la Repubblica, 1 luglio 2024
Lenin, un romanzo russo. L’ultima notte del Capo
Il bosco sembrava un teatro per un solo spettatore. Immobile sulla sedia a rotelle, col berretto a visiera in testa, lui aveva sentito sul viso l’aria dell’autunno, aveva visto cambiare i colori della foresta dove spuntava l’oro, il ruggine e l’arancione nel verde, e aveva riconosciuto il richiamo della stagione: da allora voleva andare a caccia, provava a ripeterlo, insisteva, faceva i gesti con la mano, socchiudendo un occhio come per mirare una volta ancora. Sembrava una follia, ma la moglie convinse i medici che si poteva dirgli di sì. I cacciatori sparpagliati tra le betulle coi cani avrebbero spinto la selvaggina verso il sentiero dove Vladimir Ilic poteva aspettare insieme con gli uomini incaricati di sparare, per l’ultimo atto: appoggiato su tre cuscini in fondo alla slitta, imbragato da due cinture, affondato sotto le coperte, senza fucile. Una messinscena finale, una finta rappresentazione della caccia, per restituirgli nel bosco di casa lo stupore dell’alba condiviso tante volte con il compagno fuochista Ivan Zajtsev, che lo guidava nel buio della palude fino alla legnaia con la paglia, per aspettare nascosto la volpe: che poi Lenin sbaglierà, a 25 metri di distanza.
Ma quel sabato 19 gennaio 1924, l’ultimo sabato, tutto era diverso, a cominciare dal dubbio finale. Lenin voleva ancora provare a vivere, o si stava accomiatando dalle immagini della sua esistenza, ad una ad una, man mano che attraversavano la sua mente devastata?
La verità è che stava morendo, tra sprazzi di coscienza incredibilmente ritrovata e giorni di abbandono, come un burattino senza fili. Nadezhda non lo accettava, mentre sembrava saperlo bene Stepan Gil’, l’autista addestrato nel parco auto dello Zar, che per tutto il viaggio da Gorkij a Mosca controllava continuamente nello specchietto le condizioni del passeggero silenzioso sul sedile posteriore. Avanzavano a bassa velocità e lui sembrava ancora più fragile, con le mani appoggiate al manico ricurvo del bastone e lo sguardo fisso in avanti. Poi la piazza Rossa che appare all’improvviso, sotto il cielo incerto e già freddo del 18 ottobre, la Roll Royce Silver Ghost che attraversa la torre Spasskaja, e Vladimir Ilic Lenin che si domanda in silenzio se questa sarà l’ultima volta. Ce l’aveva fatta, almeno per un giorno era riuscito a prevalere sulla malattia e a farsi portare a Mosca dalla dacia per qualche ora, imponendosi alla vigilanza dei medici e al controllo del partito. Sembrava impossibile, dopo l’ultima crisi.
Ma proprio l’ottovolante della malattia rendeva quasi inutili i divieti, e la gabbia politico-sanitaria che lo circondava sembrava schiudersi un poco, aprendosi. Tutto era precipitato il 9 marzo 1923, quando il terzo attacco aveva paralizzato il braccio e la gamba destra, soffocando quasi del tutto la parola, lasciando Ilic confuso e stordito, prigioniero della febbre e di un «ottundimento della coscienza», come certifica la diagnosi del dottor Rozanov, il primo ad accorrere nell’appartamento al Cremlino, dove la crisi dura trenta minuti.
