi esorbitanti. Il motto era: sì al protezionismo, no a libero scambio. Quindi è alquanto disonesto da parte degli Stati Uniti presentarsi oggi come i campioni del libero scambio. Gli americani hanno ridotto le loro tariffe solo dopo essere diventati una superpotenza economica.
Per inciso, questo schema lo si ritrova spesso: il libero scambio è una priorità degli Stati potenti. I dazi all’importazione vengono aboliti volontariamente solo quando la propria industria è già diventata leader nel mercato mondiale e non deve più temere la concorrenza straniera.
Gli Stati Uniti divennero un modello per tutti gli altri paesi che volevano recuperare il vantaggio tecnico degli inglesi. Anche i tedeschi, che all’epoca vivevano in trentotto piccoli Stati, si ispirarono agli Stati Uniti. Ventidue di questi piccoli Stati fondarono l’unione doganale tedesca nel 1834 per creare un mercato uniforme e isolarlo dal mondo esterno. Tuttavia, questo progetto politico ebbe un successo solo parziale sebbene abbia facilitato il flusso delle merci, la produzione non aumentò. Quest’ultimo fallimento dimostra, ancora una volta, che un mercato da solo non è sufficiente per creare crescita. Quello che è necessario è che l’utilizzo della tecnologia diventi economicamente sensato. Invece, all’inizio, l’energia a vapore non era affatto redditizia in Germania, come calcolavano meticolosamente gli osservatori dell’epoca: nella maggior parte delle aree tedesche, l’impiego delle macchine costava quasi il doppio rispetto all’uso dei cavalli, anche perché il carbone doveva essere trasportato via terra, con grandi difficoltà.
In Germania, le cose iniziarono a migliorare solo dopo l’invenzione della ferrovia. La prima tratta ferroviaria tedesca fu costruita nel 1835, era lunga sei chilometri e congiungeva Norimberga a Fürth. Gli abitanti della regione della Franconia ci misero solo pochi anni per copiare gli inglesi - anche se la prima locomotiva proveniva dalla Gran Bretagna e il primo macchinista era britannico. 
La ferrovia rivoluzionò l’industria siderurgica e la produzione di macchinari, perché fino ad allora l’industria siderurgica tedesca era ancora al livello del tardo Medioevo. Nel 1835, il 95% della ghisa veniva ricavato dal carbone; solo il 4,5% proveniva dalle moderne cokerie. All’inizio, ogni singolo progetto ferroviario minacciava di spingerle con onomia tedesca i suoi limiti di capacità: nel 1837 fu costruita la linea ferroviaria della Dresda e Lipsia, per la quale furono necessarie 5.650 tonnellate divisa da coke, ovvero oltre il 90% della produzione annuale in Prussia. Nessuna fabbrica tedesca era in grado di fornire questo materiale o di trasformarlo in binari ferroviari ben laminati.
In questa prima fase, bisognava importare tutto dall’Inghilterra: ghisa, rotaie e locomotiva. Tuttavia, i tedeschi riuscirono a sostituire queste importazioni con i propri prodotti con sorprendente rapidità. Nel 1843, solo il 10% delle rotaie tedesche erano prodotte in Germania, nel 1854 erano già il 58% e nel 1863 addirittura l’85%. La produzione nazionale di locomotive si sviluppò con altrettanta rapidità. Nel 1853 le ferrovie prussiane acquistarono 105 nuove locomotive, 99 delle quali erano state costruite in Germania. Ben presto, anche la Germania riuscì a esportare le proprie locomotive. Non tutti si sentivano a proprio agio in questo nuovo mondo. Il Re prussiano Federico Guglielmo III, all’inaugurazione della linea Berlino-Potsdam nel 1838, brontolò scettico:<<Pare che tutto debba procedere a rotta di collo, ma la pace e la tranquillità ne risentono. Non posso aspettarmi una grande felicità dal fatto di arrivare a Berlino o a Potsdam con qualche ora di anticipo>>.
