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 2024  giugno 30 Domenica calendario

Intervista a Max Giusti

L’Aurelio De Laurentiis di Max Giusti ha un linguaggio che mescola il forbito e lo scurrile, mentre il canovaccio ha due punti fermi: la telefonata del maggiordomo Adalberto e l’aneddoto improbabile sulle star americane in cui compare, immancabile, Boldi («ero a cena a Hollywood con Spielberg, Polanski e Massimo Boldi»; «il ruolo del mignottone in Pretty Woman era per Massimo Boldi, non per Julia Roberts»). Un’imitazione straordinaria che con quella di Alessandro Borghese è stata uno dei momenti virali del GialappaShow. «In realtà però non volevo farle, non pensavo a uno sbocco televisivo. Sono stati il mio team di lavoro, gli amici di Banijay (che produce il programma) e la Gialappa a convincermi».
Come è nato De Laurentiis?
«Mi è capitato di incontrarlo diverse volte in vacanza, abbiamo fatto anche alcune riunioni insieme per un progetto mai nato. Credo che sia una delle persone con l’eloquio più interessante e affascinante che abbia mai incontrato. Uscivo da quelle riunioni e cazzeggiando con gli amici mi veniva naturale imitarlo».
L’idea vincente?
«Molti si aspettavano che parlassi di calcio, invece mi sono concentrato sulla storia di un produttore che sta da 50 anni nel cinema. Mi piace l’alto-basso che solo Boldi può darmi, lui non lo tratta male, ma lo inserisce ovunque. Posso dire una cosa brutta? È la prima volta in vita mia che quando mi rivedo rido pure io. So che non si fa. Non sono così pieno di me».
La voce, il trucco: siete identici.
«La prima volta che mi sono trasformato in lui ho avuto un brivido perché ho capito che mi ero completamente annullato, non dico che è stato come vivere un’esperienza mistica perché se no sembro matto. Il fatto è che divento una terza entità: non sono né il vero De Laurentiis, ma non sono più neanche io; sono un connubio tra me e quello che immagino di lui».
Il suo Alessandro Borghese invece è finalmente senza filtri.
«L’ho immaginato come in quel film, Free Willy, dove si doveva liberare un’orca prigioniera in un parco marino perché aveva bisogno mare aperto... Ho sognato un Borghese libero di dire quello che vuole, che finalmente dà sfogo a quello che molti spettatori pensano guardando i suoi 4 ristoranti. Magna e non rompere li cojioni penso sia quasi diventato gergo comune».
Con Borghese siete amici e soci di un centro padel a Milano. L’amicizia ha retto?
«L’ho avvisato dell’imitazione perché mi sembrava giusto, ma gli ho detto di fidarsi di me. So che lo ha visto insieme alla sua brigata e si è divertito parecchio».
Lei romano, imprenditore a Milano.
(Ride). «Volevo lasciare un segno senza farlo con un ristorante, mi ricordo quello che aveva aperto Simona Ventura... si mangiava di merda».
Un presidente che parlava di calcio però lo ha fatto: Lotito.
«Fu un’intuizione magica. Una sera vedo alla Domenica Sportiva questo signore che ha appena preso la Lazio e inizia a parlare con latinismi assurdi, prolisso, folle, cervellotico. Questo è una bomba, penso. Chiamo Simona Ventura e glielo dico, ma lei è scettica: questo non lo conosce nessuno. Per fortuna invece funzionò benissimo».
Una volta ha condotto «Il processo del lunedì» come fosse il vero Biscardi.
«Iniziai io la trasmissione e feci un quarto d’ora di Processo. Lui amava essere imitato. Mi diceva sempre: sei quello che mi imita meglio. Così però ci teneva a sottolineare che non ero l’unico».
Malgioglio?
«Lo feci per primo e lo feci perché non capivo come mai fosse così tanto in tv. Poi nel tempo ho capito che ha più ragione di esserci Malgioglio di tanti altri. Lui è già una parodia, ci si sono tuffati in tanti e hanno fatto bene. Un suo classico è che se mi incontra mi dice che sono il migliore a imitarlo, ma lo dice pure a Nicola Savino, a Massimo Lopez».
Ricucci la querelò.
«A volte con alcuni personaggi mi viene la sindrome di Stoccolma. Amavo Ricucci, l’odontotecnico di Zagarolo che ha tentato la scalata al Corriere con i capelli alla Tony Hadley: come fai a non volergli bene? Comunque lo incontrai al ristorante e ritirò la querela».
Chi si arrabbiò?
«Mastella perché lo imitai da Santoro. Lui era ministro della Giustizia e mi chiamò dalla batteria del Senato: finché lo fai a Quelli che il calcio va bene, ma da Santoro no».
Il trucco più lungo?
«Gaucci. Ci mettevo tre ore, tra pancia finta e pappagorgia enorme. Ricordo una volta alle Capannelle, c’era lui con la fidanzata domenicana, sembrava Cetto La Qualunque. Si rivolgeva alla figlia e le diceva: senti cosa, non si ricordava nemmeno il nome. È un personaggio a cui ho voluto bene».