Tre giorni dopo, un’edizione straordinaria della Pravda rivela al Paese l’emergenza, con il bollettino ufficiale firmato da 8 medici concordi nel garantire «che la malattia di Lenin fa parte di una tipologia per cui è prevista la possibilità di una completa guarigione». Ma la moglie e la sorella che erano a fianco di Vladimir Ilic al momento dell’urto improvviso del male, non riescono ancora a cancellare la sua immagine con gli occhi sbarrati, i gesti convulsi e incontrollati dell’unico braccio capace di muoversi, il sinistro, e quelle parole senza senso che venivano da chissà quale brandello di pensiero superstite: «Vot, Vot», «sobaka», «conferencija», e ogni tanto anche un imprevedibile «Lloyd George». Così quando il 12 maggio una barella trasportò Lenin sull’ambulanza diretta a Gorkij, dietro le finestre degli uffici tutti guardavano verso il cortile, convinti che il Capo della Russia non sarebbe più tornato nel suo appartamento al Cremlino.
Invece Lenin tornò, e più che una visita sembrava un addio. Nella dacia in campagna la sua salute era di nuovo migliorata poco per volta, lui faceva ogni mattina gli esercizi, calzava scarpe ortopediche che lo aiutavano a camminare con l’aiuto del bastone, e Petr Pakaln voleva essere sempre e soltanto lui a spingere la sedia a rotelle di vimini, a porgergli il berretto, a ricoprirlo con la pelliccia sulla terrazza appena si abbassava il sole. Ilic pronunciava breve frasi senza più il tono gutturale dei primi giorni, aveva quasi imparato a scrivere con la mano sinistra, la sera si impuntava per salire la rampa di scale da solo. Nadezhda lo incoraggiava ricordandogli i giorni in cui riusciva a scrivere solo la “m” e le altre lettere «sembravano nuotare nell’aria».
Lui vedeva i passi avanti, ma gli mancava sempre un pezzo di autonomia, di sicurezza, e questo lo faceva infuriare, fino a cacciare per disperazione medici e infermieri. L’impotenza accentuava la nevrastenia, così si decise di assecondarlo quand’era possibile, concedendogli di scorrere i giornali e di ricevere qualche visita, ristabilendo a sorpresa il contatto con il mondo perduto.
Tutti però trovarono imprudente e inutile il viaggio a Mosca a cui Ilic accennava ogni giorno come un’ossessione, e che infine fu fissato per quel venerdì 18 ottobre. Nadezhda aveva capito: Lenin voleva riprendersi alcune carte dai cassetti della scrivania, ma soprattutto voleva rivedere i suoi posti, le sue stanze, proprio perché temeva di non poter rientrare al lavoro. Il suo Cremlino. Gli bastava avviluppare tutto in uno sguardo per ribadire una sovranità sfibrata con un solo momento di presenza, senza parole, come un’apparizione. Entrò prima nel suo appartamento, trovò la poltrona preferita, un libro lasciato sul tavolino, poi le segretarie lo videro aprire la porta del suo ufficio, quasi avesse bisogno di controllare che tutto fosse come lo aveva lasciato. Prima di ritornare chiese all’autista di girare per più di un’ora per le strade di Mosca, con la città che si affacciava al finestrino della macchina nera per sparire immediatamente, cambiando quadro. Un commiato? Aggrovigliati dalla malattia, i sentimenti erano confusi: certamente un saluto, probabilmente un distacco, inevitabilmente l’inventario dei conti saldati e di quelli sospesi. Tra cui quella sala del trono, dove all’improvviso tutto sembrava nuovamente vacante.
Ilic non sapeva nulla della telefonata di insulti di Stalin a Nadezhda, la moglie lo aveva tenuto all’oscuro per proteggere i suoi nervi. Ma ormai da mesi lui accumulava dubbi su Stalin, sospetti, inquietudini, addirittura paure. Un disvelamento, come se la malattia avesse reso tutto intellegibile, anche gli intrighi. Stalin era stato portato nel cuore del partito per governare la macchina sotto la guida di Lenin, adesso la malattia gli consegnava anche la rotta, quindi il timone. Come un pittore che deve correggere un dipinto altrui, Stalin cancellava, spostava, sostituiva, rimodellando il partito: preparava le nomine nel Comitato Centrale, selezionava i capi locali, “promuoveva” nelle ambasciate all’estero i collaboratori di Trotzkij, faceva circolare notizie allarmanti su Lenin: «Kaputt».