Così come quello inglese, anche il capitalismo tedesco iniziò quasi senza capitali. Filande, tessitorie o tintorie potevano essere fondate con 15.000-50.000 talleri prussiani. Le prime fabbriche siderurgiche e meccaniche non necessitavano di più di 50.000-70.000 talleri. Quando il proprio denaro non era sufficiente, si ricorreva alla famiglia allargata. L’azienda di elettronica Siemens & Halske, divenuta poi famosa, era tipica di quest’epoca: il capitale iniziale fu messo a disposizione da un cugino del fondatore, e il primo impiegato era suo fratello. 
Tuttavia questo modello finanziario "famigliare" non era applicabile alle ferrovie, che avevano bisogno di milioni. Così come in Inghilterra, però, nemmeno in Germania fu difficile reperire capitali necessari. Anzi le compagnie ferroviarie erano letteralmente sommerse di denaro. Si dimostrò ancora una volta che il denaro non manca mai: abbonda sempre. Gli investitori finanziari cominciavano presto a lamentarsi di non riuscire più a trovare investimenti redditizi. La Camera di Commercio di  Bielefeld affermò nel 1851:<<le nostre banche soffrono sotto il peso dei soldi che vi vengono depositati per un tasso di interesse del 2%>>. 
L’industria siderurgica si sviluppò anche grazie alle estensioni della rete ferroviaria che, quando il britannico Henry Bessemer brevettò un nuovo processo produttivo nel 1856,vide sensazionali balzi in termini di efficienza. Senza entrare nei dettagli: questo processo produttivo permetteva di ridurre in venti minuti la stessa quantità di acciaio per cui prima servivano ventiquattro ore. Questo enorme salto di produttività ha cambiato non solo l’industria siderurgica, ma tutto il capitalismo. Inizia qui l’era delle corporazioni. A causa del processo Bessemer, i costi di investimento aumentarono a tal punto che solo le aziende più grandi potevano permetterseli. Inoltre, ogni altoforno produceva molto più acciaio di prima, motivo per cui gli venne necessario espandere il laminatoi. Si crearono così enormi conglomerati che mandarono in bancarotta tutti i concorrenti che non erano riusciti a espandersi alla loro stessa velocità. 
Le poche imprese rimaste si unirono tra loro per formare cartelli industriali. Solo tra il 1879 e il 1886, in Germania, furono istituiti circa novanta cartelli, per lo più cartelli sui prezzi. Dal punto di vista delle imprese, questi accordi erano razionali e persino necessari: visto che i costi di investimento erano enormi, le imprese devono assicurarsi che le vendite e i ricavi sarebbero stati adeguati. La concorrenza sfrenata avrebbe rovinato i prezzi e fatto fallire le imprese. Divenne evidente per la prima volta un paradosso che caratterizza ancora oggi il capitalismo: gli investimenti vengono effettuati solo se il rischio è praticamente nullo. 
L’industria siderurgica non era l’unica branca ad essere dominata da cartelli. Famoso è il caso del Consorzio del carbone della Renania-Westfalia, che vendeva il 90% di tutto il carbone della Ruhr a prezzi uniformi in Germania e sui mercati mondiali. Gli accordi necessari a creare un cartello venivano stipulati segretamente e, nel 1897, la Corte Imperiale di Giustizia li pose persino sotto tutela di legge. Ben presto la Germania si ritrovò ad avere il maggior numero di cartelli al mondo; prima della Seconda Guerra Mondiale, ce n’erano circa 3.000. Le imprese avevano anche scoperto un’altra strategia per aumentare il problema del potere di mercato: fondersi tra loro. 
Per fare un breve salto al presente: la tendenza delle aziende ad ingrandirsi ed evitare per quanto possibile la concorrenza di altre aziende continua ancora oggi. Sebbene i cartelli siano ora vietati, l’economia tedesca è estremamente concentrata, come si può vedere da un singolo valore riportato nell’ultimo annuario statistico: le grandi aziende costituiscono solo lo 0,7% di tutte le società in Germania, ma controllano il 66,2% delle vendite. 
