la Repubblica, 30 giugno 2024
Il Gattopardo, il mistero del regista. Prima che Visconti firmasse il suo capolavoro, il film era stato affidato a un altro cineasta. Quella sceneggiatura, che non piacque alla Titanus, riemerge in un libro
Questo testo è tratto da un capitolo inedito nella nuova edizione di “Operazione Gattopardo. Come Visconti trasformò un romanzo di destra in un successo di sinistra” di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, edito da Feltrinelli, in libreria dal 2 luglio.
«È una storia oscura, mai chiarificata. Giannini era un bravo regista, e credo che Lombardo avesse commissionato il primo progetto a lui. Poi lì ci sono stati degli intrighi che non so dire. O forse non è il caso di dirli. Non è mai stato chiarito esattamente». Enrico Medioli, uno degli sceneggiatori del Gattopardo, rispose così quando gli chiedemmo notizie del progetto che Ettore Giannini preparava per la Titanus prima che l’incarico passasse a Luchino Visconti.
Una copia del lavoro di Giannini è stata fortunatamente conservata: è una sceneggiatura di 193 pagine, messa a disposizione da Caterina d’Amico, figlia della grande sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico. Il titolo in frontespizio è Il Gattopardo,«libero adattamento di Ettore Giannini»; data di stesura «dicembre 1959-febbraio 1960». Dall’analisi di questo dattiloscritto può arrivare la risposta a perché il film passò da Giannini a Visconti.
Nel Gattopardo di Giannini ci sono la gran parte dei fatti narrati nel
Gattopardo di Lampedusa (e con più dovizia di quelli scelti da Visconti): l’udienza da Ferdinando II, il rosario, il cadavere del soldatino borbonico in giardino, l’arrivo di Angelica, l’attrazione di Tancredi per la ragazza, la caccia con Tumeo, il plebiscito, le soffitte, il ballo, Chevalley, la morte del principe. A tutto questo però Giannini aggiunge fatti storici, accaduti nell’arco temporale in cui si svolgono gli eventi (1860-1885) e diverse scene di sua creazione. Inoltre racchiude tutto il film in un viaggio da Roma alla Sicilia.
È evidente che Giannini volesse fare del Gattopardo un film sul Risorgimento e sulla disunità d’Italia. E quale film! Voleva tornare proprio là dove la ferita si era aperta senza più rimarginarsi; e con plastica preveggenza (oggi, sessantacinque anni dopo, il Mezzogiorno è ancora privo di una linea ferroviaria ad alta velocità) prende come tangibili testimoni della disunità d’Italia le strade ferrate del Sud sulle quali viaggiano don Fabrizio e Concetta.
Seguendo i pochi accenni che Lampedusa fa a proposito del ritorno di Don Fabrizio in treno da Napoli a Palermo, «trentasei ore rintanato in una scatola rovente», Giannini segue il principe ormai vecchio emalato, in un viaggio che sarà occasione di una profonda presa di coscienza, cornice di una struttura a flashback dove si incastrano episodi del romanzo ed episodi nuovi, e costruendo gradatamente un graffiante j’accuse sulla disunità d’Italia.
«L’Italia s’impara dal Sud» e «Il Sud ha bisogno d’amore» sono le due frasi-chiave di una requisitoria appassionata, assai più vicina al disincanto sardonico e mortuario di Lampedusa che alle nostalgie nobiliari del conte Visconti. Per dire quel che vuole dire, Giannini inventa per il principe un compagno di viaggio: un giovane funzionario romagnolo spedito in Meridione per preparare il censimento. Trovandoci nel 1885, venticinquesimo anniversario dell’Unità d’Italia, il treno viene invaso da ex camicie rosse, in cammino verso una manifestazione in Sicilia; mentre si attende il traghetto per Messina, un plotone di bersaglieri s’imbarca per Massaua, creando un parallelo fra il colonialismo italiano in Africa e la conquista sabauda del Sud d’Italia.
Durante il lento avanzare del treno per le stazioncine della Sicilia, la tensione aumenta: ci sono dei feriti, si chiede ai viaggiatori se fra loro c’è un medico. Giunto in provincia di Enna, il trenino che «s’arrampica stancamente tra gole di roccia, selve di fichi d’India» incrocia primadei minatori, poi contadini che marciano verso le terre promesse, mentre soldati e carabinieri li aspettano armi in pugno. Dopo poco si consumerà la tragedia dove è facile vedere evocata la strage di Portella della Ginestra (che un anno e mezzo dopo verrà ricostruita dall’ex assistente di Giannini, Francesco Rosi, in Salvatore Giuliano): nella carneficina morirà, in mezzo ai contadini, il giovane compagno di viaggio del principe, davanti agli occhi di don Fabrizio disperato.
Il romanzo di Lampedusa è quasi interamente compreso dalla sceneggiatura di Giannini; e l’unica parte mancante, quella finale con Concetta invecchiata, la ritroviamo nello spirito della cornice, disilluso e senza speranza. Malgrado le nuove scene ferroviarie, l’aderenza al pensiero di Lampedusa ci appare qui intimo e profondo più di quanto sarà il film di Visconti.
Ettore Giannini sperava forse di trovare in un altro napoletano una visione condivisa, ma Goffredo Lombardo, il patron della Titanus, puntava ad avere il suo Via col Vento.
Giannini gli offriva invece un Cristo si è fermato ad Eboli vissuto nella pelle, negli sguardi e nei ricordi di un aristocratico del Sud prossimo alla morte. D’altra parte Giannini non aveva rimpianti di infanzie aristocratiche da far rivivere, più che all’autenticità dei pizzi e degliarredi era interessato a quella dei fatti storici e dello stato delle cose in Italia. Così se in Visconti la figura di Don Fabrizio domina la scena, in Giannini la Questione Meridionale riempie tutto il film. Se in Visconti ci sarà Gramsci, in Giannini ci sono soprattutto Villari e Fortunato.
Che queste pagine abbiano scoraggiato Lombardo è comprensibile. La scrittura ha un impeto, una vivacità strutturale e quasi una sgradevolezza inusitati per il cinema italiano dell’epoca. Il Gattopardo di Giannini sembra più il copione di una pellicola degli anni Settanta,qualcosa che avrebbe potuto girare anche Visconti ma il Visconti di dieci anni dopo, fra La caduta degli deieMorte a Venezia; oppure uno script per Francesco Rosi, il Rosi di
Le mani sulla città, un’opera di denuncia prima che d’intrattenimento.
Un film del genere avrebbe potuto incontrare problemi in sede di censura, e sollevare polemiche parlamentari anche robuste. Ciò che Lombardo voleva – ed evidentemente Visconti e Cecchi d’Amico sentirono di potergli garantire – era unVia col vento italiano, nostalgico e spettacolare. Per averlo bisognava addomesticare le parti più oscure e mortuarie e accantonare i fastidiosi attacchi al mito risorgimentale che, sommersi in Lampedusa, in Giannini si erano fatti spudorati.