Nei mesi in cui la malattia del “Vecchio” prendeva il posto della politica, l’apparato aveva confiscato l’autorità e ora si nutriva di se stesso, creando una cintura burocratica di funzionari che dovevano tutto al GenSek, sempre meno vincolato alla collegialità, sempre più scortese, anzi scorbutico. Quando Lenin viene a sapere che Martov, il leader menscevico suo storico avversario è finito quasi in miseria a Berlino, chiede a Stalin di aiutarlo. «Non un rublo – è la risposta – per me può crepare».
Un lampo in quei giorni illumina l’insonnia di Ilic, elettrizzando la scena che il partito si appresta a montare nel gran teatro della Russia dopo di lui: magari la scissione, un’altra volta, spezzando in due l’eredità della rivoluzione. Oppure… oppure… E l’uomo che ha codificato scientificamente l’idea di dittatura come «governo senza limiti, non sottoposto al freno di nessuna legge e nessuna regola superiore, che si regge soltanto sulla forza» vede adesso come una minaccia i primi bagliori di un dispotismo nascente, attorno a un uomo solo. Ottiene dai medici, battendo il pugno, il permesso di dettare per dieci minuti al giorno. Ha deciso. Il 24 dicembre 1922 fa sedere accanto a sé una delle tre segretarie, Marija Volodiceva, e scandisce il titolo del suo testamento politico, Lettera al congresso del partito. Ma prima, una raccomandazione: il testo deve rimanere ad ogni costo segreto e sigillato, seguendo esclusivamente le indicazioni di Lenin. Dunque è un documento di battaglia, che apre il grande tema della successione. Il quadro è drammatico, sia per la gravità delle condizioni di salute di Lenin, e sia per il rischio esplicito di una “frattura” nel partito, sulla faglia aperta tra Stalin e Trotzkij. Lenin prende in esame i due contendenti, li mette a nudo in pubblico, li giudica.
Scrive: «Divenuto GenSek, il compagno Stalin ha concentrato nelle sue mani un illimitato potere, e io non sono certo che sappia sempre usarlo con sufficiente accortezza. D’altro lato il compagno Trotzkij non si distingue solo per le sue notevoli capacità. Credo che come persona egli sia, nell’attuale Comitato Centrale, la più abile ma anche la più sicura di sé in misura eccessiva, troppo preso inoltre dagli aspetti puramente amministrativi».
Un equilibrismo politico, per suggerire al partito una scelta senza imporla, perché Lenin deve sembrare super partes, parlare in nome della rivoluzione. Ma dietro al “Vecchio” ormai Stalin vede costantemente Trotzkij, a occhio nudo. Capisce che Ilic ha già scelto, e sta muovendosi per profilare come successore proprio il suo nemico. Stalin ridiventa Koba, il rivoluzionario con «la mano che non trema» mentre fiuta il pericolo attorno a sé; ma anche Soso, il bandito georgiano addestrato ad aspettare il momento giusto per «soddisfare l’ implacabile sete di vendetta e poi andare a dormire – come racconta a Kamenev – sapendo che non c’è al mondo niente di più dolce di questo». Ma guai a sbagliare, il sentiero è gelato e il ghiaccio su cui si deve muovere Stalin è sottile. Guardingo, protetto ed esposto dalla macchina pulsante dell’organizzazione che guida, osserva Lenin che maschera la sua strategia con un’analisi generale degli altri possibili candidati, procedendo per coppie, come in un’eliminatoria: e forse alla fine l’uomo da eliminare sarà proprio lui, Joseph Stalin, l’ex “magnifico georgiano”. Adesso tocca a Grigorij Zinov’ev, che ha condiviso per anni il vagabondare rivoluzionario di Lenin attraverso l’esilio, e oggi è schierato con Stalin contro Trotzkij, insieme con Lev Kamenev. Lenin li cita insieme, candidandoli e eliminandoli con la sottile malizia di ricordare i loro dubbi sulla Rivoluzione d’Ottobre nel ‘17, mentre finge di invocare la prescrizione per quell’errore: «Naturalmente non fu un puro caso, ma oggi non può più essere invocato contro di loro»: esclusi. Affaticato dalla dettatura, Vladimir Ilic si ferma qui, dando appuntamento alla stenografa per l’indomani, il 25 dicembre. Quel che contava era tagliare la strada a Stalin, ed è stato fatto, subito: arrivando al traguardo prima della malattia.
