Estratto dell’articolo di Chiara Maffioletti per “Sette - Corriere della Sera”, 30 giugno 2024
“MIO PADRE NON MI HA MAI DETTO ‘BRAVO’” – PIATTI, SAPORI E DOLORI DI ANTONINO CANNAVACCIUOLO: “HO AVUTO LA FORTUNA E LA SFORTUNA DI AVERE UN PAPÀ CHEF. MI VOLEVA MEDICO, O ARCHITETTO. SO CHE SI VANTA DI SUO FIGLIO CON GLI ALTRI, MA NON CON ME” – “VERSO LA FINE DEGLI ANNI ’90, CI SONO STATI DUE ANNI DI CONTINUI SBAGLI. VOLEVO STUPIRE, A TUTTI I COSTI. STUPIRE CON ABBINAMENTI STRANI, SBAGLIAVO” – “QUANDO LEGGO DI GENTE CHE INSORGE PERCHÉ SI CAMBIA UN INGREDIENTE DA UN PIATTO TIPICO...” – VIDEO -
Più che di incubi, per Antonino Cannavacciulo bisognerebbe parlare di sogni. Perché per lo chef dalle sette stelle – e dall’altrettanto luminosa carriera in tv, dove dal 16 maggio è tornato con una nuova stagione di Cucine da incubo (su Sky Uno e in streaming su Now) – la cucina resta questo, il suo desiderio realizzato, il suo posto di pace.
«Succede anche a chi ha l’hobby della palestra: si sveglia prima per andarci, dice che una volta lì poi si sente meglio. Ecco, questo a me capita con la cucina: starci non è mai una fatica, io mi diverto. Ci apro la giornata e cerco di rimanerci: è il posto più bello dove io possa stare, dove sono davvero tranquillo. Se mi togli dalla mia cucina io ho finito di vivere».
Addirittura? «Ma certo, in cucina, con gli chef che lavorano come me, cerchiamo sempre di inventare cose nuove: sperimenti e vedi se nasce qualcosa... per questo faccio di tutto per esserci, anche quando registro. Ogni volta che posso torno a Villa Crespi e questa è la mia fortuna, quello che ci ha portato alla terza stella. Il mio primo obiettivo era, è e sarà sempre la cucina».
Ma è un dato di fatto che, con la popolarità raggiunta attraverso la tv, la sua vita è cambiata, no? «È vero, è cambiata. Ha fatto crescere molte cose, ma il mio percorso era già scritto: già sapevo quello che volevo fare, la mia idea di imprenditoria legata al cibo. I primi soldi arrivati dalla tv li ho investiti sulla società, in primo luogo per far stare meglio chi ci lavora: ho rinnovato tutta la cucina di Villa Crespi, l’ho resa una cucina professionale, così come Laqua o il Banco di Cannavacciuolo (gli altri suoi ristoranti)».
Nel 2013 ha debuttato in tv proprio con Cucine da incubo. «È un programma a cui sono molto legato perché l’obiettivo è rendere felici le persone. Spesso, quando riparto, la gente piange: questo dà l’idea di quanto mi dedichi, anima e corpo al risollevare un ristorante in un momento di difficoltà. Ogni volta ci passo tre giorni e sono sempre tre giorni di fatica di lavoro».
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Prima regola per riuscirci? «Orari. Non si può pensare di entrare in servizio alle 11.30 per poi aprire alle 12. Già le nonne o le mamme, quando volevano fare qualcosa di buono, iniziavano a cucinare alle 6 del mattino. Ti alzavi e nell’aria già sentivi quel profumo di cipolla... serve quel tipo di amore».
Non deve essere semplice farlo tornare in chi l’ha perso, vero? «Per me è un allenamento. Mi alleno e poi torno a fare le partite nella mia cucina. […] Come quando mi sono accorto che, usando una padella di ferro, una crosticina era venuta ancora meglio del solito. Da noi le padelle di ferro non ci sono più, ma in quella cucina l’avevo dovuta usare perché c’era solo quella. L’ho ricomprata».
