Paolo Morlino, 1 luglio 2024
Il lauto scambio, William J. Bernstein, ed. Tropea
Il 30 marzo 1802 William Jardine s’imbarcò come aiuto chirurgo sulla nave Brunswick diretta in Cina. Tipico esponente di quei giovani che cercavano fortuna nella Compagnia delle Indie orientali (Eic), il diciottenne scozzese dopo la morte del padre, umile agricoltore delle Highlands, era riuscito a completare gli studi di medicina alla facoltà di Edimburgo grazie all’aiuto di un fratello maggiore.
A quei tempi un impiego su un indiaman era una posizione assai ambita. Il privilegio non risiedeva tanto nel salario della compagnia (al momento di firmare Jardine ricevette due mensilità anticipate per un totale di cinque misere sterline - meno di seicento euro in valuta odierna) ma nella porzione di stiva a cui dava diritto. La Eic concedeva ai membri dell’equipaggio il diritto di trasportare un certo quantitativo di merci personali, la cui entità variava a seconda del grado rivestito a bordo: due tonnellate a un aiuto chirurgo; tre tonnellate a un chirurgo; 56 tonnellate all’andata e 38 tonnellate al ritorno a un capitano. Volendo, questo spazio sull’Indiaman poteva essere affittato a qualche mercante privato dietro un compenso che si aggirava tra le venti e le quaranta sterline a tonnellata, ma un uomo in gamba come Jardine sapeva di poter fare molto di più servendosene in proprio. La carriera di questo giovane ufficiale medico, che in seguito fondò uno dei grandi imperi commerciali moderni, illustra in modo efficace i cambiamenti che investirono il commercio mondiale all’inizio del Diciottesimo secolo.
Non disponiamo di testimonianze sulle capacità mediche di Jardine, tuttavia ci sono pochi dubbi che svolgesse il proprio compito con competenze e scrupolo, dato che in occasione del suo secondo viaggio lo troviamo già promosso a chirurgo. Tuttavia, il vero talento del giovane scozzese era un altro. Nel corso dei sei viaggi in Oriente intrapresi al servizio della Eic, Jardine riuscì a racimolare una notevole fortuna acquistando prodotti cinesi, soprattutto tè e seta, in cambio di argento e merci inglesi e indiane.
Secondo gli standard del Diciannovesimo secolo, i quindici anni che i Jardine passò al servizio della Eic erano un termine abbastanza normale, anche tenendo conto del fatto che quattro dei sei viaggi da lui compiuti si svolsero in un testo di guerra. Nel 1805, la nave su cui stava compiendo il suo secondo viaggio, la sfortunata Brunswick, fu catturata dai francesi al largo dello Sri Lanka. Il giovane William fu costretto in una prigione del capo di Buona Speranza (allora sotto il controllo della Repubblica olandese, appena conquistata Napoleone) e di qui gli fu consentito di tornare in patria a bordo di una nave americana. Dato che era la regola della Compagnia pagare i propri dipendenti soltanto in caso di spedizioni riuscite, il chirurgo scozzese fu privato della paga.
Ma in prospettiva futura, l’evento più importante del viaggio fu la conoscenza che Jardine fece a bordo del Brunswick di un ambizioso mercante parsi di nome Jamsetjee Jeejeebhoy, una figura da fiaba che evocava uno straordinario esotismo anche in base agli standard dell’epoca. Sebbene di etnia indiana e stanziata nell’area di Bombay, la setta parsi professava una religione che derivava dallo zoroastrismo. Considerate le loro radici indiane e persiane, non era un caso se i mercanti della comunità fossero profondamente inseriti nell’antico traffico commerciale dell’oceano Indiano. Inoltre, i parsi avevano familiarità con la Cina, alla quale inviavano da secoli cotone grezzo e raffinato, mirra, avorio, pinne di squalo e un’infinità di altri merci, attività che era valsa loro la fame di “ebrei dell’India”.
Nato nel 1783 da una famiglia povera ma di tradizione sacerdotale, da ragazzo Jeejeebhoy fu mandato a fare l’apprendista presso uno zio, venditore di bottiglie. Il giovane presto si stancò del mestiere che la famiglia aveva scelto per lui e dopo neanche un anno s’imbarcò per la Cina, dove tornerà a soggiornare più volte nel decennio successivo. Jardine e Jeejeebhoy dovettero cedere carico e borsa agli assalitori del brunswick, tuttavia nei successivi quarant’anni i due fratelli di commercio avrebbero ammassato fortune enormi e onorificenze (furono entrambi fatti i cavalieri, e nei casi di Jeejeebhoy si trattò del primo indiano a ricevere tale titolo) operando all’interno di quel mondo dai connotati moralmente ambigui rappresentato dai traffici marittimi tra l’India e la Cina, il cosiddetto <>.
Se Jardine riassumeva in sé i caratteri della nuova classe di mercanti inglesi che operavano a Canton, la società e la cultura cinese che accolsero l’ambizioso scozzese erano perfettamente rappresentate dal funzionario imperiale Lin Tse-hsü. Discendente da una lunga stirpe di studiosi e uomini di stato, Lin aveva intrapreso la tradizionale carriera meritocratica dei mandarini, fatta di lunghi studi eruditi e nella quale ogni avanzamento di grado nella gerarchia burocratica era subordinato al superamento di rigorosi esami abilitanti. Nel corso degli anni, Lin Tse-hsü fu segretario del governatore della provincia costiera del Fukkien, compilatore presso l’accademia provinciale, capo esaminatore provinciale, giudice distrettuale, ispettore del sale, commissario giudiziario, commissario finanziario, funzionario responsabile della conservazione dei fiumi, governatore provinciale e governatore generale provinciale, prima di accedere, nel 1838, all’ambita carica di commissario imperiale. Durante tutto questo tempo Il funzionario consigliò l’imperatore sulla condotta da tenere riguardo all’oppio, e una volta commissario avrebbe ingaggiato con gli inglesi una battaglia epocale che ancora oggi influisce negativamente sulle relazioni tra Oriente e Occidente.
Il mondo dei commerci in cui operarono Jardin, Jeejeebhoy e Lin funzionava in base a regole e consuetudini che avevano una lunga storia. Nel 1650 la dinastia mancese dei Ch’ing, l’ultima dinastia a governare la Cina, conquistò Pechino e detronizzò i Ming. Una dozzina d’anni più tardi iniziò il regno sessantennale (1662-1722) dell’imperatore Kang-hsi, la controparte asiatica di Luigi XIV. In una prima fase Kang-hsi inverti la politica isolazionista dei Ming e aprì il paese ai mercanti stranieri, ma presto fece retromarcia e impose una serie di restrizioni diplomatiche e commerciali che prese il nome di <>, dal nome della città meridionale in cui furono confinate le attività dei mercanti occidentali. Che Canton fosse il porto d’acque profonde più distante possibile dal potere centrale a Pechino non era un fatto casuale.
All’epoca del primo viaggio di Jardine il principale operatore commerciale europeo all’interno dell’antico sistema era, naturalmente, la Eic (o l’<>, com’era oramai invalso l’uso di chiamarla), il cui monopolio dei traffici con l’Oriente subiva da oltre un secolo la minaccia dei cosiddetti interloper, i mercanti abusivi, sempre più costituiti da ex dipendenti della stessa Compagnia.
Mentre il Diciottesimo secolo volgeva al termine, un nuovo e più potente nemico comparve sulla scena interna inglese a ostacolare i piani dell’Onorevole Compagnia: Adam Smith e i suoi seguaci, che professavano nuova scienza dell’<>. La credibilità di questi studiosi deriva dal fatto di non avere alcun interesse personale nell’antica lotta tra monopolisti e liberoscambisti. Per quanto persuasivi, Thomas Mun e Josiah Child erano stati pur sempre direttori della Compagnia e, in quanto tali, avevano tratto vantaggi dal monopolio che questa teneva sul commercio con l’Oriente ed erano stati danneggiati dal protezionismo delle industrie tessili nazionali. Ma adesso avveniva che alcuni rispettati studiosi, senza interessi finanziari sull’esito del dibattito, presentassero solide argomentazioni in favore del libero scambio. La convincente analisi sulle attività della Eic operata da Smith avrebbe finito per dare il colpo di grazia al monopolio orientale della Compagnia. La Eic non era soltanto la più grande impresa commerciale del mondo, ma anche un monopolio della corona. Un sorprende, quindi, che l’economista si diffondesse a lungo sull’argomento.
Per comprendere l’analisi di Smith della politica della Compagnia in India, come pure dei suoi commerci con la Cina, è necessario possedere alcuni elementi di storia indiana. Nel 1757 un giovane spavaldo colonnello chiamato Robert Clive sconfisse il nawab moghul del Bengala e i suoi alleati francesi nella battaglia di Plassey (località circa 150 km a nord dell’odierna Calcutta). La vittoria procurò alla Eic i primi possedimenti territoriali significativi nel subcontinente (un’area corrispondente grosso modo all’odierno Bangladesh e i territori adiacenti dell’India orientale, per un’estensione complessiva pari circa a quella del New Mexico). Ma quel che è più importante è che, conquistando la regione, Clive ereditò anche l’antico diwani moghul, il diritto del sovrano di raccogliere le tasse, che a quel tempo non consistevano di denaro ma di una parte dei prodotti della terra, soprattutto cotone. La Compagnia governava con una piccola porzione del continente indiano e saggiamente, data l’insufficienza del suo personale, lasciò intatto l’apparato istituzionale moghul. In una delle direttive emanate dalla Eic scorgiamo un chiaro segno del blando controllo che la compagnia esercitava a livello locale:<>.
Ma meno di vent’anni dalla battaglia di Plassey, Adam Smith descrisse il Bengala come una società in declino e la sua infelice popolazione costretta <>. La responsabilità di questo triste stato di cose, secondo l’economista, ricadeva direttamente sull’Onorevole Compagnia. Il compito di un governo, affermava Smith, è quello di prendersi cura del proprio popolo e di fare in modo che un gran numero di imprese competono tra loro per allargare gli affari e attrarre capitale di investimento, precisamente le cose che i monopoli vogliono evitare. Lasciare il governo di un paese in mano a un monopolio, dunque, vuol dire andare incontro a un sicuro disastro, come quello che si verificò allorché la Compagnia decise d’imporre limitazioni sul commercio di riso nel Bengala determinando una carestia che uccise un sesto della popolazione.
Per quanto riverito oggi, ai suoi tempi Smith era solo un pensatore tra tanti, con poca influenza diretta sulla politica. La vittoria del libero scambio nell’Inghilterra del Diciannovesimo secolo non sarebbe stata ottenuto dagli economisti, ma dei loro seguaci, i pratici capitani d’industria della Rivoluzione industriale,i proprietari delle fabbriche di Manchester, i quali avevano tutto l’interesse a promuovere l’apertura dei mercati internazionali ai loro prodotti economici.
La prima schermaglia si verificò in occasione del rinnovo della patente della Eic, il Charter Act del 1793, nel quale il parlamento assegnò di controvoglia al commercio dei privati nel suo complesso una miserevole concessione annua di tremila tonnellate (circa 15 carichi di nave). Il <> di Napoleone, che proibiva agli alleati della Francia di commerciare con l’Inghilterra, fu contrastato dai famigerati <> del 1807 e 1809, che obbligavano tutto il traffico diretto in Europa a fare scalo prima in Gran Bretagna. I provvedimenti portarono alla cosiddetta <> con gli Stati Uniti, che interruppe il flusso di cotone americano in Inghilterra. L’improvvisa condizione di dipendenza dal costoso cotone del monopolio della Eic fece infuriare i proprietari dei cotonifici del Lancashire. Nel giugno del 1812 il parlamento revocò le ordinanze, ma era troppo tardi per fermare la guerra con gli americani, ragione per cui nel luglio del 1813 votò la fine del monopolio della Eic in India. Dato che a quel tempo né mercanti privati né gli industriali del Lancashire avevano particolari interessi in Cina, la Compagnia conservò questa parte e del suo monopolio e il sistema di Canton poté funzionare per altri vent’anni.
Il sistema di Canton imponeva ai mercanti europei di trattare i loro affari unicamente con una corporazione di mercanti autorizzati (chiamati <>) e di restare all’interno di una minuscola colonia a loro destinata non più grande di alcune centinaia di metri quadrati. Qui, inoltre, gli stranieri non potevano soggiornare in permanenza, ma soltanto nei mesi che separavano il monsone estivo dal monsone invernale, con i quali rispettivamente arrivavano e partivano.