Ma torniamo agli inizi del capitalismo tedesco: intorno al 1880 finì l’era del plagio - cioè il periodo in cui sostanzialmente la Germania copiava le invenzioni di altri Paesi. Ora le aziende tedesche commercializzavano quello che erano riusciti a sviluppare da soli. L’industria chimica ebbe particolare successo <<trasformando sporcizia in profitti>> e trasformando il catrame in colorante all’anilina. Inizialmente il catrame era solo un fastidioso rifiuto delle cokerie, ma poi si scoprì che poteva essere anche una preziosa materia prima. Il riciclo e l’uso industriale degli scarti non sono idee nuove; sono vecchie tanto quanto il capitalismo. 
Da quel momento in poi, il carbone non fu più solo un combustibile. Divenne la base della chimica organica, dando vita a prodotti e Industrie completamente nuovi. Come ad esempio la farmacia, che inizialmente sviluppò farmaci che erano chimicamente molto simile ai colori del catrame, come l’aspirina antidolorifica che presto sarebbe diventata famosa in tutto il mondo.
I pazienti più entusiasti credevano che le aziende farmaceutiche facessero ricerche meticolose e che operassero in modo puramente scientifico. Spesso le pubblicità mostravano farmacisti in camice bianco la verità era molto più banale: i farmaci sono nati grazie a esperimenti più o meno casuali. L’analisi teorica è arrivata molto più tardi. Lo stesso vale per l’industria tessile. Non era del tutto noto il motivo per cui i colori si fissassero efficacemente ai tessuti, ma l’importante era che questo processo funzionasse. Fino agli anni Venti, inoltre, i produttori di acciaio non sapevano esattamente quali reazioni chimiche avessero luogo negli altri forni o nei laminatoi. 
Lo stesso succedeva anche nell’industria elettronica: i fratelli Siemens facevano <<invenzioni speculative>>, per usare il loro stesso termine. Un vero e proprio laboratorio di ricerca fu creato solo nel 1873, quando l’azienda familiare era da tempo diventata una grande società. Ciononostante, Siemens rimaneva un pioniere punto, visto che all’epoca solo l’acciaieria Krupp e il produttore di ottiche Carl Zeiss possedevano dei laboratori di ricerca propri. Molte aziende avevano scoperto che la ricerca sistematica generava pochi profitti. La fabbrica di vernici Bayern di Elberfeld assunse alcuni ricercatori chimici negli anni Sessanta dell’Ottocento, ma li licenziò presto perché <<non avevano inventato niente di nuovo>>. Per il momento, ci si limitava a sperimentare con macchine e materiali.
Allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale, le aziende tedesche avevano superato i loro concorrenti britannici ed erano al secondo posto a livello mondiale, mentre gli Stati Uniti rimanevano il leader indiscusso. Tuttavia, questi record nascondono il fatto che i gruppi industriali erano ben lontani a dominare l’intera economia. Le esportazioni tedesche erano piuttosto rustiche e consistevano principalmente in birra, calze, fermamente e posate, strumenti musicali, sale, zucchero, giocattoli, articoli di lana e prodotti farmaceutici. Il Natale tedesco fu un altro successo dell’export di questo periodo: una volta che altri paesi si erano lasciati convincere che un abete doveva illuminare il soggiorno, ecco che divenne necessario importare anche le decorazioni intagliate a mano, prodotte in Germania nei Monti Metalliferi. 
All’epoca, la Germania era quella che oggi si direbbe un paese emergente. Sebbene esistessero multinazionali come Siemens, Cruz e Bayer, c’erano anche milioni di agricoltori che lavoravano per lo più in modo tradizionale. Secondo calcoli dello storico dell’economia britannico Adam Tooze, nel 1933 circa dodici milioni di tedeschi vivevano ancora in fattorie troppo piccole per garantire loro un tenore di vita adeguato. Si tratta del 18% della popolazione tedesca dell’epoca. 