Restano due giovani bolscevichi, Nikolaj Bukharin e Georgij Pjatakov, e Lenin li esamina insieme il giorno dopo. «Secondo me sono le persone più capaci tra i giovanissimi: Bukharin non solo è il teorico di maggior valore, ma è anche giustamente considerato il beniamino di tutto il partito. Ma è solo con la più grande riserva che le sue idee si possono definire pienamente marxiste, perché in lui c’è qualcosa di scolastico, e penso che non abbia mai davvero capito cosa sia la dialettica». Quanto a Pjatakov, «è certo persona di eccezionale forza di volontà, ma si lascia attirare troppo da metodi autoritari perché si possa fare affidamento su di lui». L’esame è terminato, tutti gli aspiranti alla successione hanno incassato qualche stentato elogio seguito e annullato da una critica definitiva. Tutti, meno Trotzkij che riceve l’ apprezzamento più forte («il più abile di tutti» anche se con troppa vanità di carattere), e Stalin che viene bollato con un avvertimento al partito: è un uomo di potere, ne ha accumulato troppo, non è affatto sicuro che sappia usarlo bene. Chiunque prenderà in mano il testamento, capirà. Missione compiuta.
Ma per ora la lettera viene tolta dalla circolazione e sepolta nel segreto di cinque copie battute a macchina, e Marija Volodiceva brucia i suoi fogli di appunti: cenere. Tre esemplari in busta sono consegnati a Nadezhda Krupskaja, uno a Vladimir Ilic, l’ultimo sigillato con la ceralacca e avvolto nello spago finisce in uno scomparto segreto chiuso a chiave nell’ufficio, con una scritta d’avvertimento: «Può essere aperta soltanto da Lenin oppure, dopo la sua morte, dalla moglie». Il meccanismo è innescato, e a quel punto Ilic pensa di aver sbarrato la via della successione a Stalin. Resta una domanda: se la partita è così decisiva, perché Lenin ne affida l’esito a una busta chiusa invece di dare battaglia aperta oggi, subito, qui? È in questo momento che nella sfida tra Lenin e Stalin entra in campo il terzo giocatore, “sud’ba”, il destino. Vladimir Ilic è perfettamente consapevole di dover gareggiare con la morte, alleata di Stalin: e il testamento è appunto una carta da giocare nel territorio della morte, scritto per quando lui non ci sarà più, per imbrigliare il futuro. Ma lo schema di battaglia per domani non vale oggi, perché il “Vecchio” è convinto di poter controllare, anche da malato, le dinamiche interne al partito. Aprire adesso la contesa per la successione significherebbe azzerare il suo potere di influenza già rarefatto dal male, condividere la leadership. No, il partito deve avere una sola guida, la rivoluzione non si sdoppia, finché è vivo lui è Lenin, e Lenin è il Capo.
E tuttavia l’inquietudine del futuro non se ne va. Legge quel che ha scritto, lo rilegge, sente crescere il dubbio che il suo messaggio non sia abbastanza chiaro. Si tormenta per una settimana. Poi il 4 gennaio spezza lo spago, riapre la busta e aggiunge al testo un poscritto: «Stalin è troppo violento e questo difetto, tollerabile fra di noi, diventa intollerabile nel Segretario Generale. Pertanto propongo ai compagni di togliere Stalin da questo incarico, e di nominare un’altra persona che differisca sotto tutti gli aspetti da Stalin per superiorità, e cioè che sia più paziente, più leale, più cortese, più attento alle esigenze dei compagni, meno bizzoso».
