Corriere della Sera, 29 giugno 2024
Recensione al libro di Sgarbi
Nel fascismo non c’è arte e nell’arte non c’è fascismo, dice, con felicissimo aforisma, Vittorio Sgarbi nel suo ultimo libro Arte e Fascismo (La nave di Teseo), in uscita martedì 2 luglio. E questo semplicemente perché «il fascismo è un ordine sbagliato della società». Proprio come il comunismo e il nazismo, seppure non con la stessa invasività in ambito artistico, aggiungiamo noi, coerentemente con le argomentazioni svolte da Sgarbi in questo libro. Un libro che, contrariamente a tutti i suoi altri, egli stesso definisce «necessario» (aggettivo usurato, specialmente per i libri, ma in questo caso, appunto, necessario), forse per colpa dell’inutile e noiosa polemica sugli artisti del periodo fascista divampata due anni fa, quando Sgarbi ebbe l’idea di allestire una mostra al Mart di Trento e Rovereto, di cui è presidente, niente di meno che su quel «criminale scomunicato» di Julius Evola, che aderì persino alle teorie della razza (tra parentesi, mostra bellissima e istruttiva assai).
Anche nel nazismo e nel comunismo, quindi, in quanto «ordini sbagliati della società», non c’è arte, e, reciprocamente, nell’arte non c’è né comunismo, né nazismo. Poi, se proprio vogliamo scomodare Hannah Arendt e le sue categorie di «totalitario» (nazismo, comunismo) e «autoritario» (fascismo), sarà un po’ più chiaro perché la polemica su Evola e sull’arte e gli artisti durante il periodo fascista fosse, e sia ancora, infondata, strumentale, una liturgia sgonfia. Anche perché, almeno a parole, ma in occasioni ufficiali, Mussolini disdegnò sempre «un’arte di Stato o qualcosa che possa assomigliarvi», mentre Hitler e Stalin, al contrario, la promossero, la coltivarono e la fecero amaramente pagare a tutti coloro che non la praticassero. «L’Arte – scrive Sgarbi – è invece un insieme di individui, artisti che possono avere o meno aderito al potere in vigore in quel periodo, ma la loro opera travalica i limiti di quel potere». Parole non granché diverse da quelle di Mussolini: «L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di dar condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale». Quindi? Sgarbi e chi la vede come lui si dovrebbero preoccupare o addirittura vergognare per questa convergenza di opinione con il Duce sull’arte?
Nel suo libro, Sgarbi si premura di scrivere: «Io sono antifascista, la nostra cultura è antifascista» (poteva anche non farlo, si capisce benissimo) e di spiegare che «il regime fascista non c’è più, dobbiamo combattere il rischio che possa tornare, ma questo non può diventare un pregiudizio che impedisce di guardare a quanto in quei vent’anni è accaduto oltre e nonostante il fascismo». E in «quei vent’anni» – rimossi, elusi, cancellati, sbianchettati come fotografie compromettenti dagli stessi che prima c’erano e poi non c’erano più, perché saltati sul carro dei vincitori con una bella e diversa casacca —, in quei vent’anni, di artisti veri e oggi pressoché sconosciuti perché colpevoli di «fascismo» (a qualunque titolo) ce n’erano tanti e «non si possono spiegare con il potere», proprio come Dante, Botticelli o Leopardi, poiché, scrive l’autore, «l’arte è degli individui nella loro esaltazione e nella loro sofferenza; la storia è dei potenti contro gli uomini, sempre». In quei vent’anni, e senza contare gli scrittori, i registi, gli architetti e gli intellettuali, Sgarbi ricostruisce le biografie e scova le opere di ben 111 artisti (li abbiamo contati uno per uno, dato che l’autore avverte di non voler alluvionare il lettore con «tutti» i nomi che meriterebbero di essere citati), 111 tra pittori e scultori colpiti dalla maledetta damnatio memoriae nonostante il loro grandissimo valore.
Arte e Fascismo è un libro ricco anche di «storie» emblematiche, come quella del ruolo di Margherita Sarfatti, amante del Duce ma anche e forse di più dell’arte, o della contrapposizione tra un gerarca con i paraocchi dei muli qual era Roberto Farinacci e uno di mentalità aperta e cultura superiore come Giuseppe Bottai, o ancora degli affreschi di Duilio Cambellotti nella prefettura di Ragusa, nascosti al pubblico come fossero una oscenità e dei quali fu «rimossa la rimozione» solo nel 1987 grazie all’intelligenza di Leonardo Sciascia, oppure delle «città di fondazione», come Sabaudia, che fece dire a Pier Paolo Pasolini: «Saranno criminali, i fascisti, ma Sabaudia è un paradiso, una città ideale, una città perfetta». Sulle «città di fondazione» poi, nel 2003, Antonio Pennacchi avrebbe scritto un piccolo capolavoro (Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Laterza), che è un po’ l’analogo in urbanistica e architettura dell’acuto e coraggioso volume di Sgarbi sull’arte e gli artisti innominabili del Ventennio. Non poteva dunque Sgarbi non espandere il discorso sul fascismo – nell’arte come nella scienza e nelle altre sfere dell’agire umano – se non nel solco della intuizione di Pasolini, autore a lui molto caro. «C’è una dittatura più grave del fascismo – scrive Sgarbi —, che è quella del denaro. È il mercato, oggi, a decidere, con metodi assolutistici e quindi con modi fascisti, quali artisti si affermano contro altri che rimangono in penombra. È una violenza sottile che non percepiamo come minaccia alle nostre libertà individuali e a cui dobbiamo, strenuamente, opporci».