Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 30 Domenica calendario

Intervista a Lino Banfi

Sport, per carità.
Neanche da ragazzo ho giocato a pallone.
Mai.
Però mi hanno rotto il menisco.
Chi?
Ero in vacanza negli Stati Uniti, in un enorme albergo di Las Vegas: arriva un pullman, erano tutti italiani. Sento chiamare il mio nome “Lino, Lino!”. Scendono. Foto e abbracci. Una di loro s’impunta: “Sto accanto a lui, sono la capogruppo!”. Spingi e spingi, sono caduto: menisco rotto. Subito a Roma.
Dolore.
Operato dall’ortopedico dei calciatori.
(Oltre al menisco, Lino Banfi è cittadino onorario del pianeta calcio. Quarant’anni fa è uscito al cinema “L’allenatore nel pallone”, autentico cult-movie per chi ama il rettangolo da gioco e le sue magie, spesso follie. Il suo Oronzo Canà, la B-Zona, il 5-5-5, sono dei richiami assoluti, delle certezze pratiche, un metro di paragone per indicare il Rubicone di chi capisce e chi improvvisa.)
Nel film ci sono dei passaggi che oramai fanno parte del linguaggio comune.
Con i registi ho sempre stretto un patto: va bene la sceneggiatura, ma dopo il “ciak si gira” lasciatemi fare. Se poi vi piace quello che ho combinato, bene, altrimenti tagliate.
Anche ne L’allenatore
Molte delle battute, forse le migliori, sono nate al momento, non erano scritte.
Tipo?
La scena finale, quando i due gemelloni, nel film dei capi ultrà, mi prendono sulle spalle per festeggiare, gli urlo: “Mi avete preso per un coglione!” “No, sei un eroe”. “No, mi avete preso per un coglione!”… ecco, quella non doveva andare esattamente così; i due erano dei generici, non attori professionisti e sono morti a distanza di un mese dello stesso male; (pausa, cambia tono) lo sa com’è nata l’idea del film?
Leggenda vuole grazie al “Barone” Nils Liedholm.
Esatto; fu lui a parlarmi di Oronzo Pugliese, celeberrimo allenatore di calcio; celeberrimo per i suoi atteggiamenti particolari, le sue intemerate, le sue scaramanzie.
Personaggio colorito.
Si infilava nelle stanze dei calciatori per evitare la presenza di fidanzate, o si portava un gallo nascosto sotto il cappotto e lo mostrava in caso di vittoria.
Altro che colorite.
La domenica sera spesso prendevo l’aereo per andare a Milano e ogni tanto su quel volo trovavo proprio Liedholm; una volta ci sediamo vicini. E lui (imita benissimo la sua voce): “Ti ho visto, sei bravo. Hai mai fatto film su allenatore?”. No. “Sei di Puglia?”. Sì, mister. “Vai a vedere Oronzo Pugliese: puoi girare film su allenatore pazzo”.
E così?
Ci ho pensato tre giorni, al terzo chiamo Sergio Martino (regista della pellicola) e gli racconto l’idea. “Non possiamo chiamare il personaggio Oronzo Pugliese”. “Lo so, lo chiameremo Oronzo Canà”. “Perché Canà?” “Perché il personaggio avrà un moglie di nome Mara. Quindi Mara-Canà e andiamo a girare in Brasile”.
Lungimirante.
Infatti a Sergio è scattato un immediato e gigantesco “vaffa”: “Tutto ’sto casino per una vacanza in Brasile?”.
Strategico…
Non c’ero mai stato: siamo rimasti quasi due settimane.
Insieme a Gigi e Andrea.
Con loro mi sono divertito.
Ne avrete combinate.
Io nulla.
Come mai?
Sergio aveva con sé la figlia, io avevo paura e una certa età.
46 anni una certa età?
La questione vera era la paura; (sorride) Gigi era un sacrestano e si appoggiava a me: “Lino, andiamo a mangiare, questo è un cialtrone e va con le donne, con chiunque. Gli dovessero attaccare qualcosa”.
Il “questo” era Andrea.
Era saltellino.
Non faceva prigionieri.
Non mollava niente, bastava che respirassero.
Lei proprio niente.
Prima di arrivare in Brasile mi avevano terrorizzato: attento all’orologio, non uscire con i soldi; attento a dove vai, anzi meglio se non vai. E poi pensavo sempre e solo a lavorare e a mia moglie.
Nel 1979 è arrivato a girare nove film in un anno.
Franco e Ciccio erano nella mia stessa condizione, anzi ancor prima di me; sono stati loro a instradarmi nel cinema e gliene sarò sempre grato. Un giorno mi dissero: “Oh, ci stai superando”.
Nove in un anno sono un’enormità.
Sono arrivato a cambiarmi in macchina mentre passavo da un set a un altro e la sera avevo anche lo spettacolo a Napoli; finito lo spettacolo mi rimettevo in viaggio e tornavo a Roma.
Ci vuole il fisico.
Eppure non so nuotare, non so sciare. Niente; negli spettacoli una delle mie battute era: “Per tre anni sono stato un campione…” “Di cosa?” “Di salto del pasto”.