Adesso non ci sono più dubbi o equilibrismi, Lenin ha lanciato la scomunica bolscevica. Nessuno lo sa, ma qualcosa si avverte nell’aria: «Vladimir Ilic è arrabbiato per come Stalin sta preparando il Congresso – confida Lidija Foteva a Kamenev -: e prepara una bomba contro di lui”. Era una bomba a scoppio ritardato.
Nel fuoco del conflitto c’è uno spettatore silenzioso, che pensa ancora di poter ereditare tutto, mentre in realtà sta perdendo ciò che aveva ormai quasi conquistato. È Lev Trotzkij, il delfino talentuoso e superbo che rifiuta la battaglia interna perché aspetta la chiamata al soglio come un diritto, quasi lui appartenesse ad un’altra categoria rispetto a Stalin e Zinov’ev. L’ egoismo di sé, l’ombra dell’antico peccato originale menscevico, il senso di superiorità che disarma la lotta, tutto converge nel trattenere Lev Davidovic ai margini della contesa, come se la posta in palio non meritasse il suo ingaggio. Poi, inatteso, anche qui come per Lenin interviene imprevisto il Male, sotto forma di una febbre perenne che spinge Trotzkij ancora più in là, ai margini del gruppo dirigente, e infine del partito. Una domenica d’autunno era uscito a caccia tra i canneti del fiume Dubna, dove si radunano oche, quaglie, anatre, beccacce, pernici. Sentì subito l’acqua entrare negli stivali di feltro, gelida. Sul camion del ritorno cercò inutilmente di scaldarsi i piedi appoggiandoli sul motore. Chiamarono il medico: febbre crittogena, una febbre maligna che attacca, scompare, torna impennandosi e lo lascia prostrato. Le diagnosi sono incerte ma tutte lo costringono a letto, il primo medico parla di infezione sconosciuta, qualcuno tira in ballo un vecchio sospetto di epilessia, il dottor Guétier fa un’ipotesi di paludismo. Così Trotzkij è fuori gioco per tutto l’autunno e l’inverno. Lenin è a Gorkij, non può ricevere telefonate, lui al Cremlino, nelle quattro stanze del suo appartamento: perdono il contatto. Il Politbjuro intanto si riunisce da lui, in camera da letto. «Io ascoltavo dalla stanza accanto – dirà Natalia Sedova, la moglie – capivo che lui parlava col sangue, mettendoci l’anima, ma riceveva risposte fredde perché nella congiura tutto era già predisposto ogni volta nel Bjuro segreto. Lev Davidovic era solo, malato e lottava contro tutti. Dopo ogni seduta la temperatura schizzava, era bagnato fino al midollo, bisognava asciugargli la biancheria come se fosse stato sotto la pioggia. E di notte la battaglia febbricitante continuava negli incubi, col vecchio tappeto che gonfiandosi balzava nel buio come una pantera…».
Ma non c’è più tempo, i giorni stanno finendo. Venerdì Nadezda decide che Vladimir Ilic deve tagliarsi i capelli, chiama la guardia Baltrushaitis, barbiere dei soldati: rasa la testa del Capo del governo con la macchinetta, poi fa la barba col cuneo a forma di pizzetto, infine gli cura i baffi, tagliando le punte. Lenin gli stringe la mano con la sinistra, lui lo guarda mentre mette in moto la sedia a rotelle elettrica arrivata dalla Gran Bretagna e la dirige verso la stanza da letto: è l’ultima volta che lo vede. La sera del sabato Nadezhda legge a voce alta Amore della vita, un racconto di Jack London su un cercatore d’oro in Canada, e Ilic segue tutto con attenzione. Domenica arriva Bukharin per una visita e chiacchiera con Ilic prima di ripartire per Mosca. Improvviso, l’ultimo assalto del male giunge il 21, a metà di un lunedì affaticato: dopo la colazione alle dieci e mezza Lenin si assopisce in un sonno che dura fino alle due del pomeriggio, si risveglia per il pasto ma alle quattro sta di nuovo dormendo. Chiamano i medici, il dottor Foerster misura le pulsazioni a quota 86, il dottor Osipov riscontra che il paziente è tranquillo, con l’addome disteso.
