Il Messaggero, 1 luglio 2024
Enigma Lucy, ora l’identikit è completo
«Ce l’abbiamo! L’abbiamo trovato intero!». Gli antropologi Donald Johanson e Tom Gray si attaccarono al clacson del land-rover e cominciarono a gridare le famose frasi. Era il 30 novembre del 1974, sul costone di una gola nel deserto dell’Afar in Etiopia, e la scoperta riguardava uno scheletro fossilizzato quasi completo e decine di pezzi di ossa che ricomponevano quasi il 50 per cento di un esemplare femmina di 3,2 milioni di anni fa. «Quella sera non riuscirono a dormire, parlarono e bevvero birra tutta la notte. E fu proprio durante questa esuberanza collettiva, che il mangianastri del campo suonò la celebre canzone dei Beatles che portò a nominare il fossile Lucy». Lo racconta con la voce divertita, Flavio Altamura, membro della missione archeologica presso il sito preistorico di Melka Kunture in Etiopia. Conosce a memoria ogni dettaglio di quella memorabile scoperta avvenuta cinquant’anni fa e che ha cambiato la comprensione dell’evoluzione umana. L’incontro con la femmina del genere Australopithecus afarensis, considerata «la madre di tutti noi». La luce di Lucy non si è mai assopita. Lo dimostrano le continue ricerche. LE IPOTESIE proprio in occasione delle celebrazioni dell’anniversario dalla scoperta, aperte idealmente dal simposio dell’Institute of Human Origins dell’Arizona State University, fondato dallo stesso Donald Johanson, sfilano le ultime indagini, anche sul segreto del suo aspetto fisico. La tradizionale rielaborazione grafica di Lucy la propone con una folta pelliccia bruno-rossastra da cui affiorano le parti del viso, delle mani e piedi e del seno. Recenti indagini genetiche suggeriscono che Lucy potrebbe essere stata «più glabra». Nuda. Ipotesi su cui interviene anche il noto antropologo della Sapienza Giorgio Manzi, che proprio a Lucy ha dedicato un capitolo del suo libro Antenati: «Sulla base di dati genetici indiretti (confrontando cioè il genoma dei pidocchi che infestano noi e i nostri parenti più prossimi: scimpanzé e gorilla) era stato ipotizzato che la perdita del manto pilifero che ci caratterizza sarebbe avvenuta proprio ai tempi di Lucy, o anche prima, suggerendo che le specie del genere Australopithecus (o alcune di esse) fossero già delle “scimmie nude”, per citare il best seller di Desmond Morris del 1967. Questa conclusione, tuttavia, non ha ancora convinto e continuiamo perciò a rappresentare Lucy come una scimmia antropomorfa pelosa, ancorché bipede. Ma molto si è scoperto su Lucy: «Qualcuno ha provato a ipotizzare le cause della morte – riflette Giorgio Manzi – arrivando a suggerire, sulla base delle fratture riscontrate, che potesse essere morta cadendo da un albero: una conclusione che, tuttavia, ha lasciato perplessa buona parte della comunità scientifica dei paleoantropologi». E oltre la possibile nudità? «La notizia forse più intrigante su Australopithecus è che questi nostri antenati bipedi avessero una struttura sociale simile a quella dei gorilla – avverte Manzi – che vivono in gruppi sociali con un solo maschio riproduttore, le “sue” femmine e la loro prole. Questo verrebbe indicato dalla notevole differenza di taglia che si riscontra sia fra i resti fossili, come quelli rinvenuti nello stesso sito in Etiopia dove venne rinvenuta Lucy, sia dalle impronte del sito di Laetoli in Tanzania da noi studiate». Per Manzi Lucy rappresenta un’icona della scienza. «Lucy è importante per diversi motivi – precisa l’antropologo – Lucy sembrò davvero quella creatura che poteva rappresentare l’antenato comune di tutti gli ominidi bipedi successivi, noi Homo Sapiens inclusi. Poi Lucy è uno scheletro, o almeno il 40-50% di uno scheletro, cioè molto di più dei frammentari reperti fossili che fino allora erano stati rinvenuti. Da uno scheletro si possono capire molte cose e quello di Lucy ci ha insegnato, per esempio, che le specie del genere Australopithecus erano creature “anfibie”, cioè che combinavano le caratteristiche del bipede con quelle di abitatori abituali dell’ambiente forestale, capaci di arrampicarsi facilmente sugli alberi». L’ESTETICAAlla luce di 50 anni di studi, qual è l’identikit di Lucy? «Una femmina giovane di circa 18 anni – spiega l’antropologo Mauro Rubini, legato alle recenti scoperte sui resti del Neanderthal al Monte Circeo, autore del saggio Volevo essere una scimmia – Sebbene l’esemplare abbia un cervello ancora piccolo, molto simile a quello di uno scimpanzé, il bacino e le ossa delle gambe sono quasi identiche funzionalmente a quelle degli umani moderni, mostrando con certezza che questi ominini camminavano eretti. Inoltre anche la dentizione era, come dire, moderna, con riduzione dei canini. La mandibola era molto robusta e munita di denti forti ed appiattiti, con canini poco pronunciati e premolari e molari forti e dallo smalto ispessito, indicanti una dieta principalmente vegetariana». Una perfetta Lucy in the Sky with Diamonds.