Un’imitazione degli altri che la fa ridere?
«Due. Guzzanti con Rutelli (Silvio, ricordati di chi ti ha portato l’acqua con le orecchie). E Tortora quando fa Amadeus: tanta roba».
Papà metalmeccanico, mamma commessa, come è arrivata la comicità?
«Credo da un mix di due fattori: mio papà e la solitudine. Mio papà era molto severo, lavorava sempre e non si riposava mai. Ma nei pochi momenti in cui si riposava – il pranzo della domenica e i 7 giorni di vacanza l’anno, gli unici che facevamo – gli piaceva stare al centro dell’attenzione. In quei momenti diventava completamente diverso. Avrei voluto sempre con me il papà di quei 7 giorni là».
E la solitudine perché?
«I miei lavoravano sempre. Anche sabato e domenica e io rimanevo da solo tantissime ore. Credo che la comicità sia stata un modo per attirare l’attenzione del mondo nei miei confronti. Se ero simpatico venivo accettato, e questo ha aperto il mio modo di comunicare. L’imprinting è arrivato da Non Stop: ero pazzo della Smorfia, dei Gatti di Vicolo Miracoli, di Verdone».
A scuola come andava?
«Il mio percorso si è capito dai risultati delle medie: in prima ottimo, in seconda buono, in terza sufficiente. Al secondo ginnasio sono stato bocciato, non ho preso la maturità ed è un grande rimpianto. Per fare un mestiere come questo ho dovuto recuperare quel gap».
La gavetta?
«La più grande difficoltà è che nessuno mi indicasse la strada. Molti dicono che non è facile essere figli d’arte. Ed è vero. Però ha un grande vantaggio: hai chi ti può consigliare. Chi lo sapeva a via del Trullo 190 che c’era la scuola di Proietti? Non c’era nessuno di quelli che conoscevo che masticava un minimo di questa roba. Ho iniziato con tournée assurde a 300 mila lire a data. Un anno feci venti serate ma fusi il motore della macchina».
La svolta per trasformare la solitudine in un lavoro?
«Direi almeno tre svolte. La prima quando entrai per sbaglio in un locale di cabaret portato da alcuni miei amici. Il Fellini a Roma era un po’ come lo Zelig Milano. Avevo 16 anni e mezzo, sono rimasto stregato e ho iniziato ad andarci spesso. Una volta ho esagerato e sono rimasto fino alle due di notte: mio padre venne a prendermi dopo aver quasi buttato giù la porta».
La seconda svolta?
«Stasera mi butto, nel ‘91, una gara tra aspiranti volti nuovi per il mondo dello spettacolo. Lì ho capito che se volevo fare questo mestiere dovevo pensare come uno che fa questo mestiere. La terza svolta con due programmi: Quelli che il calcio e Affari tuoi».
A «Quelli che il calcio» Crozza la boicottava.
«Sì, non voleva che entrassi nella sala degli autori».
Di cosa aveva paura?
«Bisogna chiederlo a lui. Il regista Paolo Beldì mi incoraggiava, mi diceva: cerca di capire. Io stavo lì dal venerdì mattina, ondeggiavo nei corridoi e aspettavo. I miei pezzi gli autori li correggevano solo il sabato alle sette di sera».
Pare che anche Simona Ventura non fosse carina, si dimenticava di citarla...
«Ma no. Ci sono equilibri, dinamiche. Con il tempo le cose si tramutano in affetto e ora con Simona ho un bellissimo rapporto. Certo quando andò via Crozza non mi permisero di prendere tutto lo spazio che aveva lui. Ma poi la mia strada me la sono fatta».
Max Giusti e Insinna conduttori di «Affari tuoi», è diventato un tormentone: lei che ha preso il posto a lui che ha ri-preso il posto a lei.
«Ma con Flavio siamo in buoni rapporti».
Quanto ci rimase male quando la fecero fuori da «Affari tuoi»?
«Beh, fu una brutta sorpresa. Nel nostro mestiere quando c’è da darti una notizia positiva ti chiamano in dieci, quando è negativa non ti chiama nessuno. Ho scoperto che mi avevano sostituito solo quattro giorni prima della presentazione dei palinsesti. Certo ti rode, ma che vuoi fa’?».
A un certo punto disse che i «personaggi erano diventati più importanti di me».
«È successo dopo Quelli che il calcio. Lotito, Malgioglio, Biscardi erano diventati più famosi di me, la gente per strada quando non ero mascherato quasi non mi riconosceva. Ma in realtà decisi di sospendere le imitazioni anche perché non c’era il contenitore giusto per farle».
Sul lavoro come è?
«Sono romano in tutto, ma sul lavoro so’ proprio milanese. Sono ansioso, quindi devo essere iper-preparato perché così do il meglio anche improvvisando».
Autodidatta dunque?
«Praticamente sì. A un certo punto andai a imparare il metodo Stanislavskij per diversi mesi. Ma ne persi il doppio per dimenticarlo perché non puoi fare il comico con quel metodo. Fu una cosa assolutamente inutile».