Alle cinque un controllo, nulla di nuovo. Ma mezz’ora dopo il polso va a 90, il respiro si fa irregolare, la temperatura sale di colpo a 42,3 gradi. Allarme. Quando l’infermiera esce dalla camera racconta che Ilic ha un nuovo attacco, è rimasto a lungo privo di sensi, poi ha riaperto gli occhi. I medici camminano in silenzio nel corridoio, nella stanza si entra in punta di piedi, Marija spunta dalla porta avvertendo tutti sottovoce: non bussate. Adesso lui sembra dibattersi, con la temperatura molto alta, scosse violente in corpo, mentre Nadezhda seduta sul letto gli accarezza la mano umida e calda. Poi un rossore violento invade il viso. La testa si getta all’indietro con un ultimo scatto, e di colpo tutto si blocca. Respirazione artificiale immediata, oleum di canfora 2.0. L’ iperemia si è già trasformata nel pallore della fine. Lenin non si riprende, non respira: muore quando sulla Russia scende la sera. Suona il telefono, Marija Ilinichna corre al piano di sopra e risponde. È il centralino del Cremlino, la cerca Stalin: qualcuno dalla casa, vedendo i medici in affanno, si era subito preoccupato di avvertirlo dell’emergenza. «Stalin -–dice Marija – Lenin non c’è più». Nient’altro. Poi entra in sala da pranzo insieme con il comandante Pakaln, cercando una guardia affezionata al “Vecchio”: «Compagno Chibanov, venite, mandiamo via tutti. Dobbiamo lavare Vladimir Ilic».
Poco meno di un’ora dopo arriva la notizia che dal Cremlino è partita una motoslitta diretta a Gorkij, con Tomskij, Kalinin, Bukharin, Stalin, Kamenev e Zinov’ev. Un viaggio di due ore nel buio, in silenzio sul ghiaccio, con i fiocchi di neve che pungono il viso. Su quella slitta, infagottato tra le ambizioni degli altri dirigenti, viaggia quasi nell’anonimato politico il nuovo padrone delle Russie, ufficialmente per rendere omaggio all’uomo che ha preparato la rivoluzione nei vent’anni d’esilio, e l’ha trasformata in governo nei sette anni del potere: ma in realtà per inaugurare una stagione terribile, che comincia proprio questa notte, con una radicalizzazione patologica e criminale della dittatura leninista. Sembrano saperlo i lupi. All’ora della passeggiata serale con Lenin, il compagno Pakaln esce da solo e arriva alle soglie del bosco, dove nella confusione della giornata tutti avevano dimenticato le esche predisposte per la caccia. Dei due cavalli non c’è più niente, solo resti sbranati. I lupi sono scesi fin qui, non volevano mancare nella prima notte feroce della “Grande Epoca”.
