il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2024
Paolo Nori deve decdere se farsi censurare in Russia o no
Nella storia della letteratura russa un argomento non marginale è la censura. Il fondatore della letteratura russa moderna, Aleksandr Puškin, aveva un censore speciale, lo zar Nicola Primo. Puškin non poteva pubblicare niente che non fosse stato letto e approvato da Nicola. E, siccome lui faceva circolare lo stesso le sue poesie, Nicola aveva fatto istituire, dalla polizia segreta, un ufficio i cui funzionari avevano il compito di controllare i movimenti di Puškin. Jurij Lotman, nella biografia che ha dedicato a Puškin, si stupisce del fatto che questo ufficio è stato chiuso anni dopo la morte di Puškin. Ci son stati dei funzionari del governo russo il cui compito è stato, per anni, seguire un morto, cosa che fa venire in mente la fine del racconto di Gogol’ Il cappotto, quando il fantasma di Akakij Akakievic ricompare a Pietroburgo e strappa i cappotti ai passanti e il capo della polizia dà ai suoi uomini l’ordine di “catturare il morto vivo o morto”.
Un secolo più tardi, quando il poeta Osip Mandel’štam muore in un gulag, sua moglie, Nadežda, scrive: “Da noi si uccide per la poesia; a conferma dell’eccezionale considerazione in cui la poesia è tenuta”.
Effettivamente, la censura e la violenza dello Stato contro la letteratura e contro la cultura in generale sono un indice del fatto che la letteratura e la cultura, in generale, fanno paura, allo Stato, e quando, qualche giorno fa, dalla casa editrice russa AST mi hanno fatto sapere che avevano quasi finito di tradurre il mio romanzo su Anna Achmatova (Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova, pubblicato in Italia da Mondadori), ma che, per pubblicarlo, avrebbero dovuto censurarlo, che non era una decisione loro ma che la censura dipendeva delle leggi in vigore in Russia, che loro avevano le mani legate e speravano nella mia comprensione, io, devo dire, sono stato anche contento, un po’.
Perché quel libro lì l’ho scritto nel 2022, quando è cominciata la guerra in Ucraina, e della guerra in Ucraina un po’ si parla, nel libro, e sapere che quel che penso io della guerra in Ucraina non è conforme alla legislazione russa è una cosa che mi conforta, così come mi conforta e mi lusinga la prospettiva di diventare, anch’io, un autore censurato dal governo russo.
Alcune delle censure me le hanno anticipate e mi sembrano stranissime.
Tutte le volte che nel romanzo compare la parola “Guerra”, per esempio, sarebbe sostituita con l’espressione “Operazione speciale”. Il secondo capitolo, che si intitola Guerra, loro propongono di intitolarlo Tempi difficili. Che è una proposta così singolare.
Una decina di giorni fa, ero a Ragusa, a fare una lettura, dopo la lettura ci siamo trovati in cinque, al tavolino di un bar, ho raccontato questa cosa, una persona che era lì al mio tavolino, una scrittrice, ha detto: “Io non accetterei mai, mi sentirei complice di Putin”. Io le ho detto: “Guarda, a te non l’han chiesto, il problema non si pone”.
Il problema si pone a me, e è un bel problema, e la soluzione dipende dall’entità dei tagli, che dalla casa editrice russa si sono impegnati a farmi sapere presto, e da un po’ di altre cose sulle quali bisognerà ragionare, a esserne capaci.
Tempi difficili, per esempio, è un bellissimo titolo, ma non è esattamente quello che si racconta poi nel capitolo. Tempi difficili e difficilissimi sarebbe forse già meglio, ma l’ideale sarebbe Guerra, se si potesse dire. Il problema è quello, che, in Russia, la guerra non si può nominare. Bisognerà ragionare (a esserne capaci).