L’estuario del fiume delle Perle forni il palcoscenico geografico in cui ebbe luogo il grande dramma che avrebbe guastato le relazioni tra Oriente e Occidente. Avvicinandosi a Canton dal mare, la prima cosa che un marinaio scorge è un gruppo di isole che proteggono l’entrata di un golfo larga circa una trentina di chilometri. Sull’estremità occidentale dell’imboccatura si trova la piccola penisola di Macao, la stazione commerciale dei portoghesi, mentre sulle estremità orientale sono collocate l’isola di Lantau e l’isola di Hong Kong, con il suo splendido porto. Il golfo si addentra nella terraferma per una sessantina di chilometri in direzione nord e più o meno al suo centro si erge l’isola montagnosa di Lingdin, luogo ideale per il contrabbando.
Nella parte più interna del golfo si trova l’imboccatura del fiume delle Perle (chiamata <> in cinese, <> in inglese). Qui l’imperatore aveva collocato un impressionante spiegamento di artiglieria per impedire che le navi dei nemici e dei pirati risalissero il fiume fino a Canton. Le postazioni presentavano un solo problema: le bocche da fuoco erano ancorate al terreno su supporti fissi. In altre parole, non potevano essere puntate. Come si espresse uno storico, <>, un difetto che si palesò in maniera drammatica durante le guerre dell’oppio. Oltrepassata la foce, il fiume piega verso nord per una sessantina di chilometri e quindi a ovest, raggiungendo Canton. Lungo il suo corso si trovano numerose isole piatte, la più importante delle quali era Whampoa, appena a est di Canton, dove il sistema di Canton imponeva che le navi straniere ancorassero e trasferissero i loro carichi su piccole giunche.
Le barriere tra Oriente e Occidente in Cina non erano solo di natura geografica. Da un punto di vista formale, la nazione asiatica non era per nulla impegnata nel commercio: le merci ricevute venivano considerate piuttosto come tributi all’imperatore, il quale ricambiava elargendo doni ai postulanti stranieri. In pratica lo scambio tributi-doni assomigliava parecchio al commercio che avveniva in tutti gli altri empori asiatici. La Cina cadde nel clamoroso equivoco di considerare l’Inghilterra uno stato vassallo qualunque, alla stregua del Siam, un errore che finì per costarle caro.
I malintesi commerciali e diplomatici tra le due nazioni potevano avere risvolti tragici e comici allo stesso tempo. Nel 1793, quando Giorgio III inviò Lord George Macartney a Pechino come ambasciatore, i cinesi appresero sull’imbarcazione fluviale del diplomatico un cartello che qualificava la spedizione:<>. Contrariamente a quanto vuole la leggenda Popolare, Macartney acconsentì a fare il kowtow (un elaborato gesto rituale che consisteva nell’inchinarsi, inginocchiarsi e toccare il pavimento con la fronte nove volte), tuttavia pretese che i cortigiani dell’imperatore facessero altrettanto di fronte a un ritratto del monarca britannico, fornito dallo scrupoloso ambasciatore per l’occasione. Inorriditi, i cinesi rifiutarono cortesemente la proposta, e fu così che quel giorno nessuno eseguì la cerimonia del kowtow.
Se alcuni europei arrivavano a impadronirsi de.i dialetti cinesi, quasi mai avveniva l’opposto. Il commissario Lin, per esempio, ebbe al suo servizio i migliori traduttori di cui poteva avvalersi, ma gli esami che sono stati condotti in seguito sul loro lavoro hanno mostrato che la lingua da essi utilizzata aveva tutte le caratteristiche di un pidgin. Ma al di là di tutto, quello che divideva Cina e Gran Bretagna era un abisso culturale e sociale. Basti pensare che nell’Inghilterra del Diciottesimo secolo i mercanti erano arrivati a occupare i gradi più alti della società, mentre in Cina da millenni venivano considerati alla stregua di canaglie.
Dall’inizio il sistema di Canton si adattò bene alla Eic. Da una parte gli hong detenevano l’esclusiva del commercio cinese, dall’altra la Compagnia, avendo estromesso con successo portoghesi e olandesi dalla Cina nel secolo precedente, controllava tutto il traffico che proveniva dall’Europa. Ne risultava una situazione in cui i due monopoli si incastravano perfettamente, come le tessere di un puzzle.
Ma sotto l’apparenza non tutto funzionava alla perfezione. Se la Eic poteva finanziare le sue operazioni attingendo al vasto capitale disponibile a Londra, diversa era la situazione della Cina, la cui società poggiava su un’economia di sussistenza, con mercati finanziari rudimentali, un capitale limitato e tassi d’interesse esorbitanti.
Gli alti tassi d’interesse rappresentavano un’arma a doppio taglio.
Da una parte essi permisero alla Compagnia, e mercanti privati intervenuti in seguito, di ricavare enormi profitti acquistando denaro a basso prezzo in Inghilterra e vendendolo in Cina a prezzi astronomici. Tuttavia, il fatto di avere partner commerciali in una situazione d’insolvenza cronica e nella costante necessità di essere sostenuti finì per danneggiare la Eic. Anche oggi, il commercio internazionale è un’attività economica estremamente incerta, che non di rado mette gli operatori nella condizione di dover sostenere delle perdite. Un credito adeguato rappresenta per il commercio quello che per un aeroplano è l’alta quota; in sua assenza, le probabilità di avere un incidente sorvolando un terreno commerciale impervio sono grandi. Tutte le imprese prima o poi devono fronteggiare una diminuzione delle vendite o un periodo di mercato debole. Senza ampie riserve di capitale e la possibilità di comprare denaro a bassi tassi di interesse, la bancarotta diventa inevitabile. Allargando un poco la nostra analogia, possiamo dire che il sistema degli hong oltre a essere un aeroplano incapace di sollevarsi a una quota di sicurezza era anche un apparecchio a un solo motore. I cinesi non disponevano di mercati assicurativi efficienti; l’incendio che distrusse Canton nel 1822 mandò in rovina la maggior parte dei commercianti locali.
A metà del Diciottesimo secolo si presentò un problema anche più serio: gli inglesi avevano sviluppato un gusto crescente per il tè, ma allo stesso tempo avevano poche merci che potessero interessare i cinesi. Così si esprimeva nel secolo successivo il commissario del commercio con la Cina Robert Hart:
“I cinesi hanno il migliore alimento del mondo: il riso; la migliore bevanda: il tè; e lo stesso dicasi per gli indumenti, le sete, i cotoni e le pellicce. Disponendo di questi generi di base, ai quali si aggiungono innumerevoli generi accessori prodotti localmente, essi non hanno bisogno di comprare un solo centesimo di merce altrove.”
I ricavi derivanti dal rame e dalle unità meccaniche - le sole cose che la Cina voleva dall’Occidente - non bastavano a pagare neanche una piccola frazione degli acquisti. Se volevano il tè gli inglesi devono pagarlo in argento. Gli archivi della Eic mostrano che nel Diciottesimo secolo circa il novanta per cento del valore complessivo delle esportazioni inglesi in Cina era costituito da metalli preziosi. Nel 1751, per esempio, quattro navi inglesi arrivarono in Cina recando a bordo un carico di merci di scambio e di argento per un valore, rispettivamente, di 10.842 e 119mila sterline.
Se non tenevano in gran conto le mercanzie inglesi, i cinesi però bramavano il cotone indiano, una merce che la Eic possedeva ora in abbondanza, grazie al diwani moghul vinto a Plassey. In Cina la coltivazione del cotone aveva una tradizione millenaria, ma prima del 1800 la produzione interna era stata inadeguata rendendo necessaria l’importazione di cotone grezzo e calicot dall’India. Fu così, perciò, che un sistema triangolare, simile a quello dell’Atlantico, cominciò a svilupparsi; prodotti manifatturieri inglesi in India, cotone indiano in Cina e tè cinesi in Inghilterra. Allo stesso tempo l’Inghilterra cominciò a esportare in India e in Cina una quantità crescente della produzione cotoniera delle sue nuove Industrie del Lancashire.
Tuttavia, nel decennio 1820-1830 la domanda cinese di cotone subì una flessione dovuta alle difficoltà economiche del momento e all’aumento della coltivazione interna. Costretti ancora una volta a scambiare il prezioso argento per il tè, gli inglesi rivolsero la loro attenzione a un’altra cultura del diwani, l’occhio, i cui principali centri di produzione si trovavano nei territori attorno a Patna e Varanasi conquistati da Clive nel 1757.
Da millenni gli uomini essiccano la resina del papavero comune (Papaver somniferum) per produrre l’oppio. Come è il caso di molte specie utilizzate nell’agricoltura moderna, il papavero è un cultivar che non cresce facilmente allo stato spontaneo, il che indica che le società agricole prendono le droghe sul serio quanto gli alimenti.
È probabile che la prima produzione di oppio per il consumo abbia avuto luogo nell’Europa meridionale. È noto che i greci e romani ne fecero ampio uso. I commercianti arabi trasferirono Il papavero nei terreni e nei climi più ospitali della Persia e dell’India, e quindi in Cina, dove l’uso della sostanza è attestato già nell’Ottavo secolo dopo Cristo.
Per quasi tutta la storia documentata non si registra alcun biasimo particolare associato al consumo dell’oppio come antidolorifico, rilassante, lenitivo e facilitatore della socializzazione. I primi ad assumere la droga per via inalatoria furono gli olandesi di stanza in Indonesia, i quali all’inizio del 1600 cominciarono ad aggiungere alcuni grani di oppio a un recente prodotto di importazione del nuovo mondo: il tabacco. I cinesi probabilmente acquisirono questa sostanza dalla base olandese a Formosa, da dove la pipa da oppio si diffuse nel continente. Di un commercio di oppio a Malacca parla Pires già nel 1512, secoli prima che i britannici e gli olandesi si dedicassero a questa attività. Ciò indica che la droga era assai diffusa nei mercati dell’oceano Indiano assai prima che gli inglesi arrivassero a ottenere il controllo del suo smercio.
Gli europei del Diciannovesimo secolo ingerivano enormi quantità di oppio, a differenza dei cinesi che le fumavano. Poiché l’assorbimento per inalazione crea una dipendenza maggiore, la sostanza era considerata molto più pericolosa in Cina che in Occidente. In Inghilterra le associazioni di orticoltura assegnavano premi ai papaveri più rigogliosi coltivati sul suolo nazionale (sebbene la maggior parte dell’oppio usato in Gran Bretagna provenisse dalla Turchia) e l’oppio veniva consumato senza remore di sorta da persone di tutti i ceti sociali, tra cui spiccano i casi di Samuel Taylor Coleridge (Kubla Khan) Thomas de Quincey (Confessioni di un mangiatore d’oppio) e il personaggio inventato da Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes. In Inghilterra la droga poteva essere acquistata liberamente fino al Pharmacy Act del 1868, che ne limitò la vendita alle farmacie, mentre nelle altre nazioni occidentali le restrizioni furono introdotte intorno al 1900.
All’epoca in cui la Eic entrò in possesso del Bengala i portoghesi trasportavano oppio da Goa a Canton già da qualche tempo. Le autorità cinesi proibirono l’uso della droga per la prima volta nel 1729, ma le ragioni che le spinsero al provvedimento furono tutt’altro che chiare. Alla fine del Diciottesimo secolo la Eic non poteva mostrare alcun coinvolgimento diretto nel trasporto di oppio in Cina, cosa che le avrebbe attirato l’ira dell’imperatore. Per ovviare alla difficoltà, l’Onorevole Compagnia, per dirla con le parole dello storico Michael Greenberg, <>.
La strategia fu quella di operare una stretta sorveglianza sulla produzione e di mantenere un controllo totale sul prezzo e la qualità all’estremità indiana della catena di approvvigionamento. I marchi di fabbrica di Patna e Varanasi (dal nome delle città dell’India settentrionale e che ospitavano le principali agenzie dell’oppio della Compagnia) divennero sinonimi di eccellenza presso i consumatori cinesi e per questo motivo le scatole d’oppio che li recavano impressi costavano di più.