Perché? È la domanda che Trotzkij fa a se stesso, e che un giorno rivolge a Bukharin. La risposta è una confessione: «Perché abbiamo paura di voi». Inspiegabilmente, Trotzkij non capitalizza questa paura, anzi si sottrae alla contesa per il potere. Sembra che gli basti l’intesa evidente con Lenin, davanti a tutto il partito. Ma Lenin non può intervenire al XII Congresso, a metà aprile 1923, e senza l’evidenza del suo patronato Trotzkij non si muove, resta tra le file, rifiuta di tenere la relazione ufficiale, che lascia a Zinov’ev. Lui ancora una volta aspetta l’occasione propizia, sempre rinviando il momento. Che sembra finalmente giunto quando Lenin viene a sapere degli insulti telefonici di Stalin a Nadezhda. Gli scrive immediatamente: «Egregio compagno Stalin, avete avuto la grossolanità di insolentire mia moglie al telefono. Benché lei sia pronta a dimenticare, io non ho intenzione di scordare tanto facilmente ciò che è stato fatto contro mia moglie, e non c’è bisogno di dire che lo considero fatto anche contro di me. Perciò vi prego di farmi sapere se acconsentite a ritirare le vostre parole e a scusarvi, o se preferite rompere i rapporti tra noi». Stalin legge in piedi il messaggio “Segreto e Personale”, davanti a Marija Volodiceva che glielo consegna a mano. Le chiede di non andarsene, e mentre scorre la lettera commenta a bassa voce: «Non è Lenin che parla, è la sua malattia». Poi detta alla stessa segretaria di Ilic la risposta: «C’è stato un malinteso. Ma se per mantenere un rapporto devo ritirare le parole che ho pronunciato, posso farlo, anche se non riesco a capire di che cosa io sarei colpevole in questa storia, e che cosa esattamente si vuole da me». Le scuse ci sono, estorte e inutili: la scortesia rimane, questa volta scritta e firmata: Stalin.
Una vibrazione negativa attraversa ormai il vertice sovietico. Kamenev e Zinov’ev hanno ricevuto copia della lettera di Lenin, Stalin ha spiegato ai compagni che Nadezhda deve sottostare alle regole come gli altri iscritti al partito, le segretarie di Ilic fanno filtrare l’ irritazione del “Vecchio” e la sua diffidenza per il GenSek. È come se una rivelazione facesse capire a Lenin – nell’ultimo atto della sua vita – l’errore compiuto nella costruzione della piramide bolscevica del potere. Solo lui può correggerlo: ma farà in tempo? Nel paradosso della fine, il culto di Lenin cresce mentre la sua autorità politica declina, diventa immateriale: addirittura, quando l’ultimo articolo di Ilic scritto il 10 febbraio 1923 crea imbarazzo al vertice perché critica apertamente «l’Ispettorato degli operai e dei contadini» controllato da Stalin, il Bjuro non sa che fare, lo tiene fermo per 22 giorni e lo pubblica solo il 4 marzo, dopo aver esaminato l’idea cervellotica di stampare un’edizione fasulla della Pravda in una sola copia per Lenin, ingannandolo.
Chi torna da Gorkij porta notizie contrastanti. Ilic parla, sia pure faticosamente, soprattutto capisce. Ma il nipote non è sicuro che lo abbia riconosciuto, in giardino lo sguardo sembrava oltrepassarlo, fisso su qualcosa che non c’era. Un leggio lo aiuta a scorrere il libro senza doverlo sorreggere con l’unica mano che può usare. Quando urla, all’improvviso, il compagno Pakaln lo prende in braccio e lo porta in casa avvolto nella coperta. Durante la passeggiata serale chiede dei sassolini da lanciare nel cespuglio per mettere in fuga l’usignolo che col suo canto lo sveglia troppo presto al mattino. Un medico lo osserva dalla panchina, gli appare imbambolato, senza riflessi, ma chinandosi su di lui si accorge che sta piangendo. Insiste per tornare nel bosco coi cani, per quei finti safari. Questa volta le guardie preparano addirittura una caccia al lupo, posizionano i cadaveri di due cavalli in uno spiazzo, poi si allontanano lasciando che nel silenzio della foresta l’esca attiri i lupi fin lì, nella radura. L’appuntamento è per domani, lunedì 21 gennaio 1924.