Ne L’allenatore c’è uno dei caratteristi dell’epoca: Camillo Milli.
Rientrava in quel gruppo di grandi attori come i fratelli Carotenuto o Riccardo Garrone: professionisti che hanno lavorato con la generazione precedente, quella di fuoriclasse come Totò o i De Filippo.
Erano un valore aggiunto.
A differenza di altri attori, gli davo spazio: erano un moltiplicatore, come è accaduto ne Il medico in famiglia dove ero circondato da Enrico Brignano, Gabriele Cirilli e Lunetta Savino; (pausa) con professionisti del livello di Milli potevo cambiare il copione e non si fermavano; però li avvertivo : “Sono un cialtrone, aspettatevi di tutto, ma tranquilli su un punto: la battuta la chiudo come da previsto, così capite quando attaccare”.
Professionismo oggettivo.
Sul set di Nuda proprietà Annie Girardot venne subito da me: “So cose meravigliose di te, compreso che cambi le battute. Per favore mai l’ultima…”.
Molti attori o caratteristi del tempo si sono persi.
Mi è sempre dispiaciuto di non aver potuto aiutare Alvaro Vitali; io sono stato bravo a salvarmi.
Come?
La mia forza è stata la conditio sine qua non che inserivo nei contratti: vi giro tre, quattro film poi definiti B-movie, però dopo dovete coinvolgermi in produzioni più grandi insieme ad attori del livello di Renato Pozzetto, Adriano Celentano o Nino Manfredi.
E i diritti d’immagine?
Niente, andavano solo al produttore e si sono arricchiti: solo di home video hanno venduto circa 2 milioni di copie de L’allenatore nel pallone, mentre io non ho mai visto neanche un centesimo. Quel film è stato una fortuna per tutti.
Si era reso conto del potenziale?
Zero; la fama è cresciuta negli anni e per una serie di episodi.
Tipo?
In una scena del film incontro Ciccio Graziani alla fine della partita persa 4-0 dalla mia Longobarda contro la Roma. Lui mi guarda e mi batte quattro dita sulla testa pelata. E io: “Tanto tra qualche anno sarai più pelato di me”.
Graziani oggi è pelato.
Quando mi incontra mi manda affanculo: “Hai lanciato la maledizione!”.
Tra i calciatori è un film fondamentale.
Nelle squadre, quando arrivava un giocatore straniero, la dirigenza gli consegnava la cassetta de L’allenatore per imparare l’italiano e capire alcune abitudini.
In ogni suo film c’è sempre la donna sexy. In questo caso è Licinia Lentini.
Ho lavorato con tutte le più belle, sono stato anche il primo a toccare quella parte anatomica di Nadia Cassini. E non era un discorso semplice.
Quasi pericoloso.
Quella parte anatomica il marito, attore greco, l’aveva assicurata nel 1972 per un miliardo. E solo quella parte.
Fondoschiena celebre.
Al marito ho chiesto: “Perché solo il culo?”. “Lino, Nadia lavora per quello”.
Anna Maria Rizzoli al Fatto l’ha definita come molto rispettoso.
Erano circondate dalle attenzioni di tutti gli uomini, dai più belli ai più brutti. Tutti ci provavano. Io mantenevo un atteggiamento da capo-comico e il capo-comico se cede una volta non viene più rispettato; (cambia tono) era anche per non offendere mia moglie.
Torniamo al film: Liedholm lo ha più incontrato?
Una sera sono di nuovo a Linate e sento una manata sulla schiena. Era il Barone. “Cosa ti avevo detto?”. E booom, altra botta.
Con L’allenatore è diventato amico dei calciatori…
In quegli anni ho conosciuto Falcao, e qualche volta è venuto a cena da noi; (sorride) dopo ho capito che non frequentava casa per noi, ma perché gli piaceva mia figlia Rosanna.
E Rosanna?
Sostiene che non è successo niente.
Oronzo Canà è scaramantico.
Io per niente, al massimo ho in tasca un cornetto; non sono le scaramanzie a toglierti dai guai, dai debiti, dai cravattari (a Roma sono gli strozzini). Quelli all’inizio c’erano comunque.
I suoi film li rivede?
Ieri sera due di seguito: prima Fracchia e la belva umana e poi Scuola di ladri.
Altri successi.
Per anni li ho evitati, non mi piacevo più; in vecchiaia mi sto riconciliando.
In Fracchia c’è un pezzo storico: quello dello stornello all’osteria.
Scena improvvisata: l’oste doveva cantare “benvenuti a ’sti frocioni, grandi grossi e capoccioni e tu che sei un po’ fri fri dimme un po’ che c’hai da dì…”. Io dovevo solo fermarlo e mostrargli il tesserino. Invece ho risposto con uno stornello e si vede…
Cosa?
Che “l’oste” spiazzato guarda con gli occhi persi oltre di me: non sapeva come comportarsi, mentre alle mie spalle c’era il regista che a cenni lo invitava a continuare; (pausa) mi sono divertito.
Molto.
Molto spesso.
Lei chi è?
Un attore che spera di lasciare il ricordo di un genere di film, un genere che ho inventato io.