Corriere della Sera, 30 giugno 2024
La strategia di Giorgia
le strade
per contare
nella ue
di Sabino Cassese
È un bene o un male, per il progresso della costruzione europea, che ci si sia divisi lungo linee politiche (popolari, socialisti e liberali da un lato, conservatori ed altre estreme dall’altro), invece che lungo linee nazionali (grandi contro piccoli Paesi, frugali contro spendaccioni, oppure Paesi del Nord contro Paesi del Sud), e in che modo i grandi Paesi, come l’Italia, possono non rimanere estranei al prosieguo dei negoziati?
Il presidente del Consiglio dei ministri italiano ha parlato alla Camera dei deputati il 26 giugno.
L ì ha esposto la sua posizione nelle trattative europee, dichiarando che «le istituzioni europee in passato non sono mai state pensate in una logica di maggioranza e di opposizione. Sono state pensate come soggetti neutrali, capaci di garantire così tutti gli Stati membri, indipendentemente dal colore politico del governo di quegli Stati membri» ed ha aggiunto che «gli incarichi apicali… sono stati normalmente affidati tenendo in considerazione i gruppi con la dimensione maggiore… indipendentemente da possibili logiche di maggioranza o di opposizione». Ha poi, però, criticato la trasformazione dell’Unione europea in un «gigante burocratico», troppo invasivo, ma debole nello scenario globale, mentre dovrebbe essere un «gigante politico».
Ritengo che il presidente del Consiglio dei ministri italiano abbia sbagliato diagnosi, anche se ha poi scelto la strategia giusta.
L’Unione europea è un organismo con un esecutivo bicefalo, un Consiglio e una Commissione, che si appoggiano sui governi nazionali e sulle forze politiche che si aggregano al livello sovranazionale. Il Consiglio europeo, che definisce le priorità e gli orientamenti politici generali dell’Unione, è composto dai 27 capi di Stato e di governo, dal presidente del Consiglio, e dal presidente della Commissione europea.
Nella riunione del 27 giugno, sulla base di un accordo politico raggiunto dalle principali famiglie politiche europee, il Consiglio è giunto alla conclusione di eleggere il portoghese António Costa come presidente del Consiglio europeo fino al maggio 2027, di proporre al Parlamento europeo la tedesca Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea e di considerare l’estone Kaja Kallas candidata adeguata per la carica di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Si tratta di buone scelte, di persone con competenze, esperienza e pratica politica, che provengono dalle principali famiglie politiche dell’Europa, quella popolare, quella socialista e quella liberale. Il presidente del Consiglio dei ministri italiano è stato invitato alle trattative tra le forze politiche che hanno preparato questa decisione come osservatore, a condizione di partecipare a nome dell’Italia, non in quanto presidente di un gruppo politico europeo di minoranza, ed ha rifiutato.
Meloni, però, doveva quadrare il cerchio perché rappresenta un governo con tre forze politiche distribuite in tre delle sette alleanze politiche europee, Forza Italia tra i popolari, Fratelli d’Italia tra i conservatori e la Lega tra Identità e democrazia. Di qui i problemi: come riuscire a far valere il peso di uno dei tre maggiori Paesi dell’Unione europea e come ridurre le asimmetrie tra alleanze politiche nazionali e coalizioni europee. Meloni si trovava al centro di un conflitto di lealtà tra il suo partito e il suo governo e tra la propria nazione e l’Europa. Ha quindi deciso di astenersi sulla nomina del presidente della Commissione e di votare contro le altre due scelte, con un compromesso tra la convenienza del proprio Paese, l’esigenza di partecipare alle trattative sulle altre nomine apicali (ha infatti poi dichiarato che intende «aprire una negoziazione» sul ruolo dell’Italia), la coerenza della propria posizione politica, il rispetto delle posizioni delle tre forze politiche che fanno parte del proprio governo, cercando anche di consolidare i benefici dell’appoggio europeo alla politica italiana sui migranti e sulle concessioni balneari.
La linea prudente del governo italiano ha risposto sia all’esigenza di tener conto all’estero delle tre voci che rappresenta, così politicamente divaricate (FdI, FI, Lega), sia all’esigenza di far valere il peso di uno dei tre grandi Paesi europei, alla ricerca di quel «punto di incontro» che assicura un risultato nell’arena europea.
Da questa vicenda si possono trarre alcune conclusioni. Primo: l’Unione europea non è una mera agenzia tecnica, né un organismo confederale, ma un nuovo tipo di entità politica sovranazionale nella quale vince chi riesce a districarsi nel complesso delle negoziazioni che lì si svolgono, per raggiungere quello che uno dei nostri maggiori esperti di questa materia, Nicola Verola, ha chiamato il «punto di incontro» perché questo è l’unico modo per far sentire la propria voce e contare. Secondo: anche se tutti lamentano l’assenza di leadership europea, l’Unione trova la sua forza proprio nell’assenza di leader e nella presenza di negoziatori. Terzo: anche se tutti vogliono cambiarla, l’Unione ha dato prova di poter essa stessa cambiare: sembra immobile, eppur si muove, a dispetto della retorica contro i «burocrati di Bruxelles». Infine, se – come credo – la prova del presidente del Consiglio dei ministri italiano riesce, Meloni avrà mostrato di avere appreso fino in fondo la grande lezione del realismo togliattiano.