La Eic vendeva il suo costoso prodotto di marca ai commercianti privati come Jardine, i quali lo trasferivano nell’isola montagnosa di Lingdin, nell’estuario del fiume delle Perle, intorno alla quale erano ancorati alcuni scafi in disarmo facilmente difendibili che servivano loro da basi alternative alle banchine fluviali di Whampoa, dove venivano scaricate le merci autorizzate. Contrabbandieri locali risalivano il fiume con la merce illudendo i controlli degli ispettori della dogana. I mercanti privati cedevano la merce ai contrabbandieri in cambio di argento cinese, che negli uffici della Eic veniva commutato in certificati riscuotibili presso le sedi contabili della Compagnia Calcutta e Londra. A sua volta, la Eic utilizzava l’argento ottenuto dai mercanti privati per comprare tè.
L’immagine diffusa di un’intera popolazione di un’economia devastate dall’oppio è un’idea errata. Innanzitutto va detto che la droga era molto cara e dunque in prevalenza appannaggio di mandarini e delle élite mercantini. C’è poi da aggiungere che l’oppio, come l’alcool, creava dipendenze disastrose soltanto in una piccola percentuale dei suoi consumatori. Persino le famigerate fumerie non erano all’altezza della loro losca reputazione, come scoprì un deluso Somerset Maugham:
“Quando un mellifluo eurasiatico mi condusse in una fumeria d’oppio, la stretta scala a chiocciola per la quale mi fece strada bastò a farmi immaginare chissà quali esperienze eccitanti. Fui introdotto in una stanza abbastanza pulita, vivacemente illuminata, divisa in scomparti, il cui pavimento rialzato coperto di stuoie formava un comodo divano. In un separè un anziano signore dai capelli grigi e dalle bellissime mani leggeva tranquillamente il giornale, con la lunga pipa posata accanto [...] [In un altro separè c’erano] quattro uomini accovacciati attorno a una scacchiera, e un po’ più in là un uomo che cullava un neonato [...]. Era un luogo allegro, comodo, domestico e accogliente. Mi ricordò in qualche modo le piccole birrerie intime di Berlino dove i lavoratori stanchi potevano rifugiarsi la sera a passare un’ora tranquilla.”
Le ricerche condotte sul consumo dell’oppio confermano le osservazioni di Maugham: si trattava di una droga prevalentemente sociale, che danneggiava solo una piccolissima parte di quanti ne facevano uso. Secondo i calcoli di uno studioso contemporaneo, nel 1879 in Cina metà degli uomini e un quarto delle donne facevano uso occasionale di oppio, ma soltanto un consumatore su cento ne inalava una quantità tale da metterlo a rischio di dipendenza.
L’imperatore e i mandarini espressero sdegno morale per gli effetti debilitanti dell’oppio, ma più di tutto ciò che li assillava erano i danni recati alla bilancia commerciale. La Cina, infatti, si atteneva ai principi del mercantilismo europeo con la stessa fedeltà di qualunque nazione occidentale. Prima del 1800 il commercio del tè aveva favorito nettamente, almeno dal punto di vista dell’ideologia mercantilista, i cinesi. Il 1806 è l’anno in cui, secondo i documenti della Eic, il flusso d’argento invertì direzione. Dopo quella data, infatti, il valore delle importazioni d’oppio cinesi superò quello delle esportazioni di tè, e l’argento cominciò per la prima volta a uscire dal Celeste Impero. Dopo il 1818 l’argento costituì un quinto del valore complessivo delle esportazioni cinesi.
Nelle cellule 1820-1830 un potente gruppo di mandarini cominciò a sostenere la legalizzazione dell’oppio come mezzo per ridurne il prezzo e arrestare il deflusso d’argento. Uno di loro, Hsü Nai-chi, scrisse un promemoria per l’imperatore osservando che se alcuni consumatori erano senz’altro debilitanti dalla droga, il danno che le finanze della nazione subivano a causa della proibizione era assai maggiore. Il funzionario raccomandò perciò l’oppio fosse legalizzato, a condizione che esso non venisse acquistato con argento ma soltanto attraverso il baratto (presumibilmente in scambio di tè). L’ampia diffusione che il promemoria ebbe tra i commercianti stranieri di Canton fece nascere in quest’ultimi la speranza che la legalizzazione fosse imminente. Ma dopo un’aspra battaglia alla corte imperiale la proposta di Hsü fu respinta.
All’inizio dell’Ottocento i britannici controllavano soltanto una piccola parte del subcontinente indiano, perciò non passò molto tempo prima che alcuni mercanti parsi, in particolare Jamsetjee Jeejeebhoy, cominciassero a eludere il monopolio della Eic in Bengala e a organizzare trasporti di malwa dai porti del Malabar e del Gujarat. (Il termine malwa indicava genericamente l’oppio che non apparteneva alla Eic e che veniva spedito dai porti occidentali dell’India, in contrapposizione ai pani marchiati Eic di Patna e Varanasi che venivano esportati dal porto orientale di Calcutta). Tuttavia, da ultimo la compagnia comprese il vantaggio di centralizzare le spedizioni di malwa nelle sue comode banchine di Bombay e a partire dal 1832 iniziò a percepire una moderata tariffa di transito dai commercianti locali.
All’inizio del Diciannovesimo secolo alcune crepe avevano cominciato a manifestarsi nel monopolio dell’Onorevole Compagnia. Oltre a usare mercanti privati per trasportare l’oppio in Cina, la Eic autorizzò per la prima volta alcuni operatori privati del country trade a condurre traffici a Whampoa, avvalendosi semmai delle prerogative rimastele per tenere questi imprenditori sotto il proprio tallone. Alcuni mercanti di pellicce americani, guidati da John Jacob Astor, forzarono i primi varchi apertisi nel sistema monopolistico inglese con pelli di foca e di lontra provenienti dal Pacifico nord-occidentale, articoli tenuti in gran conto in Cina. La Eic, timorosa di urtare la combattiva e imprevedibile nazione indipendente che aveva inferto una bruciante sconfitta alla madrepatria durante la guerra rivoluzionaria, lasciò gli americani operare indisturbati.
Prima ancora della comparsa sulla scena degli ex coloni, alcuni altri mercanti privati avevano trovato un espediente per aggirare il monopolio della Eic: la copertura diplomatica. Nel 1780 l’inglese e Daniel Beale partì per la Cina sotto bandiera austriaca e con la nomina a console di Prussia. Della carica si sarebbe servito per operare liberamente nel country trade tra la Cina e l’India al di fuori del controllo della Eic. Un altro inglese, John Henry Cox, grande importatore di congegni musicali in Cina, tentò di sfuggire alle interferenze della Eic facendosi nominare ufficiale della marina svedese, ma poiché la Eic si ostinava a rifiutare alla sua nave l’ingresso a Canton, Il mercante issò la bandiera prussiana al posto di quella svedese. La Polonia, la Danimarca, la repubblica di Genova e il regno di Sicilia si prestarono gentilmente (e, con tutta probabilità, dietro lauto compenso) a estendere i loro privilegi diplomatici ai commercianti inglesi.
Nel 1817 Jardine tornò a Londra e lasciò il servizio della Compagnia da uomo ricco. Qui entrò in società con Thomas Weeding, anche lui un ex chirurgo della Eic, il quale aveva ottenuto una preziosa licenza per operare da privato nel country trade. I due unirono le forze con un parsi di Bombay, Framjee Cowasjee, e nel 1819 Jardine partì per Bombay, dove allestì un carico di 649 casse di malwa che la società vendette poi a Canton per 813mila dollari (d’ora innanzi in questo capitolo parlando di dollari intenderemo i pezzi da otto real, o dollari spagnoli, al cui interno era lo stemma da cui probabilmente origine il simbolo <<$>>). Questa sarebbe stata la prima di molte lucrose imprese nel contrabbando compiute da Jardine. A Bombay lo scozzese riallacciò i rapporti con Jeejeebhoy, con il quale gettò le basi di una lunga e proficua relazione d’affari. Sempre a Bombay, inoltre, conobbe James Matheson, con il quale in seguito avrebbe dato vita alla grande società commerciale che ancora oggi porta il nome dei suoi fondatori: la Jardine Matheson & Co.
Matheson proveniva da una famiglia scozzese provvista di mezzi sufficienti da consentirgli di ottenere l’indispensabile licenza per operare privatamente nel country trade, grazie alla quale evitò il lungo apprendistato nella Compagnia a cui si era sottoposto Jardine. In seguito Matheson ottenne la carica di <> a Canton, liberandosi in tal modo dalle ultime restrizioni cui era soggetta la sua licenza.
A Matheson si deve anche l’invenzione di un sotterfugio che avrebbe in seguito assunto un’importanza generale. Se trasportare merci direttamente dall’India la Cina costituiva una violazione del monopolio della Eic, sul piano legale nulla vietava che i mercanti privati spedissero il loro merci da, per esempio, Calcutta allo stretto di Malacca, o dallo stretto di Malacca a Canton. L’astuto scozzese fu il primo ad approfittare di questa scappatoia e nel 1822 cominciò a trasbordare i suoi carichi da una nave all’altra nel porto di Singapore, la colonia fondata solo tre anni prima da Ramford Raffles in un’isola paludosa e malarica.
Grazie alle sue ricchezze Matheson ebbe tutto l’agio di dedicarsi agli studi e al giornalismo. Come molti mercanti giovani intraprendenti del suo tempo, lo scozzese fu un seguace dell’ideologia del libero scambio propugnata da Adam Smith in La ricchezza delle nazioni. Nel 1827 fondò il primo giornale anglofono della Cina, il Canton Register, un foglio che pubblicava notizie relative al commercio marittimo locale, tabelle dei prezzi dell’oppio, ed editoriali contro la tirannia della Eic. In quello stesso anno, Matheson, a seguito della morte del suo primo socio, lo spagnolo Xavier Yrissari, informò i clienti cinesi che da quel momento in poi la direzione generale degli affari sarebbe passata nelle mani di William Jardine. Nel 1830 la nuova ditta Jardine Matheson & Co. contrabbandava in Cina cinque mila casse d’oppio all’anno e, come ogni giovane vigorosa organizzazione che si rispetti, perseguiva l’efficienza in ogni aspetto dell’attività.
Toccò a una figura notevole di linguista e medico missionario in forza alla Jardine Matheson & Co., il tedesco Karl Friedrich August Gutzlaff, mandare a pezzi il sistema di Canton. Il risultato fu ottenuto mediante l’attività di piccole imbarcazioni contrabbandiere che battevano la costa cinese fino alla Manciuria vendendo malwa ai mercanti locali in aperta sfida alle autorità cinesi. Gutzlaff era un luterano della Pomerania dallo spirito ardentemente anglofilo che parlava la maggior parte dei dialetti cinesi. Nel corso della sua vita sposò consecutivamente tre donne inglesi e credette fermamente nella capacità del commercio di salvare le anime dei pagani cinesi. Sfortunatamente per la sua reputazione postuma, lo strumento di ritenzione da lui scelto fu l’oppio.
Lo storico Karl A. Troki fa rivivere nel passo seguente alcuni momenti delle attività quotidiane di un clipper costiero dell’oppio. Dopo aver gettato l’ancora in un golfo riparato la nave fu
“[...] praticamente invasa di cinesi, e [il capitano], lo shroff [un saggiatore e cambiatore di monete] e un altro europeo stettero alzati per un buona parte della notte a vendere oppio <>. Nell’attesa del loro turno, alcuni fumavano oppio finendo per addormentarsi sul divano della cabina, altri di tanto in tanto ne approfittavano per farsi un sonnellino sul pavimento, mentre intorno a loro l’abaco sferragliava e i cinesi e gli europei comunicavano a segni. In quattro giorni l’equipaggio vendette oppio per il valore di circa duecento mila dollari.”
Nonostante la continua perdita di quote di mercato a favore dei mercanti privati, in questo periodo la Eic sperimentò una tecnica innovativa nel campo della navigazione destinata ad avere importanti ripercussioni economiche e storiche. Da quando era stata scoperta, circa duemila anni prima, la navigazione monsonica aveva consentito ai marinai di effettuare nello stesso anno un solo viaggio completo tra Indie e Cina. A superare questa limitazione non si arrivò con la nuova tecnologia del vapore, ma piuttosto con scafi e vele di nuova concezione. Durante la guerra del 1812 gli americani misero in campo un veliero rivoluzionario la cui velocità consentiva ai loro corsari di saccheggiare i mercantili inglesi e di sfuggire ai blocchi navali: il Baltimore Clipper. Il più famoso della serie, il Prince de Neufchatel, catturò numerosi mercantili britannici prima di essere messo all’angolo da tre fregate della Royal Navy giusto alla fine del conflitto. I britannici trainarono il clipper in un bacino di carenaggio e studiarono i segreti della sua velocità: uno scafo stretto e slanciato (che manteneva la nave dritta anche quando soffiavano i venti più forti) e un’immensa e tesa superficie velica, caratteristiche che troviamo anche negli odierni yacht da regata. L’errore fatale commesso dal capitano del Prince de Neufchatel, in realtà, era stato quello di aver sovraccaricato l’imbarcazione con un peso eccessivo di vele, le quali dovettero essere ammainate nelle condizioni di tempo burrascoso che prevalsero durante l’ultimo combattimento.