Pensa che tre giorni possano bastare per cambiare il destino di un ristorante? «Io non ho la bacchetta magica: in tre giorni posso cercare di ridare la motivazione che si era persa, far aprire gli occhi sul proprio locale... non accetterei che il lavoro che facciamo sul ristorante non fosse serio, anche parlando del rinnovamento del locale, che non è solo facciata. Ma se dopo tutto questo non cambiano le abitudini, è chiaro che i tre giorni non bastano. Quello che so è che io torno sempre a casa con la coscienza a posto, oltre che distrutto, perché so che ho dato mentalmente e fisicamente tutto quello che avevo». […]
Sapeva di essere un bravo chef. Mai avuto dubbi di non essere abbastanza bravo in tv? Magari prima del debutto? «Sono entrato a Villa Crespi che avevo 23 anni e lavoravano con me 15 persone. Era una sfida fatta in un’età che è anche quella giusta per sbagliare. Oggi siamo in 70. Per farlo è stato fondamentale comunicare, motivare le persone, creare una squadra. Già vent’anni fa dicevo che il servizio vale più della sala, per dire».
Una visione che purtroppo non condividono tutti i suoi colleghi ristoratori. Pensa che in Italia ci si stia un po’ adagiando, magari forti del motto che la nostra è la cucina migliore del mondo? «La “nostra” cucina non esiste, la cucina è una sola: quella buona. Di certo in Italia abbiamo dei grandissimi prodotti, i migliori, e ogni campanile ha la sua ricetta. Ma la cucina ha sapori e contaminazioni da tutto il mondo. Ogni tanto leggo gente che insorge perché si cambia un ingrediente da un piatto tipico, e a me viene allora voglia di farlo, per provocazione: non stiamo salvando vite umane, la cucina è piacere, bisogna farla come più ci ingolosisce».
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E, quando ancora non c’erano le telecamere, è mai entrato in una cucina da incubo? «Ho avuto la fortuna e la sfortuna al tempo stesso di avere un papà chef, così sono entrato da subito in cucine 5 stelle. Grazie a una consulenza di Marchesi nel ristorante in cui lavoravo ho capito cosa fosse il mondo stellato: fino a quel momento pensavo di essere bravo, invece di colpo sono passato dalle medie all’università».
Non semplice... «In quel periodo avevo perso in poco tempo 15 chili: ero arrivato a pesare 78 chili per la concentrazione che davo al lavoro. Quando tornavo a casa leggevo libri di cucina, ero dedito al cento per cento. Poi, verso la fine degli Anni 90, ci sono stati due anni di continui sbagli».
In che senso? «Volevo stupire, a tutti i costi. Stupire con abbinamenti strani, insomma, sbagliavo. Poi, dal 2002 ho iniziato a parlare di ingredienti e le cose sono cambiate».
Suo padre non voleva facesse lo chef. Oggi le ha detto che è bravo? «Quando me lo dirà ve lo dico – ride –. Ormai tra noi c’è un gioco: gli preparo qualcosa e poi gli chiedo “allora papà, ho imparato qualcosa?”. Ma lui niente. So che si vanta di suo figlio con gli altri, ma non con me».
Cosa sognava per lei? «Lui oltre a quello di chef faceva altri due lavori, si è impegnato moltissimo per noi. Forse per questo mi voleva medico, o architetto, avvocato... io mi sono impuntato e a 13 anni gli ho detto: o mi fai fare il cuoco o non faccio niente».
Le soddisfazioni sono arrivate presto. «Nel 2003 uscì la mia prima copertina su una rivista, ad ottobre. Dentro, il giornalista scriveva che il mio era probabilmente il miglior ristorante d’Italia. Io ero felicissimo, davvero allora non mi conosceva nessuno. Non volevo spedire il giornale a mio padre, ho aspettato gennaio per darglielo a mano. Lui ha visto la copertina e non si è scomposto, è andato a leggere l’articolo. Poi è tornato, mi ha ridato il giornale e mi ha detto: se è vero quello che c’è scritto allora ci dovrà essere un seguito, se no non è vero niente».
Ecco. Il seguito c’è abbondantemente stato. «Diciamo che mio padre, a differenza mia, è un grande comunicatore anche senza parlare. Il suo esempio è il mio più grande insegnamento. È stato forse poco presente ma, al tempo stesso, un vortice addosso a me. Mi ha dato tanto, così come a tutta la sua famiglia per farci stare bene. La struttura che gestisco a Vico Equense l’aveva pagata lui: aveva puntato tutto su una attività per me, per suo figlio».
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Lei è uno chef in grado di dare motivazione a tanti colleghi. C’è qualcuno che ha fatto questo con lei? «Diversi, penso a Pierangelini, Vissani, Marchesi. Ma anche Ezio Santin: quando sono andato a mangiare all’Antica Osteria del Ponte ho detto “Wow”. È stata una luce che si è accesa nella mia vita». E non si è spenta più.