Corriere della Sera, 29 giugno 2024
la linea dura conviene o no?
Non era mai successo in 67 anni che l’Italia non votasse un presidente della Commissione di Bruxelles, come ha fatto l’altra sera su Ursula von der Leyen. Né era successo che votasse contro un presidente del Consiglio europeo, che poi però viene eletto. E non si era mai vista neanche l’Italia pronunciarsi contro la nomina di un Alto rappresentante della politica estera europea, in questo caso l’estone Kaja Kallas, la quale comunque non ha avuto problemi a farsi confermare.
Quest’ultima scelta di Giorgia Meloni appare senz’altro la più scivolosa ed esposta ai malintesi. Non c’è dubbio che, con la premier, il Paese resti sulla rotta fissata dal governo di Mario Draghi: il governo continua a sostenere l’Ucraina e intanto è uscito dagli accordi della Via della Seta con la Cina, ereditati dalla stagione dei 5 Stelle. Kallas rappresenta esattamente questa linea, di fermezza verso la Russia e nei confronti delle forzature cinesi. Ma dopo il voto di Meloni dell’altra sera contro Kallas, a Pechino, a Mosca e forse anche a Washington ci sarà qualcuno che si chiede se non si stia aprendo una breccia nel fronte occidentale.
Niente di tutto questo riduce il diritto di Giorgia Meloni di reagire a quella che deve aver vissuto come una «conventio ad excludendum» ai suoi danni. Meloni non è stata coinvolta nel confronto fra pochi leader europei dei popolari, dei socialisti democratici e dei liberali che ha portato alle nomine. E il fatto che l’Italia non abbia mai votato prima come l’altra notte non significa che non possa farlo adesso. Il problema non è lì. Il problema è nel divorzio nelle percezioni della realtà su due fronti che, comunque, sono destinati a lavorare insieme.
Meloni ritiene di aver subito un affronto, personale e quale rappresentante del Paese. Questo mese in Italia lei ha vinto nettamente le elezioni europee, migliorando il risultato del 2022. Ha visto in Francia il partito di Emmanuel Macron crollare, più che doppiato dal Rassemblement National di Marine Le Pen; vede i sondaggi che danno il Rassemblement National vincente con un margine ancora maggiore alle elezioni politiche di cui domani si celebra il primo turno. Visto da Meloni, Macron politicamente è un morto che cammina eppure pretende di dettare la linea. La premier nota anche che in Germania la coalizione di governo guidata da Olaf Scholz ha raccolto appena il 31%, con i socialdemocratici del cancelliere superati anche dagli estremisti di Alternative für Deutschland. Anche Scholz deve apparirle come un uomo di ieri.
Meloni non è sulle posizioni di Alternative für Deutschland, né esattamente su quelle di Marine Le Pen. Ma misura lo smottamento delle forze più tradizionali nei Paesi al cuore del sistema e ne trae una conclusione: l’Italia, cioè lei stessa, può alzare la posta; può chiedere più influenza per il prossimo nominato italiano nella Commissione e più influenza di Roma sulle politiche europee. Per questo la premier ha messo in chiaro a tutti che solo a queste condizioni avrebbe dato il sostegno dei suoi nell’europarlamento – che ritiene potenzialmente essenziale —alla conferma di Von der Leyen il 18 luglio. Non stupisce che Meloni viva oggi l’accordo di Scholz e Macron con i popolari – senza di lei – come l’arrocco dei perdenti, resi più chiusi dalla loro stessa debolezza.
Quando si rovescia la prospettiva, il quadro appare però in una luce diversa. La maggioranza di popolari, socialisti e liberali su cui si fondano gli assetti a Bruxelles ha sì perso un po’ di terreno alle europee. Ma è passata dal 59,1% dei seggi nel 2019 al 55,4% di oggi. L’arretramento dei liberali (netto) e dei socialisti (meno netto) è compensato dalla crescita dei popolari. Dall’altra parte una maggioranza fra i popolari e le formazioni di destra, quella della stessa Meloni e quella di Marine Le Pen, è impossibile anche se fosse desiderabile o desiderata (e non lo è): non supera il 45% dei seggi, al più. Né è detto che la maggioranza centrista classica debba oggi allargarsi per forza ai voti degli europarlamentari di Meloni. Potrà contare su quelli del partito populista del premier polacco Robert Fico (che infatti l’altra notte ha già detto sì a Von der Leyen) e sui verdi tedeschi. Insomma l’Italia e i parlamentari della premier italiana non hanno in mano le carte decisive. Nella prospettiva dell’Eliseo, della cancelleria di Berlino o di altre capitali, Meloni è libera di sostenere Von der Leyen se vuole; ma non può dettare le condizioni, tantomeno in pubblico – in modo così inusuale – prima ancora di sedersi a parlare con gli altri.
Dunque come finisce? È possibile che Von der Leyen, maestra di compromessi, offra per l’italiano nella sua Commissione un ruolo presentabile come soddisfacente. È possibile anche che i meloniani alla fine votino per Von der Leyen nell’europarlamento. Ed è possibile che il loro voto non risulti decisivo. Ma se c’è una lezione, è che in mezzo al guado si sta proprio male. Dall’inizio la premier è stata pragmatica e costruttiva con Von der Leyen, eppure è rimasta alla guida di una famiglia politica a Bruxelles piena di forze illiberali e a volte francamente impresentabili. Ora però sia i leader europei più moderati che i suoi alleati politici (molto) meno moderati le chiedono di scegliere. O di qua o di là. Stare in mezzo, allo stesso tempo di qua e di là, finora aveva fruttato alla premier dei bei dividendi politici. Fino al momento, naturalmente, in cui l’ambivalenza non funziona più.