I dettagli costruttivi del clipper arrivarono infine nelle mani di un comandante della Royal Navy di nome William Clinton. Una volta lasciata la marina, l’ufficiale passò a comandare le navi della Eic e comprese che lo scafo filante e le vele tese che caratterizzavano il Baltimore Clipper erano proprio i requisiti che servivano alla nave per vincere il monsone. Nel 1829 la Eic, con il sostegno del governatore generale del Bengala, Lord William Bentinck, commissionò la produzione del Red Rover, un’imbarcazione di 225 tonnellate che combinava uno scafo analogo a quello del Baltimore Clipper alla configurazione velica del brigantino a palo, preferita dalla marina militare inglese. Il 4 gennaio 1830 l’agile veliero di nuova fabbricazione si staccò dai suoi ornamenti sul fiume Hooghly e procedette sottovento verso Singapore, dove arrivò in appena sedici giorni. Dopo nemmeno una settimana la nave riprese al mare verso nord e navigando contro il monsone arrivò a Macao in soli ventidue giorni. Clifton non si fermò qui e nel giro di un anno portò a termine tre viaggi d’andata e ritorno tra l’India e la Cina, imprese che gli valsero il plauso della Eic e un premio di diecimila sterline. Il Red Rover trovò la sua fine, e con esso tutto il suo equipaggio, nel 1853, nelle acque in tempesta del golfo del Bengala. La sua fu una carriera insolitamente lunga tra i Clipper che operavano in Cina, i quali passavano gran parte del tempo a lottare contro la violenza dei monsoni.
Queste imbarcazioni non erano certamente a buon mercato. Uno di essi, il Lanrick, costò alla Jardine Matheson 65mila dollari, ma poteva trasportare 1250 casse di oppio, che portava 25mila dollari a viaggio. In questo modo, al termine del terzo viaggio completo, vale a dire nel giro di un anno, il prezzo d’acquisto della nave risultò ammortizzato.
Per quanto fosse stata la Eic a introdurre i clipper nel commercio cinese, alla fine furono le società private a sfruttare al meglio il potenziale dei nuovi velieri. La Jardine Matheson e altre imprese impegnate nel country trade avevano imparato che era più redditizio operare come intermediari e fungere da tramite tra i venditori di malwa a Bombay e i compratori dell’isola di Lingdin. La commissione di venti dollari a cassa garantiva un profitto più sicuro della compravendita in proprio.
Nel 1830 una coalizione di mercanti del country trade e di industriali di Manchester, guidata da un intraprendente Jardine, considerò l’imminente scadenza della concezione della Eic e rivolse un appello al parlamento per l’istituzione di un <>. Adeguandosi allo spirito dei tempi, il parlamento accondiscese alla richiesta. Infine, nell’aprile del 1834, il monopolio della Eic sul commercio orientale decadde in modo permanente. Quasi immediatamente i mercanti privati, che già controllavano il traffico dell’oppio, si impossessarono del venerando e redditizio commercio del tè, l’ultimo prodotto importante di cui la Compagnia aveva ancora l’esclusiva.
Quanti cambiamenti erano avvenuti nello spazio di 150 anni. Nel 1700 l’Onorevole Compagnia era all’avanguardia del libero scambio, mentre l’industria tessile inglese, seguendo una politica protezionistica, cercava di conservare il proprio vacillante monopolio. All’inizio del Diciannovesimo secolo le posizioni si erano invertite: una Eic sclerotizzata cercava disperatamente di difendere la propria rendita di posizione, mentre i produttori di cotone spingevano in favore di un commercio libero da restrizioni, prevedendo che <>. Prima del 1700 il credo globalista di Child e Martyn aveva ottenuto un favore pubblico notevolmente basso, ma nel 1830 i principi del libero scambio di Adam Smith, impersonificati da William Jardine e James Matheson, erano ormai trionfanti. Prima dell’arrivo degli europei, i centri commerciali dell’oceano Indiano avevano avuto a che fare con mercati sostanzialmente aperti. Adesso l’Occidente, forte delle sue nuove e superiori tecnologie militari e marittime, avrebbe abbandonato la consueta via dei monopoli armati e abbracciato il libero scambio, sia che indiani e cinesi lo volessero o no.
L’anno 1828, rispetto al quale disponiamo di una documentazione particolarmente buona, ci fornisce un quadro indicativo del commercio con la Cina nel periodo subito a ridosso dell’abolizione del monopolio della Compagnia. Dei circa venti milioni di dollari di merce che entrarono a Canton, più di tre quarti furono trasportati dai mercanti privati del country trade, e di esse tre quarti erano oppio. In altre parole, l’oppio costituiva più della metà del commercio inglese e la fetta più grossa del traffico era in mani private. Sempre in quell’anno, le importazioni dalla Cina della Eic consistettero per oltre il 99 per cento di tè, un prodotto che prima del 1834 i mercanti privati, che venivano pagati principalmente in argento, non ebbero il permesso di trattare.
Dopo il 1834, venuto meno il monopolio della Eic, i mercanti privati allargarono il raggio delle loro attività. Adesso essi erano liberi di ignorare il sistema di Canton, il rispetto del quale era stato imposto dalla Eic non meno energicamente che dall’imperatore. Gli agili e veloci clipper si rivelarono perfetti per il trasporto di merci pregiate come l’oppio e il tè-. Alla fine del decennio 1820-1830, grazie a queste navi, le società come la Jardine Matheson furono in grado di controllare sia L’antico country trade sia il nuovo traffico costiero aperto da Gutzlaff. Tra il 1800 e il 1825 l’importazione d’oppio era cresciuta a un ritmo relativamente lento, passando da circa quattro mila casse all’anno a circa diecimila. Ma quando le imprese private assunsero il controllo degli scambi con la Cina, il volume del commercio lievitò, raggiungendo le quarantamila casse annue alla fine del decennio 1820-1830.
Il commercio inglese con la Cina era stato regolato da un comitato ristretto della Eic. Cessato il monopolio, l’incarico passò a sovrintendenti di nomina reale, fortemente condizionati nel loro operare dai potenti mercati privati e dall’avversione che costoro nutrivano verso il governo cinese. Le disavventure in cui incolse il primo sovrintendente, l’inetto Lord William Napier, sono emblematiche del divario culturale che separava la Cina e l’Occidente. Senza annunciarsi ufficialmente alle autorità locali, il 25 luglio del 1834, alle due del mattino, Napier arrivò nell’industria della Eic a Canton; e ancora prima che facesse giorno fece issare la Union Jack, cosa che i cinesi intesero come un grave affronto. Questo fu solo l’inizio di una serie di passi falsi. Come mossa successiva, Napier fece tradurre in cinese una lettera di presentazione che fece recapitare al governatore generale della città. Fu così che, nello spazio di appena quarantotto ore dal suo arrivo, il sovrintendente aveva violato diversi editti imperiali che regolavano la condotta dei <> in Cina: aveva risalito il fiume fino a Canton senza autorizzazione, preso residenza in città, consegnato direttamente una lettera al governatore( senza passare attraverso i mercanti hong) e scritto la missiva in cinese (invece che in inglese). Per tutta risposta, i cinesi ignorarono Napier, interruppero ogni commercio con gli inglesi e fecero fuoco sulle loro navi. Jardine e gli altri mercanti privati, che avevano aizzato Napier, compresero di avere sopravvalutato le loro carte e ammansirono i cinesi negoziando una rapida uscita di scena dello sfortunato inviato.
Passarono quattro anni e questa volta fu l’imperatore a sbagliare la misura, quando nominò alla carica di commissario il brillante ma egualmente malaccorto Lin, ponendo così le premesse di uno scontro tra i due governi dalle conseguenze assai più disastrose. Già prima della nomina di Lin, le autorità cinesi avevano incominciato a incarcerare un gran numero di contrabbandieri locali, provocando un’interruzione del traffico di oppio. Nel marzo del 1839 Lin aumentò la pressione rendendo i mercanti privati penalmente responsabili di ogni trasporto illecito. Di lì a poco il commissario ordinò la decapitazione di alcuni commercianti di oppio cinesi sotto gli occhi atterriti degli europei, e quindi ordinò che tutti i residenti stranieri (inglesi, americani, parsi e francesi) fossero trattenuti in ostaggio nelle rispettive industrie, obbligandoli al termine di diverse settimane a consegnare più di ventimila casse d’oppio. Solo dopo che l’immenso bottino fu distrutto dall’esercito di Lin gli stranieri poterono riottenere la libertà.
Il nuovo soprintendente al commercio, Charles Elliot, era un capitano in congedo della Royal Navy e un veterano delle pattuglie navali britanniche che contrastavano il traffico degli schiavi nell’Africa occidentale (a un certo punto della sua carriera aveva ricoperto l’incarico di <> nella Guyana britannica). Rigido calvinista che deplorava l’oppio, nell’esercizio delle sue funzioni ufficiali Elliot mostrò sufficiente elasticità da tenere da parte i propri convincimenti religiosi e placare i sempre più disperati mercanti privati stabilendo indennizzi per l’oppio confiscato. La mossa coinvolse il governo inglese direttamente nella mischia.
Ora bastava solo una scintilla. Diversi mesi più tardi, nell’agosto del 1839, avvenne che Lin , in seguito all’omicidio di un abitante di un villaggio da parte di un marinaio inglese ubriaco, tagliasse i rifornimenti di cibo e acqua alle forze navali britanniche e chiedesse che il marinaio fosse consegnato alle autorità locali per essere sottoposto a processo. Elliot respinse la richiesta e sottomise invece l’accusato al giudizio di una giuria britannica formata da mercanti, la quale condannò l’uomo a una multa e un periodo di detenzione di sei mesi da scontarsi in Inghilterra (arrivato in Gran Bretagna, il marinaio fu liberato sulla base del fatto che la giuria, della quale faceva parte James Matheson, era stata costituita in modo irregolare). Il 4 settembre, a mezzogiorno circa, Gutzlaff, per ordine di Elliot, presentò alcune lettere ai comandanti di due giunche cinesi al largo di Kowloon informandoli che se i rifornimenti non fossero stati ripristinati entro trenta minuti gli inglesi avrebbero provveduto ad affondare le loro imbarcazioni. Allo scadere dell’ultimatum né acqua né cibo erano arrivati, ragion per cui la nave cannoniera Volage fece fuoco sulle navi. Come ritorsione, Lin decretò il divieto assoluto e permanente di ogni commercio con la Gran Bretagna e ordinò di far fuoco sulle navi inglesi.
Mentre si svolgevano questi avvenimenti, Jardine e altri reduci del blocco delle industrie di Canton ordinato da Lin fecero ritorno a Londra e, una volta giunti in patria, chiesero al gabinetto del primo ministro whig, Lord Melbourne, di esigere le scuse dei cinesi e di negoziare un tratto trattato più <>, che avrebbe aperto diversi altri porti all’Occidente. Anche i dispacci inviati da Elliot, il cui orgoglio e la cui reputazione erano stati messi a dura prova dall’ottusità di Lin , contribuirono a far sì che nei confronti dei cinesi fosse assunto un atteggiamento fermo.
Jardine e i suoi alleati si raccomandarono inoltre che le loro rivendicazioni ricevessero l’appoggio di un’unità navale. Tutto era pronto, bisognava soltanto trovare un mezzo per finanziare il conflitto. Questo fu trovato da Thomas Babington Macaulay, il ministro della guerra: far pagare ai cinesi le riparazioni di guerra. Melbourne decretò l’invio di un contingente militare formato da una dozzina di navi da guerra e da diverse migliaia di soldati di fanteria. Nel giugno del 1840 le forze britanniche arrivarono a destinazione.
