il Giornale, 29 giugno 2024
Intervista a Beatrice Rana
Premesso che due sono le orchestre iconiche d’Europa, i Wiener e i Berliner, ad oggi nessuna strumentista italiana aveva mai suonato coi Berliner Philharmoniker, a casa loro, nella leggendaria Philarmonie. Il 23 maggio giù il muro di Berlino con il concerto della pianista Beatrice Rana e Yannick Nézet-Séguin sul podio, appunto, dei Berliner.
Con Cecilia Bartoli, Rana (Lecce 1993) è la numero uno fra le musiciste di casa nostra. Dopo il vuoto lasciato dai pianisti della generazione dei baby boomers e millennials, è grazie a quest’artista che il nostro Paese è tornato nella Serie A del pianismo internazionale.
Il concerto berlinese è un bel sigillo alla carriera.
«Suonare con quest’orchestra è il sogno di chi fa il mio mestiere. Tutti noi siamo cresciuti a pane e video di Herbert von Karajan che dirige i Berliner».
Qual è la marcia in più di quest’orchestra?
«Il grado di compattezza e dunque di libertà che può permettersi. È un complesso che non ubbidisce, ma pondera le tue idee interpretative e quando ne condivide la ragione, ti sostiene con convinzione».
In marzo è scomparso il pianista Maurizio Pollini. Quale il suo lascito?
«Ha cambiato la storia della musica, e non solo italiana, penso anzitutto all’estrema serietà e rigore delle interpretazioni, cifra poi applicata a tutto il repertorio. Portare, come fece lui, certe pagine alla Scala è stata una rivoluzione. Ora la contemporanea è sdoganata ma in un Paese come il nostro, vittima della lirica, il suo impegno per il Novecento è stato determinante».
«Vittima della lirica», ben detto. Perché per gli strumentisti e gli enti cameristici e sinfonici italiani, la lirica è una croce oltre che delizia.
«Essendo la culla dell’opera, l’Italia vive un rapporto particolare con il melodramma, io stessa sono figlia di un maestro collaboratore, sono cresciuta ascoltando l’opera e la amo, però si piglia un po’ tutto».
Sponsorizzazioni e fondi compresi. Lei ne sa qualcosa da direttrice del Festival Classiche Forme (13-21 luglio).
«Lo ribadisco: non c’è solo l’opera, va trovato un equilibrio su tutti i fronti, va trovato spazio e riconoscimento anche per la cameristica e la sinfonica».
Immagini di scrivere una lettera al ministro dell’Istruzione sul matrimonio fallito tra la Musica & la Scuola. Da dove iniziare?
«Dall’abc, bisogna fare e ascoltare musica subito, dalla materna. È la più straordinaria educazione all’ascolto: e non solo dei suoni, ma della parola altrui. In tempi come questi dove tutti parlano addosso, sarebbe un balsamo».
Quanto è difficile occuparsi di arte nell’epoca della cancel culture, inclusività a prescindere, foresta gender, #metoo, nazionalità neglette.
«Ogni sei mesi affiorano nuove problematiche. L’anno scorso, per dire, quando al mio festival proposi pezzi russi venni letta come controcorrente. Ora il Concertgebouw cancella il concerto del Jerusalem Quartet poiché israeliano. Sono ipocrisie che colpiscono sia gli artisti sia il pubblico che perde la possibilità di ascoltare gli artisti».
La sua mente va a...?
«A Valery Gergiev. Mi spiace non poter ascoltare una Sinfonia di Prokofiev diretta da lui».
Lo scoglio di un artista che opera in questo decennio?
«Il fatto di vivere un mondo effimero dove tutto ha una data di scadenza. Creare un rapporto duraturo col pubblico è veramente difficile. La fiducia è costantemente minata da video e materiale che circola in libertà».
Dal podio dell’Arena di Verona, Riccardo Muti ha definito l’orchestra una società dove tutti concorrono al bene comune. Cosa detta più volte ma qui travisata.
«Io ero tra il pubblico e ho apprezzato molto il discorso di Muti, è stato l’unico quel giorno ad aver spiegato l’essenza della musica e dell’opera, un ingranaggio pazzesco dove tutti fanno la loro parte per un risultato condiviso per cui il do di petto del tenore è l’esito di un lavoro di squadra».