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 2024  luglio 01 Lunedì calendario

Lamberto Dini ricorda i suoi giorni a Palazzo Chigi, le minacce ricevute, le ostilità tra Scalfaro e Berlusconi e il caso Mancuso

«Io gli davo del lei e lui mi dava del tu». E per sedici mesi, dal 15 gennaio del 1995, andò avanti così tra Lamberto Dini e Oscar Luigi Scalfaro. Da quando cioè il ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi divenne presidente del Consiglio. Se l’ex direttore generale di Bankitalia riapre oggi il diario di quei giorni non è per parlare del famoso «ribaltone», ma dei rapporti con l’allora capo dello Stato. Dei suoi colloqui riservati al Quirinale, avvenuti durante una stagione politica turbolenta, caratterizzata anche da atti di governo impegnativi.
«Grazie ai sindacati – rammenta Dini – varammo la riforma del sistema previdenziale: alzammo l’età pensionistica, cancellammo i privilegi dei dipendenti pubblici che potevano smettere di lavorare a 40 anni. I segretari di Cgil, Cisl e Uil, Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza dimostrarono un grande senso di responsabilità. E con loro strinsi un accordo riservato: se il Parlamento avesse tentato di indebolire la riforma, io non avrei accettato le modifiche. Mi feci garante dell’intesa per impedire la delegittimazione del sindacato. Quanto alla legge elettorale per le Regioni, a dare un contributo rilevante fu Pinuccio Tatarella, un politico che si muoveva in modo indipendente in Alleanza Nazionale e con il quale diventammo amici di famiglia. Quella legge è ancora in vigore».
Tutto avvenne sotto la regia del Quirinale.
«Vedevo il presidente Scalfaro ogni giovedì mattina, prima del Consiglio dei ministri del giorno dopo».
C’era confidenza tra voi?
«C’era grande cordialità, che proseguì anche al termine del mio mandato. Conservo con cura le sue lettere, nelle quali mi esprimeva gratitudine per quanto avevo fatto al governo. Scriveva che mi sarebbe stato sempre vicino. Non mutò il modo in cui ci parlavamo: io continuavo a dargli del lei, mentre lui si rivolgeva a me dandomi del tu».
Cordialità ma non confidenza, insomma.
«È così. Per questo su taluni argomenti ci fu sempre una certa prudenza da parte mia quando sedevo a palazzo Chigi».
In che senso?
«Per esempio, quando il presidente parlava di Silvio Berlusconi avvertivo una forte ostilità nei suoi riguardi. Non ne ho mai capito il motivo e siccome lui non me lo ha mai spiegato, non mi sono mai spinto a chiederglielo. Probabilmente era dettato dal fatto che Berlusconi veniva considerato come un’entità esterna al sistema politico. Ed era vissuto come un elemento imprevedibile».
Vuol dire che Scalfaro temeva questa sua imprevedibilità?
«Sì. Solo questo posso dire, non posso dire altro su questo. Inoltre, siccome era stato Berlusconi a fare il mio nome per succedergli a palazzo Chigi, Scalfaro aveva difficoltà a esternare appieno i suoi risentimenti nei confronti del leader di Forza Italia».
Berlusconi a sua volta era risentito con lei, quando lo sostituì a palazzo Chigi.
«Ma fu lui a telefonarmi per dirmi “Lamberto tocca a te”».
E se ne pentì.
«Berlusconi allora era soggetto a pressioni da parte dei suoi alleati: Gianfranco Fini voleva tornare subito alle urne perché convinto che il centrodestra avrebbe rivinto. Ma il presidente Scalfaro non accettava di rimandare il Paese al voto nove mesi dopo l’inizio della legislatura: fu lui a suggerire la creazione di un governo di transizione. E chiese a Berlusconi un’indicazione. Durante il confronto il leader di Forza Italia insistette perché il governo fosse composto solo da non parlamentari. Poi provò a fare marcia indietro, chiedendo che alcuni esponenti del suo governo partecipassero al nuovo. A partire dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta».
Lei non accettò.
«Scalfaro non lo avrebbe accettato anche se glielo avessi proposto. Il mio sarebbe stato un governo di soli tecnici».
Vi sentiste in quei giorni con Berlusconi?
«Certamente. E durante le nostre telefonate si diceva molto turbato dalle pressioni che riceveva anche dall’interno del suo partito. Tanto che nella fase di formazione del governo arrivai a subire pesanti minacce personali».