Era iniziata la prima guerra dell’oppio. Il conflitto non si sarebbe chiuso prima del 1842 e del famigerato trattato di Nanchino, in base al quale fu riconosciuto alla Gran Bretagna un risarcimento monetario, fu cancellato il monopolio degli hong, le aliquote delle tariffe cinesi sulle importazioni ed esportazioni vennero fissati su percentuali più basse e, infine, furono aperti al commercio con l’estero il porto di Canton e quattro ulteriori porti (Shanghai, Amoy, Foochow e Ningbo). In queste aree i britannici godevano di un privilegio di extraterritorialità (immunità dalla legge cinese) ed erano governati da consoli inglesi. Nel trattato non si faceva menzione all’oppio, ma fu tacitamente inteso da entrambe le parti che la sua importazione sarebbe proseguita. L’umiliazione del trattato di Nanchino è una ferita che ancora oggi brucia nella coscienza nazionale della Cina. il fatto che a malapena un americano su cento ne abbia mai sentito parlare non è di buon auspicio per le relazioni sino-americane nel Ventunesimo secolo.
Oltre a quanto avevano già ottenuto, gli inglesi si diedero da fare per fondare una colonia permanente. Matheson da tempo aveva messo gli occhi su Formosa, ma da Londra Jardine argomentò che l’isola era troppo grande da pacificare e fece pressione perché fosse scelto il porto di Ningbo. Alla fine nessuno dei due la spuntò: Elliot, che ambiva allo splendido porto di Hong Kong, si adoperò personalmente perché il trattato ne prevedesse la cessione alla Gran Bretagna. Ancor prima della stipula dell’accordo, Matheson trasferì Il quartier generale a Hong Kong, dando avvio alle fortune dell’isola e della sua impresa.
Elliot non era il solo a nutrire dubbi di natura morale sul traffico dell’oppio. Il clero anglicano e il leader dell’opposizione tory, Robert Peel, si mostrarono alla testa di un movimento a esso contrario. Sostenitore più eloquente della causa proibizionista fu un semplice deputato di trent’anni, William Gladstone, la cui sorella era stata distrutta da una dipendenza da oppio. Nel 1840, quando Peel presentò in Parlamento una mozione di condanna dell’attacco alla Cina, il giovane Gladstone pronunciò un appassionato discorso ai Comuni che lo portò alla ribalta della scena pubblica (alcuni decenni più tardi Gladstone avrebbe ricoperto per quattro volte l’incarico di primo ministro).
Nell’Inghilterra di metà Settecento, l’oppio era ancora un innocuo toccasana somministrato ai neonati con le coliche e alle anziane signore per allevare gli acciacchi dell’età. Il nascente movimento proibizionista non poteva competere con quello che lo storico W. Travis Hanes chiamò <>: il consorzio formato da mercanti cinesi e dai loro alleati a Londra guidato da William Jardine.
Dopo la prima guerra dell’oppio il traffico della droga si sviluppò ancor più rapidamente. Nel 1845, per esempio, il revisore generale dei conti della nuova colonia di Hong Kong stimò che in ogni dato momento ci fossero almeno otto clipper impegnati a trasportare oppio in Cina o tè verso l’Occidente, un quarto dei quali appartenevano alla Jardine Matheson. Poco alla volta, la crescente avversione nei confronti dell’oppio che si registrava in Inghilterra andò focalizzandosi contro la società dei due imprenditori scozzesi.
In privato, la Jardine Matheson era soddisfatta dei proventi che realizzava grazie al traffico illecito e temeva seriamente che prima o poi i cinesi mettessero in pratica i ricorrenti propositi di legalizzazione dell’oppio, evento che avrebbe aperto le porte alla concorrenza di <>. I timori si dimostrarono fondati. Nel 1858 il trattato di Tianjin, con il quale si chiuse la seconda guerra dell’oppio, oltre a obbligare i cinesi ad aprire dieci nuovi porti, a pagare ulteriori riparazioni di guerra e a cedere Kowloon, impose anche la legalizzazione dell’oppio. Ciò significa che ora chiunque poteva comprare malwa a Bombay, servirsi di una nave della Peninsular and Oriental Steamship Company per il trasporto e smerciare il prodotto a Hong Kong. Nel giro di alcuni anni, la Jardine Matheson si trovò esclusa dal traffico di oppio grazie all’azione uomini come David Sassoon, un mercante di Bombay, ma originario della comunità ebraica di Baghdad, che grazie alla conoscenza diretta di produttori indiani, alle vaste relazioni d’affari della sua famiglia e alla legalizzazione imposta dal trattato di Tianjin, fu in grado di strappare le redini del commercio dell’oppio dalle mani dei vecchi operatori inglesi del country trade. In tale attività si sarebbero uniti a Sassoon molti commercianti indiani, in particolar modo gli eredi parsi di Jeejeebhoy.
La perdita di posizioni si tradusse per la Jardine Matheson in un vantaggio inaspettato, in quanto la società fu obbligata a diversificare i propri affari. Il volume delle importazioni di oppio raggiunse il suo punto più alto nel 1880 , arrivando a toccare le centomila casse circa all’anno.
I codici morali delle società possono cambiare assai rapidamente. Nel Seicento, per esempio, non c’era europeo, per quanto illuminato, che trovasse qualcosa da ridire sulla schiavitù dei neri; nell’Ottocento erano in pochi in Occidente, e non molti di più in Cina, a rimproverare alla Gran Bretagna il suo traffico d’oppio. Non va dimenticato che al giorno d’oggi il tabacco, che induce una dipendenza altrettanto forte dell’oppio e che è responsabile di molte più morti, viene aggressivamente commercializzato in tutto il mondo delle aziende eredi della Jardine Matheson.
Se l’importazione di un prodotto nocivo come l’oppio non recò nessun vantaggio alla Cina, una merce innocua come il cotone tessuto a macchina viene oggi accusata di aver sprofondato l’India nella povertà. Almeno, questa era certamente l’opinione di Karl Marx quando citò il governatore generale della Eic, William Bentinck: <>. I padri dell’India moderna hanno visto le cose allo stesso modo e lo stesso pensiero nutrono molti indiani ai giorni nostri.
I fatti vengono generalmente presentati a questo modo. Gli inglesi proibirono l’esportazione dei prodotti manifatturieri indiani, autorizzando allo stesso tempo la libera circolazione dei propri prodotti. Il risultato fu la distruzione della celebrata industria tessile indiana. Per usare le parole di Jawaharlal Nehru, padre fondatore dell’India moderna che guidò il primo governo dopo l’indipendenza:
“La liquidazione della classe degli artigiani creò una disoccupazione di proporzioni colossali. Che cosa potevano fare ora le decine e decine di milioni di individui che avevano lavorato nel settore industriale e manifatturiero? A chi potevano rivolgersi? La loro antica professione sbarrava loro le porte, ogni altra strada era loro preclusa. Potevano morire, certo; questa via di fuga da una condizione intollerabile resta sempre aperta. E così morirono, a decine di milioni.”
Marx e Nehru afferrarono un nucleo di verità: nel 1750 l’India forniva circa un quarto della produzione mondiale dei tessuti; nel 1900 tale percentuale si è ridotta a meno del due per cento.
In termini complessivi, tuttavia, la perdita per l’economia indiana fu relativamente modesta, dato che le attività produttive della nazione erano incentrate soprattutto sull’agricoltura: tra i due e i sei milioni di posti di lavoro (il tre per cento, al massimo del totale della forza lavoro), e non le decina e decine di milioni che troviamo nella prosa apocalittica di Marx e Nehru. (A titolo di raffronto, si pensi che durante la Grande depressione la disoccupazione negli Stati Uniti superò il trenta per cento). Addirittura, secondo alcuni storici dell’economia l’industria tessile indiana trasse un vantaggio nel suo sviluppo dalle importazioni di filato inglese, che era più economico e di qualità superiore. È curioso che nella maggior parte delle discussioni sull’argomento non si accenni al fatto innegabile che centinaia di milioni di indiani di qualunque ceto sociale, ebbero il vantaggio di poter vestire i tessuti inglesi, al contempo più economici e di qualità superiore.
Non era l’India a essere diventata più povera; piuttosto era l’Occidente, col suo rapido processo di industrializzazione, a essere diventato immensamente più ricco. Oggi gli storici dell’economia, sia europei che indiani, ascrivono i problemi attraversati dall’India nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo a una serie di fattori che non hanno più relazioni con la politica commerciale britannica: la povertà del suolo, la piaga frequente delle piogge monsoniche, l’inadeguato sistema di trasporti interni, la mancanza di mercati finanziari efficienti e la scomparsa, nel 1707, dell’ultimo grande Imperatore moghul, Aurangzeb.
Regge l’accusa agli inglesi, mossa a suo tempo da Nehru, di aver fatto entrare impunemente le loro merci in India, sbarrando allo stesso tempo la porta al flusso delle esportazioni indiane? Solo in misura relativa: a metà del Diciannovesimo secolo, la maggior parte dei prodotti che gli inglesi esportavano in India erano soggetti a una tariffa del tre e mezzo o sette percento (a seconda che le merci arrivassero su navi britanniche o navi non britanniche). Le tariffe corrispondenti che venivano praticati sui prodotti stranieri (inclusi quelli indiani) scaricati in Inghilterra si aggiravano tra il 15 e il 20 per cento (i prodotti agricoli, come lo zucchero il cotone grezzo indiani, erano tassati in misura molto inferiore). Una situazione siffatta era discriminatoria, certo, ma non proibitiva. Né può essere sostenuto con fondamento che abusando del diwani gli inglesi avessero prosciugato le ricchezze indiane. La parte di questi proventi che i britannici impiegarono in opere pubbliche come la realizzazione dell’imponente sistema ferroviario del subcontinente, fu assai maggiore di quella mai spesa dagli imperatori moghul, con il loro amore per il lusso, in ogni caso le entrate non superavano di molto l’uno per cento del reddito nazionale.
Dopo aver esaminato la mutevole condotta dalla Gran Bretagna rispetto all’oppio cinese e al cotone indiano, passiamo ora all’ultimo e, dal punto di vista storico, più significativo episodio nella storia del libero scambio nel Diciannovesimo secolo: il commercio di cereali tra l’Inghilterra e l’Europa continentale.
Già a partire dal Quindicesimo secolo la corona aveva considerato opportuno regolare nel dettaglio il vitale commercio dei cereali con una serie di corn laws. Nell’inglese comune la parola <> indicava qualsiasi tipo di cereale - l’orzo, la segale e, in modo particolare, il grano (il mais era sconosciuto in Europa prima di Colombo). Tra il 1660, quando cominciamo a disporre di registri pubblici dettagliati, e il 1846, anno della definitiva abrogazione delle corn laws, furono adottate non meno di 127 leggi sui cereali allo scopo di regolare ogni possibile aspetto del commercio di questo e di altri generi alimentari: vendita al dettaglio all’ingrosso, stoccaggio, importazione, esportazione e,questione ancor più cruciale, tariffe statali. La grande battaglia sul libero scambio che divampò nel Diciannovesimo secolo fu sotto molti riguardi uno scontro di idee sulla convenienza di un intervento così invadente da parte del governo in quello che si configurava sempre più come un commercio internazionale.
Fino alla metà del Diciottesimo secolo, l’Inghilterra non traeva la sua ricchezza e potenza dal commercio e dall’industria manifatturiera, ma dalla solidità della sua agricoltura, che nel 1800 era ormai così ben organizzata che occupava soltanto i due quinti della forza lavoro del paese. Durante le agitazioni che contraddistinsero il Diciassettesimo secolo i coltivatori inglesi esportarono pochi cereali. Quando infine, a seguito della Revolutionary Settlement del 1689, pervenne alla pace e alla stabilità istituzionale, l’Inghilterra divenne il granaio dell’Europa settentrionale.
Dopo di che con la stessa velocità con cui si era manifestata, l’eccedenza produttiva scomparve. Quattro eventi erosero quell’abbondanza. Primo, una serie di grandi conflitti travagliarono l’Europa, danneggiando il commercio regionale di cereali. Tra la guerra dei sette anni, iniziata nel 1756, e la fine delle guerre napoleoniche, nel 1815, la condizione dell’Inghilterra fu quella di essere impegnata in un conflitto globale o nei suoi energici preparativi. Secondo, nel Diciottesimo secolo la popolazione della Gran Bretagna quasi raddoppiò, raggiungendo nove milioni di abitanti. Terzo, la rapida industrializzazione avvenuta dopo il 1760 spostò lavoratori e capitali finanziari dalle aziende agricole alle fabbriche. Infine, nel 1756 cominciò una serie di cattivi raccolti che continuò a intervalli, per circa due decenni. Per la maggior parte degli anni che seguirono nel 1780 l’Inghilterra fu un importatore netto di cereali, soprattutto dalla Danimarca, la Polonia e le regioni costiere della Germania. Il 1808 fu l’ultimo anno in cui la Gran Bretagna inviò all’estero una quantità di cereali maggiore di quella acquistata.
