La Stampa, 1 luglio 2024
Intervista a Rosella Sensi
Rosella Sensi, perché ha deciso di ricominciare come sindaca di un piccolo comune dell’Italia interna?«Per tornare a un luogo che amo, dove mio nonno era stato sindaco negli Anni Sessanta e mio padre fra il 1985 e il 1995. Perché sento una profonda appartenenza per questa terra e per senso di responsabilità nei confronti dei cittadini. Ho deciso di fare questo passo perché Visso, benché piccola, ha una grande storia: vorrei che tornasse a essere la perla dei Monti Sibillini».
Visso per tutti è uno dei comuni colpiti dal terremoto del 2016. A che punto è la ricostruzione?
«È iniziata. Ma c’è molto da fare. Bisogna ricostruire in fretta e riportare le persone a vivere qui».
Ma lei ci sarà o farà la sindaco a distanza?
«Ci sono e ci sarò. Ho preso un impegno con i cittadini. Non si può fare il sindaco da lontano».
È vero che Silvio Sensi, suo nonno, già sindaco di Visso è stato fra i fondatori della Roma?
«Verissimo. La Roma nasce nel 1927 dalla fusione di alcune società, mio nonno era dirigente nel Borgo Pio. Dirigente, ingegnere e appassionato, fornì anche il legname per costruire le tribune al Testaccio».
Lei è stata presidente di quella squadra dal 2008 al 2011. Soffre a stare lontano dal calcio?
«Come tutte le persone che amano quel mondo, mi dispiace molto. Ma è una circostanza di fatto: dovevo passare il testimone per vedere la Roma splendere come merita. Doveva andare così, anche se con modalità diverse».
Vuole dire qualcosa sulle modalità?
«Appartengono al passato».
Sono spariti tutti?
«Qualcuno può anche aver di dimenticato in fretta, si sa come vanno le cose. Ma molti altri sono rimasti. Il calcio ha il potere di creare legami fortissimi che durano nel tempo».
Chi è rimasto?
«Non voglio far torto a qualcuno. Ma se devo dire quattro nomi, solo quattro nomi, eccoli: Bruno Conti, Daniele Pradè, Gigi Di Biagio e Francesco Totti».
Suo padre considerava Totti alla stregua di un figlio. Oggi come lo vede? Non è facile uscire di scena.
«Io, scherzando, lo chiamo fratellone. Francesco era il figlio maschio che mio padre non ha mai avuto. Io credo che continui a essere il simbolo di un calcio più romantico, un mondo a cui si dovrebbero ispirare i bambini. Si può nascere a Roma, nel quartiere di Porta Metronia e diventare campione nella tua città, nella tua squadra, senza mai perdere i valori con cui sei stato cresciuto».
Lei non lo avrebbe mandato via?
«No, mai. Anche perché definirlo un simbolo è riduttivo. Francesco Totti sarebbe in grado di dare molto come dirigente, non solo per quello che ha fatto e per quello che rappresenta».
Dal calcio a conduzione famigliare al calcio degli americani. Dai padroni ai fondi di investimento. Cosa pensa della nuova era?
«Penso che la Roma sia una squadra fortunata. Perché sta nel mezzo. Coniuga entrambi i mondi. Anche se la proprietà è straniera, è ben definita. C’è qualcuno – adesso – che si fa vedere. La famiglia Friedkin è presente e organizza la società».
Con Luciano Spalletti vi eravate lasciati male. E poi?
«No, non ci eravamo lasciati male. Anzi, quando è morta la mia mamma, venne a Roma per farmi un saluto. Ci siamo rivisti anche poco tempo fa, ci siamo salutati calorosamente».
Come definirebbe il ct della nazionale italiana dopo il disastro agli Europei?
«È un gradissimo professionista, e tale resta. È una persona molto seria».
Le piaceva Mourinho?
«Certo. Molto. A chi non piace uno così?».
Secondo alcuni sostituirlo con Daniele De Rossi, cioè con una bandiera, è stato solo un modo per tenere buoni i tifosi. Secondo lei?
«Lo so quello che dicevano all’inizio, ma Daniele ha dimostrato di essere un ottimo allenatore. Forse qualcuno non lo conosceva abbastanza».
Qual è il suo rimpianto più grande?
«Non avere fatto una buona comunicazione. Voglio dire: non essermi fatta conoscere. La comunicazione è fondamentale, l’ho capito troppo tardi. Forse al tempo della mia presidenza avrei dovuto spiegare meglio, raccontare quello che stavamo vivendo. È questo è il mio grande rimpianto».
Qual è la lezione più grande che ha imparato da suo padre Franco?
«Mio padre non solo era un imprenditore unico, eccellente, lui era un’entusiasta della vita, una persona determinata. Aveva conservato lo spirito di un giovane anche quando non lo era più. Spero di aver preso qualcosa da lui».
Non ha paura di sentirsi sola a Visso?
«No. In posti così, nei piccoli centri, i rapporti umani sono più intensi, c’è più attenzione per le persone. Nelle grandi città come Roma, è tutta una corsa contro il tempo».
Alla fine, a freddo, che bilancio fa della sua esperienza alla presidenza?
«È stata un’esperienza professionale e umana unica, pur con tutte le difficoltà e le sofferenze che ci sono state. Io sono diventata mamma nei giorni della contestazione. Mia figlia aveva un mese, non è stato facile. Sono stata contestata abbastanza ferocemente. Ma porto nel cuore quel tempo. Il bilancio è assolutamente positivo. I fatti e la storia sono inconfutabili».
Ma davvero quando la Roma perdeva suo padre vi obbligava a mangiare la minestrina per ragioni di tristezza?
«Tutti chiusi in casa, sì. A casa con la minestrina».
E adesso, nella sua nuova vita qual è il suo obiettivo per non doversi costringere a mangiare la minestrina?
«Ci terrei a mettere le basi per il futuro di Visso: deve tornare a essere quello che merita. Ci sono frazioni incantevoli che vanno curate, qui c’è la sede del Parco dei Sibilini. A pochi chilometri abbiamo la fioritura delle lenticchie di Castelluccio. Sono luoghi unici, magici. Vanno curati e valorizzati».
La Magica. Si può mettere qualcosa del tempo della Roma nel suo nuovo incarico politico?
«Certamente. La passione è un modo di stare al mondo».
Nel concreto quale sarà la sua prima mossa?
«Le mosse non si annunciano, si fanno. Gli esempi valgono sempre molto di più delle parole. Anche se adesso lo so, perché l’ho imparato a mie spese, le parole sono molto importanti».