Minacce?
«Ricordo una telefonata dai toni intimidatori: “Ti consiglio di ritirarti”, mi venne detto. Ci si rende conto? Ci si rende conto?».
Chi le fece la telefonata?
«Ovviamente andai avanti».
Non vuole nemmeno dire quale fu la minaccia?
«... E andando avanti ricevetti invece il sostegno del segretario del Partito democratico della sinistra, Massimo D’Alema: “Procedi, noi ti sosterremo”».
E stilò la lista dei ministri.
«Scelsi personalità come l’economista Rainer Masera, il tributarista Augusto Fantozzi, il più grande esperto di energia Alberto Clo, il famoso direttore dei musei Vaticani Antonio Paolucci alla Cultura. Scalfaro volle darmi alcuni suggerimenti. In particolare insistette per Susanna Agnelli: “Sarebbe un buon ministro degli Esteri”, mi disse. E io accettai. Così, quando arrivai in Parlamento per chiedere la fiducia, mi rivolsi alla parte che mi aveva proposto come presidente del Consiglio, chiedendo il loro sostegno. Ma Berlusconi decise di astenersi».
E iniziò per lei una navigazione non facile.
«Ma non per questo mi abbattei. Anzi, oltre agli obiettivi di programma volevo fare qualcosa di importante anche sulla giustizia. Guardando ai modelli giudiziari dell’Occidente, in nessun Paese esisteva – come in Italia – un così stretto connubio tra procuratori e giudici. Perciò sollevai la questione con Scalfaro».
Gliene andò a parlare?
«Gli rappresentai che c’era un Consiglio superiore della magistratura dominato dalle correnti politiche e che c’era la necessità di riformarlo per renderlo più indipendente. E poi affrontai il tema della separazione delle carriere dei magistrati».
E Scalfaro cosa le rispose?
«Mi disse: “Guarda, il tuo è un governo di programma e il tuo mandato non è molto lungo. Non sei in condizione di affrontare problemi di questa portata che richiedono tempo. Al momento quello a cui potremmo pensare è la separazione delle funzioni”. Capii che dovevo abbandonare il discorso, perché mi fu chiara la sua contrarietà. Tuttavia se posi il problema fu perché Scalfaro – come tutti i presidenti della Repubblica – era anche presidente del Csm. Era suo interesse che la giustizia funzionasse. Eppure su questo tema molto delicato siamo ancora al punto di partenza».
È un tema delicato ancora oggi, figuriamoci allora. In più lei dovette gestire anche il caso di Filippo Mancuso, il suo ministro della Giustizia che venne sfiduciato al Senato.
«Dovetti vivere anche quello. Mancuso aveva una visione molto particolare nella gestione del suo ufficio. Riteneva di avere poteri costituzionali che a mio avviso invece non aveva. Per le sue prese di posizione, compresa la volontà di mandare gli ispettori alla procura di Milano, si creò una grande ostilità con il Pds. Che presentò la mozione di sfiducia».
Parlò di quella mozione con il capo dello Stato per evitare che venisse votata?
«Verso Mancuso c’era un’ostilità molto forte anche da parte di Scalfaro. E non fui in condizione di difendere il ministro. Da quel momento si interruppero i rapporti con Mancuso. Finché dopo qualche anno volli riappacificarmi con lui. Ricordo che si commosse durante il nostro incontro».
Sedici mesi passano in fretta: stava avvicinandosi la fine del suo governo.
«E nel gennaio del 1996 ci fu una conversazione al Quirinale durante la quale il presidente mi chiese cosa volessi fare. Il mio governo, osteggiato dal centrodestra, era stato invece appoggiato dal Pds e perciò mi orientai verso le forze politiche che mi avevano sostenuto. Il suggerimento di Scalfaro, sebbene non esplicitato chiaramente, fu di aderire al Partito popolare Italiano. Ma la mia formazione di stampo liberaldemocratico mi portò a fondare Rinnovamento italiano: insieme ai Socialisti di Enrico Boselli, nella coalizione dell’Ulivo di Romano Prodi, ottenemmo il 4,3%. Senza di me la sinistra non sarebbe mai andata al governo».
Berlusconi se la prese di più perché si alleò con Prodi o perché aveva varato la legge sulla par condicio televisiva?
«Lui diceva sempre “Lamberto è amico mio”. Ma per quelle norme trovò il modo di farmi arrivare i suoi lamenti».
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