Durante gli anni dell’autosufficienza e dell’abbondanza in pochi, anche tra gli agricoltori, avevano prestato particolare attenzione alle leggi sui cereali. Talvolta le leggi favorivano l’aristocrazia terriera imponendo tasse elevate e scoraggiando così le importazioni, o persino prevedendo sovvenzioni per i commercianti che esportavano; talvolta, invece, favorivano le masse urbane facendo esattamente l’opposto. Ma per la maggior parte le leggi erano irrilevanti: l’economia medievale era in larga misura autosufficiente e, in ogni caso, nelle società medievali i funzionari preposti all’applicazione delle leggi erano così pochi rispetto al territorio che raramente essi andavano in giro a far rispettare quelle astruse disposizioni.
L’importanza delle leggi sui cereali aumentò con lo scoppio della guerra dei sette anni, avvenuta nel 1756; la penuria di cibo colpì le città industriali del Nord, motivo per cui gruppi di rivoltosi saccheggiarono i granai e persino i forni. I mercanti di cereali, che per secoli non avevano tenuto conto - se non erano stati addirittura beatamente ignari - delle restrizioni commerciali imposte dalle leggi sui cereali, si trovarono improvvisamente condannati all’impiccagione da tribunali allestiti in fretta e furia (alla fine, la maggior parte di loro fu perdonato o <> in Australia).
Di colpo, la politica agricolo-commerciale occupò la ribalta del dibattito pubblico. Nei decenni che seguirono il parlamento approvò una serie di leggi sui cereali volte ad aumentare le scorte destinate ai consumatori e a salvaguardare gli interessi dell’aristocrazia terriera, di solito senza riuscire in nessuno dei due obiettivi. Dopo il 1793, la guerra con la Francia rivoluzionaria e una serie disastrosa diedero luogo a una nuova penuria di cereali. I prezzi del grado, che nel secolo precedente il 1790 avevano avuto una media di quaranta scellini per quarto di tonnellata balzarono ben al di sopra dei cento scellini, come mostra il grafico 11-1. Il 29 ottobre 1795, quando il re si recò a pronunciare il discorso inaugurale in parlamento, la folla circondò il suo seguito. Alcuni colpi di arma da fuoco furono sparati verso la carrozza del sovrano e il grido di <>.
Il governo mise in campo tutti gli strumenti a sua disposizione. Proibì le esportazioni di cereali e il loro uso nelle distillerie, tolse tutti i dazi sull’importazione e acquistò grano baltico attraverso canali ufficiali. La marina militare s’impossessò del grano diretto in Francia su navi neutrali. Queste azioni non solo riuscirono a frenare il propagarsi della carestia, ma scatenarono anche la rabbia dei ricchi proprietari terrieri, che si trovano ora nell’impossibilità di frodare una popolazione povera e affamata.
Il governo passò quindi a sovvenzionare le importazioni e incoraggiò i consumatori a mangiare pane realizzato con farina di grano mista a farina d’orzo e segale. Ma alla fine del Diciottesimo secolo persino i poveri si erano da tempo abituati alle bianche pagnotte di frumento e quindi i fornai si rifiutavano di fare un pane destinato a irrancidire nelle botteghe.
Dopo il 1800 alcuni raccolti favorevoli determinarono una temporanea riduzione dei prezzi, ragion per cui nel 1804 i proprietari terrieri, approfittando della complessiva carenza di cereali del periodo bellico, fecero pressione perché il parlamento approvasse una corn law che adottava una tradizionale <> daziaria sulle importazioni.
L’imposizione di una tariffa così pesante sul grano straniero, che già sosteneva costi di trasporto più alti, assicurò ai coltivatori inglesi un prezzo minimo di 63 scellini per quarto di tonnellata, oltre il cinquanta per cento in più del suo livello storico. La corn law del 1804 rivelò la mentalità e il potere politico dei coltivatori della Gran Bretagna, e fu anche una chiara illustrazione della natura ambigua del protezionismo, che cerca di tutelare i produttori interni (in questo caso, l’aristocrazia terriera inglese a spese dei consumatori). Fondamentalmente, la mossa dei latifondisti mirò a tenere permanenti i prezzi maggiorati del periodo di guerra.
La legge ebbe effetto quasi nullo, perché di lì a poco i magri raccolti e l’intensificarsi delle guerre francesi spinsero nuovamente i prezzi ben al di sopra dei cento scellini. Nel 1809, l’emergenza agricola in Inghilterra e un rapporto eccezionale ottenuto dalla Francia si allearono per dare a Napoleone l’irresistibile chance di realizzare immensi profitti vendendo cereali al nemico.ù
Nell’ottobre del 1813, la Gran Bretagna i suoi alleati invasero la Francia e nell’aprile del 1814 Napoleone fu mandato in esilio all’Isola d’Elba. Nei mesi che separano le due date il prezzo del grano scese da circa 120 scellini a settanta scellini. Di nuovo i proprietari terrieri britannici, ormai abituati a prezzi di mercato a tre cifre, invocarono le leggi per estendere in tempo di pace i profitti straordinari che gli erano piovuti addosso. E di nuovo i poveri scesero in strada e assediarono il parlamento.
A questo punto, le vicende secolari delle corn laws si intersecano con quelle di una famiglia altrettanto antica: i Ricardo. Non molto tempo dopo i decreti di espulsione e i massacri che li avevano colpiti in Portogallo a inizio Cinquecento, molti membri della ragguardevole comunità ebraica trovarono rifugio nel porto franco di Livorno. Qui, caso unico tra le città stato italiane, gli ebrei non erano obbligati a indossare segni di identificazione, a vivere in ghetti o a sopportare le invettive dei preti cattolici.
Gli ebrei di Livorno erano dediti principalmente all’antico commercio mediterraneo del corallo, ma poiché la materia prima si stava esaurendo, intorno al 1680 un membro di quella comunità, Samuel Israel, attirato dalle voci sulla tolleranza e la crescita economica di Amsterdam, si trasferì nella Repubblica olandese. Qui la famiglia prosperò: il nipote di Samuel, Joseph Israel Ricardo, divenne un mediatore di borsa di successo, che contribuì a istituire la borsa di Amsterdam ed ebbe un ruolo di responsabilità nel finanziamento dello sforzo militare olandese durante la guerra dei Sette anni.
Questo compito lo portò spesso a Londra, dove suo figlio, Abraham Israel Ricardo, non poté fare a meno di notare che la città inglese aveva sostituito Amsterdam come capitale della finanza mondiale. Fu così che intorno al 1760 Abraham Israele Riccardo trasferì la famiglia sulle rive del Tamigi e qui suo figlio David sarebbe diventato il grande teorico e fautore del libero scambio, nonché il più influente ed eloquente dei primi oppositori alle corn laws.
David Riccardo era nato nel 1772, quattro anni prima della pubblicazione di La ricchezza delle nazioni, il saggio nel quale Adam Smith sostenne energicamente la causa del libero scambio. Sembra tuttavia che il futuro economista si sia imbattuto per la prima volta nell’opera di Smith soltanto a ventisette anni, in una biblioteca della cittadina di Bath, dove aveva accompagnato la moglie a fare la cura delle acque. Negli anni successivi David superò i successi del padre nella borsa di Londra, e nel 1815 realizzò ingenti profitti grazie alla vittoria di Waterloo che fece balzare alle stelle i titoli di stato su cui aveva investito (proprio come successe a Nathan Mayer Rothschild, il quale però aveva avuto la notizia della vittoria in anticipo). David utilizzò la sua nuova ricchezza per ottenere un seggio ai Comuni e concentrarsi sui suoi interessi intellettuali. Nella copia del libro di Smith che si era nel frattempo procurato furono in seguito trovate 150 notazioni di suo pugno che costituiscono il nucleo dei celebri Principi di economia politica e dell’imposta, apparsi nel 1817.
Il libro si rivelò un degno seguito di La ricchezza delle nazioni; secondo le parole dello storico David Weatherall, <>. Il famoso capitolo del libro dedicato al commercio estero si apre subito con un enunciato che capovolge completamente gli assunti del mercantilismo: <>. Ricardo passa quindi a descrivere la legge del vantaggio comparativo attraverso la seguente situazione ipotetica. Immaginiamo che ci vogliano 120 inglesi per produrre una data quantità di vino e cento per produrre una data quantità di tessuto, mentre ci vogliono soltanto ottanta e novanta portoghesi per produrre, rispettivamente, le stesse quantità di vino e tessuto. Anche se più efficiente dell’Inghilterra in entrambi i settori, Ricardo argomenta, conviene che il Portogallo si concentri in ciò che fa meglio, il vino, la cui produzione richiede soltanto ottanta uomini, e venda il vino in eccedenza per procurarsi i tessuti fabbricati in Inghilterra invece di produrne dei propri. Le conclusioni a cui arrivò Ricardo si rivelarono troppo oscure per i lettori dell’epoca e ancora oggi la legge del vantaggio comparativo viene spesso fraintesa.
Un esempio più convincente basterà a chiarirla. Immaginiamo per un momento un famoso avvocato le cui prestazioni siano talmente richieste da costare mille dollari l’ora. Immaginiamo poi che questo avvocato abbia un talento speciale nei lavori di falegnameria, così speciale da consentirgli di eseguire il lavoro di un normale falegname nella metà del tempo. Se, supponiamo, a un falegname sono necessarie duecento ore per rifare l’arredamento di una cucina, al nostro avvocato ne bastano cento. Quindi, dato che un falegname guadagna mediamente 25 dollari l’ora, le capacità manuali del nostro avvocato valgono sul mercato cinquanta dollari l’ora.
Ora, se in casa c’è bisogno di una nuova cucina, non converrebbe che l’avvocato eseguisse personalmente il lavoro, visto che ha una capacità di lavoro doppia rispetto a un normale falegname? No, non quando le tue competenze legali valgono mille dollari l’ora. In ufficio, le cento ore passate a lavorare alla cucina gli renderebbero cento mila dollari. Meglio assumerne per duecento ore un falegname meno bravo di lui al costo di cinquemila dollari. In altre parole, è più conveniente che paghi i lavori in cucina praticando per cinque ore la propria professione, piuttosto che lavori cento ore da falegname per eseguirli personalmente. In termini economici, l’uomo del nostro esempio ha un vantaggio comparativo nel lavoro legale e uno svantaggio comparativo nel lavoro di falegname. (Si noti che il piacere e la preferenza non sono presi in esame da Ricardo. L’avvocato può divertirsi nei lavori di falegnameria e decidere perciò di fare da sé il lavoro, operando una scelta dettata dalla passione, che è pienamente legittima, ma irrazionale dal punto di vista economico).
Purtroppo, i Principi, e lo stesso Ricardo, arrivarono troppo tardi per salvare l’Inghilterra dalla draconiana corn law del 1815. In risposta a un opuscolo di Malthus favorevole alla legge, Ricardo stese un pamphlet che vi si opponeva, intitolato Saggio sull’influenza di un basso prezzo del grano sui profitti del capitale. In esso l’economista attirava l’attenzione sul fatto che il vantaggio principale dell’Inghilterra reale (per distinguerla dall’Inghilterra ipotetica dei Principi) risiedeva nei macchinari industriali. Le corn laws, scriveva, impedivano l’acquisto di cereali dall’estero e costringevano l’Inghilterra a sprecare lavoro prezioso nel settore meno produttivo dell’agricoltura. Di questo stato di cose non beneficiava nessuno, a parte l’aristocrazia terriera. Le argomentazioni del pamphlet furono ascoltate da pochi. Ancora due anni dovevano passare prima che Ricardo desse alle stampe la sua opera più autorevole, i Principi, e quattro prima che iniziasse la sua attività di parlamentare, nel 1819.
Al pensiero che i magazzini tedeschi polacchi e danesi erano stracolmi di grano a buon mercato le masse lavoratrici povere della Gran Bretagna si sentirono sferzate all’azione. Alla fine la piazza risultò più decisiva di ogni considerazione di carattere razionale, ma non nella direzione voluta. Nel marzo del 1815 gruppi dimostranti che si opponevano alla corn law infuriarono per le strade di Londra e fecero irruzione nelle case dei sostenitori del provvedimento, tra cui quella di Lord Castlereagh, il ministro degli Esteri noto per le sue tendenze autoritarie, e quella di Frederick Robinson, che aveva presentato il disegno di legge. All’indomani di Waterloo e della fine delle guerre napoleoniche, i lavoratori affamati insorsero per il libero scambio, proprio come i più agiati lavoratori di oggi insorgono contro di esso. E anche allora i disordini ebbero effetti controproducenti, costringendo i politici e i giornali favorevoli all’abrogazione della legge a sconfessare i loro alleati estremisti.