Prima della Seconda Guerra Mondiale, il reddito pro-capite tedesco era più o meno pari a quello del Sudafrica, dell’Iran o della Tunisia di oggi. Tuttavia, in questi ultimi paesi, le condizioni di vita sono migliori rispetto a quelle della Germania di allora, in quanto il Sud del mondo ha beneficiato anche degli sviluppi tecnologici che si sono verificati nel frattempo. Se necessario, il Sudafrica oggi può importare computer, farmaci antitumorali o aerei moderni, cosa che la Germania di allora non poteva fare. Tooze giunge quindi alla conclusione che il paragone con il Sudafrica è addirittura “troppo generoso verso la Germania" prima della Seconda Guerra Mondiale. 
Il benessere diffuso non si affermò in Europa fino al 1950, quando l’intero continente conobbe un “miracolo economico ". Ai tedeschi piace pensare che solo la Repubblica Federale abbia vissuto un enorme ripresa, ma in realtà tutti i Paesi europei riuscirono a registrare tassi di crescita enormi. Fino al 1973, l’economia della Germania occidentale è cresciuta del 5% annuo pro-capite; lo stesso valeva per l’Austria e per l’Italia, mentre la Spagna è cresciuta mediamente addirittura del 5,8%. 
Questo boom non è stato un “miracolo": ci si limitò a colmare il ritardo tecnologico rispetto agli USA, nato a sua volta dalle due Guerre Mondiali e dalla successiva inflazione. Tra il 1914 e il 1950 in Europa c’era stata poco a crescita, ma con il ritorno della stabilità politica l’economia poteva nuovamente prosperare. Gli europei poterono finalmente realizzare alcuni dei loro sogni - concedendosi lavatrici, frigoriferi, televisori, automobili e viaggi. 
Quanto fosse grande il ritardo tra Europa e Stati Uniti lo si vede dal numero di auto: negli Stati Uniti c’erano già 204 auto ogni 1.000 abitanti nel 1928, mentre l’intera area metropolitana di Monaco aveva solo 5.474 auto. Ci sono voluti più di 40 anni perché la Repubblica Federale Tedesca recuperasse questo divario. Una volta colmato questo divario, è finito anche il “miracolo economico".
La Germania si trasformò in un vero e proprio Paese industriale solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, tanto che nel 1965 la metà di tutti i lavoratori era impiegata nelle fabbriche. Tuttavia, sarebbe sbagliato considerare solo la produzione industriale. Anche tutti gli altri settori dell’economia vennero meccanizzati i servizi - così come l’agricoltura. Nelle banche, ad esempio, i cassieri furono sostituiti dai bancomat e oggi sono i computer a gestire i pagamenti. Il cambiamento fu ancora più drammatico nelle aziende agricole, dove il rapporto tra macchinari e lavoratori è addirittura più grande che nell’industria. I trattori hanno mandato i cavalli da aratro in pensione e le mietitrebbie hanno reso superflui i braccianti. Bastava una piccola famiglia per gestire una grande azienda agricola. Se un tempo l’agricoltura impiegava milioni di persone, nel secondo dopoguerra vi lavorano a tempo pieno solo 287.000 persone. 
Così, tra il 1830 e il 1970 gli europei occidentali riuscirono a costruire la propria industria e mettersi al passo con gli inglesi. Ma altri paesi continuavano a rimanere indietro. Perù, Malawi e Pakistan non sono ancora riusciti a entrare nella schiera degli Stati ricchi. Perché? Si presume spesso che il ricco Nord abbia impedito che il Sud del mondo si sviluppasse. Questa affermazione è in parte vera. Ma non offre una spiegazione sufficiente. 


(tratto da La fine del capitalismo, Ulrike Herrmann, ed. Castelvecchi)