Nel 1815 gli interessi fondiari la facevano da padrone. Le famigerate leggi varate grazie alla maggioranza dei voti in parlamento, come all’ausilio delle baionette, all’esterno di esso, proibivano qualunque importazione di cereali qualora il prezzo fosse sceso sotto gli ottanta scellini per quarto di tonnellata. Non passò molto tempo che, per un breve periodo, i prezzi dei cereali scesero assai al di sotto degli ottanta scellini, e Ricardo, attraverso nuovi scritti e discorsi ai Comuni, prese parte a una vittoriosa battaglia di retroguardia contro una richiesta di protezione ancora maggiore avanzata dai proprietari terrieri. Nel 1823 Ricardo moriva. Aveva cinquantuno anni, il libero commercio globale restava un sogno inappagato.
Di solito, le leggi protezionistiche colpiscono più duramente deboli e indifesi, e la corn law del 1815 non fece eccezione. Dato che raramente in tempo di pace il prezzo del grano superava gli ottanta scellini, e dato che l’autosufficienza agricola dell’Inghilterra stava rapidamente svanendo, la legge, di fatto, impedì l’entrata di cereali dall’estero e costrinse i poveri d’Inghilterra a comprare il pane quotidiano a un prezzo gonfiato artificialmente. L’applicazione del provvedimento non suscitò le violenze che avevano accompagnato la sua approvazione, tuttavia l’alto costo dei cereali era ancora in cima alla lista delle lagnanze che sollecitava gli sforzi riformatori dell’Inghilterra postbellica. Tali sforzi spesso assunsero un volto duro, come nel caso del cosiddetto <>, verificatosi nel 1819 a Manchester, quando alcuni poliziotti impauriti sferrarono un attacco insensato contro una manifestazione pacifica di lavoratori.
Col procedere del secolo, gli industriali, le cui fortune crescevano e ai quali avrebbe giovato nutrire la manodopera con cereali a buon mercato, iniziarono a sfidare l’aristocrazia terriera. Nel 1828 gli imprenditori del Lancashire imposero le approvazioni di un disegno di legge che sostituiva la rigida barriera di ottanta scellini con una scala mobile più graduale, simile a quella del 1804. Nel 1840 l’orientamento intellettuale si era spostato in modo deciso a favore del libero scambio, tuttavia la nuova legge, per quanto un po’ meno dura di quella del 1815, non pose fine agli stenti dei poveri di Inghilterra. Sarebbe toccato a un’improbabile figura di visionario, Richard Cobden, mettere la parola fine a queste leggi, e il suo successo finale ha ancora parecchio da dirci sull’attuale controversia intorno alla globalizzazione, nonché sul processo democratico in generale.
Cobden nacque da una povera famiglia di piccoli agricoltori nel 18o4 ed entrò nella vita pubblica al momento giusto (all’indomani del Reform Act del 1832). Quando aveva dieci anni suo padre fu forzato a vendere la fattoria e lo zio, un mercante di tessuti, lo mandò in una di quelle istituzioni per la gioventù abbandonata rese celebri da Dickens (più tardi, leggendo Nicholas Nickelby, Cobdden provò uno shock da riconoscimento di fronte alla descrizione del collegio Dotheboys Hall). A quindici anni cominciò a lavorare come apprendista commesso presso lo zio, e a venti batteva le campagne vendendo cotoni stampati. Di lì a dieci anni Cobden fondò a Manchester, in società con un fratello maggiore, una propria fabbrica di tessuti stampati rendendosi economicamente indipendente.
Sebbene avesse un indubbio talento per gli affari, nel corso della vita Cobden non accumulò grandi ricchezze, al commercio preferì di gran lunga le occupazioni intellettuali, i viaggi e la politica. A trentatré anni aveva già viaggiato in Europa, in Medio Oriente e negli Stati Uniti, scrivendo a proposito di questi ultimi: <>. I viaggi gli insegnarono che l’Inghilterra poteva prosperare soltanto a patto se riusciva a smerciare i propri prodotti a prezzi inferiori di quelli delle altre nazioni. L’uso della forza militare drenava le tasse, spingendo in alto i prezzi delle esportazioni, e lo stesso avveniva se si spendeva troppo in cereali nazionali protetti per nutrire i lavoratori inglesi. L’una e l’altra cosa danneggiavano la nazione. Da questa riflessione dicese naturalmente la sua fiducia nel pacifismo, nella cooperazione internazionale e, naturalmente, nel libero scambio. Nel 1840 un terzo dell’esportazione della Gran Bretagna (soprattutto cotone e abbigliamento) erano dirette negli Stati Uniti, in cambio di cotone grezzo. Al giovane industriale non sfuggì che questo commercio non richiedeva costose protezioni navali.
Cobden non era certo il solo a nutrire questi sentimenti. Negli anni Trenta dell’Ottocento intorno alla conclusione che la corn law andasse abrogata si era formata una curiosa alleanza, composta dalle grandi industrie del cotone di Manchester e dai cartisti, un gruppo radicale che rivendicava, spesso con metodi illegali, l’estensione del diritto di voto anche a coloro che non appartenevano all’aristocrazia terriera. Nel settembre del 1838 i rappresentanti di questi due gruppi si incontrarono a Manchester e diedero vita alla Lega contro la legge sui cereali (Anti-Corn Law League). E più tardi, nel corso di quello stesso anno, il liberista più conosciuto d’Inghilterra, Richard Cobden, assunse la guida del neonato movimento.
Le circostanze fecero sì che la lega nascesse nel posto giusto al momento giusto. Prima degli anni Trenta dell’Ottocento comunicazioni e trasporti avevano costi proibitivi. Un mondo in cui soltanto i ricchi possono scrivere lettere o viaggiare è un mondo che tiene fuori gioco tutti gli altri membri della società. Risultato di ciò era che in Inghilterra una classe consolidata e irriducibile di proprietari terrieri aveva buon gioco sulle masse di poveri lavoratori nell’imporre misure protezionistiche sui cereali.
I rapidi progressi tecnologici del periodo, in particolare la tecnologia del vapore, ridussero enormemente questo divario. L’Anti-Corn Law League si trovò nella condizione di inviare i suoi carismatici oratori - l’affascinante persuasivo Cobden e il veemente ed emotivo John Bright - in giro per il paese a organizzare e dirigere i propri sostenitori. Il movimento sviluppò molte di quelle tecniche sofisticate impiegate oggi dai grandi partiti politici e dai gruppi di pressione: spedizioni postali a tappeto, campagne propagandistiche itineranti con tanto di coreografia, uso strumentale del sottotesto religioso, sondaggi minuziosi e azioni illegali mirate.
Dopo aver assunto la guida della Lega, Cobden si trovò presto a condividere le battaglie di un altro visionario di umili origini: l’appassionato sostenitore della <> Rowland Hill. Nel 1838 l’Inghilterra aveva fatto grandi passi per dotarsi di una rete ferroviaria veloce, la quale ridusse drasticamente i costi di trasporto. Il governo, tuttavia, non trasferiva sugli utenti del servizio postale i vantaggi del risparmio. A quel tempo le spese postali erano pagate dal destinatario ed erano alte: una lettera da Edimburgo a Londra, per esempio, costava uno scellino, quasi l’equivalente della paga giornaliera di un operaio agricolo o industriale.
Il pagamento a carico del destinatario e l’alto costo del servizio e diedero origine a ogni tipo di stratagemma e abuso. I commessi viaggiatori d’abitudine trasportavano lettere per conto di amici, parenti ed estranei. Più lettere indirizzate a una zona distante venivano scritte su un singolo foglio, che una volta arrivato veniva tagliato e le sue parti inoltrate agli altri destinatari. I libri che le tipografie spedivano ai negozi erano imbottiti di lettere. Gli impiegati si facevano spedire la corrispondenza presso il luogo di lavoro, e la franchigia legislativa - il privilegio di spedire lettere esenti da affrancatura - era uno degli importanti privilegi dell’impiego statale.
Hill calcolò che trasportare una lettera da Londra e Edimburgo costava all’amministrazione delle poste soltanto la trentaseiesima parte di penny, e Cobden fu presto persuaso a impiegare il suo leggendario fascino e la sua abilità a beneficio di una commissione della camera dei Comuni. La riduzione delle spese postali, disse Cobden alla commissione, avrebbe permesso ai cinquantamila irlandesi che lavoravano a Manchester di scrivere regolarmente alle loro famiglie; e quando i parlamentari vollero sapere se il servizio postale era in grado di gestire un tale volume di lettere, Cobden li informò impassibile che di recente un elefante era stato spedito per treno da Londra a Manchester alla velocità di 32 km orari.
Il parlamento approvò il provvedimento della penny post, che entrò in vigore il 10 gennaio 1840. All’inizio ci fu grande incertezza su come tradurre in pratica il progetto; Cobden suggerì <>. Nacque così la moderna affrancatura adesiva. Cobden era perfettamente consapevole delle implicazioni della sua battaglia; si racconta che quando la penny post superò finalmente la camera dei Lord, abbia esclamato: <>. La posta economica divenne l’arma più potente a disposizione delle forze abrogazioniste, un vero e proprio cannone propagandistico. Oltre a ciò, l’Anti-Corn Law League poteva contare sulla ricchezza dei proprietari dei cotonifici, la sorgente principale delle ricchezze prodotte dalla Rivoluzione industriale. I sostanziosi finanziamenti e le basse spese postali, combinandosi, misero la Lega in grado di raggiungere il miserevole numero di cittadini con diritto di voto (solo il sette per cento di maschi adulti dopo il Reform Act del 1832). Il bombardamento propagandistico era sistematico e regolare e i suoi strumenti erano: un quotidiano (The Anti-Corn Law Circular); un settimanale ben scritto (The League); e un incessante produzione pamphlettistica. Cobden calcolò che negli anni Quaranta dell’Ottocento, il periodo di massima attività del movimento, più di un terzo degli ottocentomila aventi diritto al voto inglesi ricevessero regolarmente il League. lìLe file abrogazioniste non arruolarono soltanto la forza recente delle ferrovie e della penny post, ma anche un potere più antico: i messaggeri di Dio sulla terra. I liberisti misero a frutto il fervore religioso dei loro alleati cartisti. A una adunanza della Lega a Manchester, settecento pastori dichiararono che le corn laws erano <> (forse la prima e ultima volta in cui l’Onnipotente fu invocato a favore della riduzione dei dazi). La Lega dispiegò anche plotoni di avvocati nelle contee e nelle circoscrizioni per interpellare i votanti e accertarsi delle loro inclinazioni politiche.
Si verificarono le iscrizioni ai registri e i requisiti dei proprietari terrieri per contestare loro il diritto di voto quando se ne accertava la non conformità la legge, e per impedire all’opposizione di fare la stessa cosa, i documenti dei probabili sostenitori del libero scambio furono emendati da eventuali irregolarità. La strategia fruttò l’esclusione di almeno un lettore tory su sei in molti distretti elettorali. Infine, la Lega mise in gioco le potenti risorse finanziarie di cui disponeva per acquistare interi caseggiati a nome degli inquilini poveri, in modo tale che ciascuno di essi ricevesse un affitto di quaranta scellini all’anno, che era quanto bastava per ottenere il diritto di voto. Quando non erano impegnati a Westminster, Cobden e il suo collega John Bright facevano campagna per il paese. Il primo attaccava la serie dei discorsi con un elegante e tranquilla padronanza dei fatti; il secondo eccitava l’uditorio di fronte contro la perfidia dei proprietari terrieri. Grazie al nuovo sistema ferroviario, i due oratori sfrecciavano di città in città, presentandosi a ogni seduta fresche e riposati: un’impresa impensabile al tempo delle carrozze e dei cavalli.
Nel 1841 il governo whig di Lord Melbourne rassegnò le dimissioni e convocò le elezioni generali anticipate. Quattro anni prima Cobden era stato sconfitto di stretta misura nella corsa ai Comuni, ma ora era una personalità talmente nota che non ebbe problemi ad essere eletto, e con lui altri candidati della Lega, tra cui John Bright.
Le elezioni videro anche la riconquista del potere da parte dei tory e il ritorno di Robert Peel al numero 10 di Downing Street, che aveva dovuto lasciare nel 1835. Le concezioni politiche e lo stimato empirismo di cui dava prova, ponevano Peel molto al di sopra della classe dei possedimenti terrieri che costituiva l’ossatura del partito conservatore, ed estraneo alla sua mentalità. Nel corso degli anni successivi Cobden si scontrò più volte con il primo ministro sul tema delle corn laws, e anche se gli scambi furono talvolta aspri, a poco a poco la padronanza dei fatti e l’attitudine logiche persuasiva del deputato ebbero ragione alla resistenza di Peel.
L’essenza di ragionamento di Cobden era questa. Consentendo l’importazione di cereali a buon mercato si sarebbero aiutati i lavoratori in due modi: primo perché li si forniva di pane a basso costo, e poi perché quel pane sarebbe stato pagato dagli industriali inglesi, la cui produzione dava lavoro agli operai. In poche parole, il commercio dall’estero di beni di prima necessità produceva commercio verso le estero. Durante un discorso di Cobden ai Comuni, Peel si voltò verso il vice-primo ministro Sydney Herbert, e disse: <>.
Entrambi gli schieramenti cercarono di sfruttare le tristi condizioni dei lavoratori del tempo. Sebbene con una buona dose di ipocrisia, i tory avevano buon gioco a tuonare contro gli oscuri e satanici stabilimenti industriali, che, nella maggioranza dei casi, appartenevano ai membri della Lega. Nel 1841, appena insediatosi in parlamento, Cobden fu attaccato come uno spietato industriale indagato per irregolarità contabili. Ma la gestione e le condizioni delle fabbriche di Cobden erano, rispetto ai tempi, generalmente buone e il neo-deputato evitò facilmente l’incriminazione. Nel 1844, il parlamentare conservatore Lord Ashley Cooper, la cui famiglia era proprietaria di immense tenute, presentò un disegno di legge che mirava a una drastica riduzione degli orari lavorativi del lavoro infantile. grazie all’intervento di Peel, la legge fu in seguito annacquata e ottenne l’approvazione del parlamento. Quindi, nel 1845, Cooper lanciò all’attacco degli stampatori di cotone, una mossa chiaramente indirizzata a colpire Cobden. Quando Cooper fece notare che i bambini delle fabbriche lavoravano molte ore per la miseria di tre scellini a settimana, Cobden replicò che essi almeno lavoravano al chiuso, mentre i bambini impiegati nell’agricoltura facevano orari ancora più lunghi, sotto ogni tempo, e per metà salario.
La vittoria nella battaglia per l’abolizione delle corn laws arrivò a singhiozzo. Nel 1842 i cattivi raccolti indussero Peel a premere sul suo gabinetto perché dimezzasse la scala mobile di daziaria del 1828; e nel 1843 il parlamento ridusse la tariffa sul grano canadese a un solo scellino per quarto di tonnellata. L’azione del primo ministro non accontentò nessuno. Certamente non Cobden, Bright e gli altri esponenti della League, che valutavano con disprezzo le blande misure, e certamente neanche gran parte dei compagni di partito, disgustati da quello che aveva tutta l’apparenza di un tradimento di classe. Due anni più tardi, tuttavia, l’abbondanza dei raccolti tolse dell’angolo i proprietari terrieri e l’azione della League in parlamento subì una frenata.
Quindi si arrivò al 1845, quando gli dei irati dell’agricoltura si scatenarono sulle isole britanniche, provocando una delle situazioni più drammatiche nella storia politica dell’Inghilterra. Il luglio e l’agosto di quell’anno furono funestati da un freddo e piovoso <> che distrusse il raccolto del grano. Quasi simultaneamente, nell’Inghilterra meridionale le coltivazioni di patate furono colpite dalla peronospora che si propagò come un incendio dall’Irlanda, sprofondando la popolazione nel baratro della fame. L’anno scorreva come un incubo e il governo di Peel assisteva agli eventi spaventato. Fu istituita una commissione (la Relief Commission) col compito di acquistare granturco americano, mentre una speciale commissione scientifica riferì che l’infestazione era ancora più disastrosa di quanto si era temuto. Il 22 novembre, come era prevedibile, il leader dell’opposizione whig, Lord John Russell, si pronunciò in favore dell’abolizione delle corn laws.
A questo punto, anche il tory più leale capiva che per evitare una carestia di massa era necessario aprire i porti d’Inghilterra e d’Irlanda ai cereali stranieri. Peel comprese inoltre che una volta aperti essi non avrebbero potuto essere richiusi senza affrontare il rischio di una rivoluzione. Due settimane più tardi riunendo il suo gabinetto e informò i ministri che avrebbe avanzato la proposta di abrogazione delle corn laws. Quando due ministri del governo rifiutarono il loro sostegno, Peel presentò le proprie dimissioni alla regina. Lord Russell, tuttavia, non fu in condizioni di formare un nuovo governo poiché i whig erano in minoranza ai Comuni, e quindi, il 20 dicembre seguente, Peel tornò in carica.
Nel gennaio del 1846 il primo ministro non ebbe altra scelta che ammettere pubblicamente che Cobden e la League avevano dimostrato di essere stati nel giusto e che lui stesso aveva cambiato idea rispetto alle corn laws. La resistenza degli irriducibili del partito tory doveva essere aggirata.
Questo grande gesto di abnegazione sancì la fine politica di Peel, consegnandolo alla storia come il più grande - assai probabilmente - leader britannico del Diciannovesimo secolo. Il 25 giugno l’abrogazione fu approvata dalla camera dei Lord, e di lì a pochi giorni i proprietari terrieri del partito tory, capeggiati da Benjamin Disraeli, obbligarono Peel alle dimissioni definitive. Peel aveva salvato i membri della propria classe da se stessi, e così facendo aveva attirato la loro maledizione.
Il 1846 segna uno spartiacque storico nella politica commerciale mondiale, tuttavia per quella data il più era stato fatto. La legge del 1842 aveva ridotto le tariffe ancor più di quanto non fece l’abrogazione; e alcuni studi contemporanei suggeriscono che nel 1846 i dati sui cereali erano in discesa ormai da decenni ed erano diventati economicamente trascurabili. Cobden proseguì nell’attività parlamentare. Allo scopo di diffondere il verbo del libero scambio, soggiornò sempre più all’estero. Nell’ultima parte della sua vita trovò un allievo ricettivo nel nipote di Bonaparte, l’imperatore Napoleone III.
Nel 1859 le relazioni anglo-francesi erano talmente deteriorate da lasciar presagire una guerra, soprattutto a causa dell’isteria generata dalla diffidenza della Gran Bretagna nei confronti del suo nemico storico, ragion per cui Cobden si trovò coinvolto in una missione non ufficiale a Parigi per sostenere un trattato anglo-francese di riduzione delle tariffe. Qui incontrò in diverse occasioni Napoleone III e i suoi ministri. L’imperatore gli disse che era un suo grande desiderio abrogare le sue tariffe doganali, tuttavia, rimarcò, <>. Napoleone era più che aperto ai consigli idealistici di Cobden, ma i capitani d’industria francese e i loro alleati al governo non volevano aver nulla a che fare con il libero scambio. Ormai Cobden era un maestro nello smontare le affermazioni dei protezionisti. Il seguente passaggio del suo diario contiene un messaggio vario per il mondo contemporaneo come lo era per Napoleone III: “[L’imperatore] mi ripeté le argomentazioni usate da alcuni dei suoi ministri per dissuaderlo da una politica di libero scambio, in particolare dal ministro delle finanze , M. Mange, il quale aveva ammonito l’imperatore che se solo fosse passato dalla proibizione a [...] tariffe moderate che consentivano l’ingresso di grandi quantità di merci straniere, allora per ogni prodotto industriale ammesso in Francia, un prodotto delle industrie nazionali doveva essere sostituito. Ho mostrato che la fallacia del ragionamento di M. Mange era quella di assumere che in Francia tutti fossero sufficientemente abbigliati e che non potesse verificarsi un aumento dei consumi. Ho fatto notare che milioni di persone in Francia non indossavano calze, e tuttavia l’importazione delle calze era proibita. L’imperatore osservò che gli spiaceva di dover dire che decine di milioni di francesi non avevano mai mangiato pane, ma si alimentavano di patate, castagne, eccetera”.
La ricettività di Napoleone III rispetto al libero scambio e non deve sorprendere; nel 1846 il futuro imperatore era riparato a Londra, proprio nei giorni in cui le corn laws venivano abrogate, e nei due anni che vi soggiornò la nazione era dominata dall’influenza intellettuale di Smith, Ricardo, e dello stesso Cobden. I fabbricanti di cotone francesi, rovinati dalla concorrenza del tessuto inglese, tempestavano l’imperatore di suppliche protezionistiche, ma Napoleone III prestava orecchio anche alle istanze di quanti appoggiavano l’apertura dei mercati: produttori di vino, di seta, di mobili di lusso, tutti desiderosi di esportare le loro merci. A spingere per tariffe più basse c’erano anche molti di quegli industriali che dipendevano dalle materie prime straniere, come i costruttori di macchine, che utilizzavano grandi quantità di ferro di importazione. Negli anni Cinquanta del 1800 il verbo del libero scambio si era ormai diffuso oltre la Manica; organizzazioni contrarie ai dazi erano sorte in Belgio e in Francia dando impulso a una generazione di economisti liberali. Tra cui il più illustre fu Michel Chevalier, professore di economia politica e deputato dell’Assemblea nazionale. Scrisse Chevalier:
“L’adozione della libertà di commercio da parte della Gran Bretagna è uno dei più grandi avvenimenti del secolo. Se una nazione così potente e illuminata non solo mette in pratica un principio così grande, ma dimostra che anche chiaramente di averne tratto profitto, come è possibile che i suoi emulatori non siano in grado di seguire la stessa via?”
Nel 1860 Cobden, in coppia con Chevalier, guidò il trattato anglo-francese attraverso la fiera resistenza oppostagli da entrambi i lati della Manica, strappando queste parole di elogio al deputato del partito liberale William Gladstone:
“È privilegio raro che un uomo, dopo aver reso quattordici anni fa un servizio importante alla propria patria, nello stesso breve tempo di una vita, non fregiato di terre o titoli, senza insegne che lo distinguono dal popolo che ama, abbia ora di nuovo la possibilità di rendere un altro memorabile servizio al sovrano e alla patria”.
Il trattato Cobden-Chevalier ridusse drasticamente le tariffe d’importazione in entrambi i Paesi. Negli anni successivi anche l’Italia, la Svizzera, Norvegia, la Spagna, l’Austria e le città anseatiche si adeguarono allo spirito del tempo. Questo periodo vide per la prima volta l’uso diffuso della clausola della nazione più favorita (Cnpf). Lo status di nazione più favorita, le cui origini risalgono agli accordi commerciali del Dodicesimo secolo, è simile al <> offerto dai concessionari di automobili. La nazione che lo concede promette condizioni doganali non meno favorevoli di quelle già stabilite con gli altri paesi, e se in futuro riduce ulteriormente i dazi per le merci provenienti da una nazione, si impegna a fare lo stesso con tutti gli altri paesi che beneficiano della Cnpf. Una volta che la Cnpf cominciò a essere applicata (negli anni Sessanta dell’Ottocento), il <> tariffario si propagò in tutta l’Europa continentale. Furono eliminati del tutto i dazi su alcuni prodotti che in precedenza avevano toccato il cinquanta per cento.
Tra la pubblicazione di La ricchezza delle nazioni, (1776) e l’abrogazione delle corn laws (1846), Smith, Ricardo e Coben avevano gettato le basi teoriche e politiche della nuova economia globale, che ebbe il suo momento di massima splendore nei decenni che seguirono la firma del trattato Cobden-Chevalier. I protezionisti predissero che gli agricoltori sarebbero stati rovinati dai cereali a buon mercato importati dall’estero. Al principio ciò non avvenne, in quanto l’aumento della popolazione mantenne alto il prezzo dei generi alimentari. Ma a una generazione di distanza dall’abrogazione delle corn laws, una valanga di cereali a basso costo dalle Americhe, la Nuova Zelanda e la Russia, travolse gli agricoltori inglesi e dell’Europa continentale. Nel 1913 l’Inghilterra importava l’ottanta per cento del suo frumento, ma nessun inglese ragionevole avrebbe scambiato la realtà industriale della nazione con il suo passato agricolo.