Corriere della Sera, 29 giugno 2024
Intervista a Edoardo Nesi
Edoardo Nesi indossa una camicia di lino color crema che era del padre. «Questa trama così fine non esiste più. È mancato sei anni fa, all’improvviso, non voglio ricordare quel giorno. Però indossare le sue camicie me lo fa sentire vicino. Mia madre, che è scomparsa da due mesi svuotata dalla demenza senile, a volte mi scambiava per lui». È seduto nel salotto luminoso della sua casa di Montemurlo, con il giradischi di Arancia meccanica da un lato, e un pianoforte di legno di ulivo dall’altro, che è stato suonato soltanto da Alessandro Baricco e da un compagno di classe del figlio Ettore.
Cosa leggeva da bambino?
«Leggende nordiche di eroi vichinghi, Giulio Verne, Stevenson. Poi la fantascienza».
Quale libro avrebbe voluto scrivere lei?
«Ce ne sono tanti. Quando ero un ragazzo, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, Il giovane Holden di Salinger. Ma quando ho perso mio padre, Alvarado, avrei voluto avere la forza e il coraggio di scrivere L’anno del pensiero magico, di Joan Didion, con la sua trattazione del lutto potente e spietata».
Il nome di suo padre se l’è tatuato sul braccio sinistro.
«Sì. Ho anche quello di mia madre, Paola, dei miei figli, Ettore e Angelica, e di mia moglie, Carlotta, però con una t, come lo scrisse Cy Twombly quando ci mandò un biglietto».
Il suo primo libro, «Fughe da fermo», esce nel 1995 per Bompiani. Lavorava nell’azienda tessile di suo padre.
«Lui sapeva che scrivevo racconti, ma non gli dicevo molto. Prato era la città ideale per diventare scrittori, perché ti ignorava completamente, potevi sbagliare nel disinteresse collettivo. Quando misi in fila, per terra, tutti i racconti, mi resi conto che potevano diventare un romanzo».
Come arrivò a Bompiani?
«Feci leggere tutto a Sandro Veronesi, che a sua volta lo fece leggere al suo agente, Sergio Perroni, un genio, un’intelligenza formidabile, un carattere terrificante. Lui si innamorò del libro e lo mandò a Elisabetta Sgarbi, per la quale traduceva Houellebecq. E lei mi fece subito un’offerta: 10 milioni di lire, non potevo crederci. Chiamai mio padre: “Babbo, mi pubblicano il libro e mi pagano anche!”. Lui rimase a bocca aperta».
Venne a vederla quando vinse lo Strega, nel 2011 con «Storia della mia gente»?
«No, volle restare a casa. Mi faceva le foto alla televisione».
Cosa cambiò, dopo?
«Il Premio Strega ti libera dall’idea di essere uno scrittore che si sente molto bravo, ma che non è riconosciuto: cioè la condizione di tutti. Dopo, tanti imprenditori volevano conoscermi e raccontarmi le loro storie».
Come si spiegò il successo?
«Non sapevo e non so scrivere un saggio economico, non mi interessava nemmeno. Ma se parli del tuo fallimento, diventa letterario».
Europa e Usa hanno messo i dazi alla Cina. Come la fa sentire?
«Risarcito, avevo ragione io e torto gli altri. L’idea dominante era che il liberismo avesse vinto tutto e che la globalizzazione fosse una cosa non solo necessaria, ma bella e giusta: chi non la capiva era un trinariciuto. I grandi economisti hanno sbagliato tutti. Si sono accorti dopo che la globalizzazione avrebbe creato maggiore inquinamento, la crisi climatica, il populismo in Europa, i fascisti al potere».
L’azienda che ha dovuto vendere produceva tessuti. Ha mai conosciuto i grandi stilisti che li compravano?
«No. Noi produttori eravamo come i sicari: ci si fa affari, ma non si invitano a cena».
È entrato in politica.
«Mio padre era orgoglioso del fatto che rappresentassi in qualche modo gli italiani».
Che effetto le ha fatto essere eletto?
«Neanche c’ero, ero in America a una convention a Kansas City. Dave Eggers era nel banchino accanto al mio».
L’ha divertita di più fare il deputato o l’assessore provinciale?
«L’assessore, almeno ho fatto cose concrete. Per quanto poco contassi, ho fatto arrivare i fondi della Regione ai piccoli imprenditori, ho organizzato incontri con i miei amici Sandro e Giovanni Veronesi, Procacci e Baricco».
Quale loro libro avrebbe voluto scrivere lei?
«Di Baricco, Castelli di rabbia. Di Sandro è difficile scegliere: Gli sfiorati è un libro meraviglioso».
Ha detto che la letteratura le ha salvato la vita.
«È stata un grande conforto, per me, come la musica».
Durante la depressione?
«Quella è una bestia strana, ti salta addosso all’improvviso. Un pochino l’ho sempre avuta, dura qualche settimane, poi va. Bisogna resistere».
Scelga un capolavoro. Ricorda dov’era quando ha finito di leggerlo?
«Quando ho finito La versione di Barney ero nella casa qui sotto con i miei fratelli. Uscii nel bosco a camminare perché ero pieno di un’emozione che non ha niente a che vedere con la vita reale».
Il primo libro che ha regalato ai suoi figli?
«Il giovane Holden, a ognuno la sua copia».
Che lavoro fanno?
«Ettore ha 28 anni e si occupa di arte contemporanea. Angelica ne ha 26. Il suo campo è la vulnerabilità delle persone: se divorzi, ti ammali, ti muore qualcuno vicino, ti viene un esaurimento nervoso, puoi diventare improvvisamente vulnerabile, e lei lavora per impedire che qualcuno se ne possa approfittare».
Quale libro racconta meglio di tutti la paternità?
«Non me ne viene in mente uno: tutti quelli che ne parlano sono stati scritti dai figli».
Allora scelga un’immagine che racconta la sua paternità.
«Come padre ho avuto paura di non essere adeguato, però sono sempre stato presente. Con Angelica c’era il momento del bicchierone: quando era a letto mi chiedeva un bicchiere di quelli grandi con l’acqua frizzante e il ghiaccio. E qualunque cosa stessi facendo, a qualunque ora, io mi alzavo e glielo portavo. Oppure mi viene in mente quando andavamo a Prato la domenica, io e lei da soli, avrà avuto 5-6-7 anni. Arrivati in una grande piazza le dicevo: “Ora te cammina con gli occhi chiusi, tanto ci sono io”».
Quando scrive?
«La mattina, appena sveglio prendo caffè e vado avanti fino all’ora di pranzo. Lavoro sempre in correzione, il mio libro è finito solo il giorno in cui lo consegno».
Presentazioni memorabili?
«Per Ride con gli angeli, il secondo, fui invitato a Empoli e non venne nessuno. Da allora non sono più tornato».
Alla fine quanto è stata importante Elisabetta Sgarbi?
«È stata fondamentale. Immagini un editore che ti pubblica nel ‘95 e tu vendi tanto solo nel 2011. Lei mi ha sostenuta con la stessa forza sia negli Anni ‘90 che dopo lo Strega. Senza di lei forse non avrei continuato a scrivere».
È così determinante avere qualcuno che crede in te?
«È importante avere lei, che ti dà energia in mille modi, anche senza accorgersi».
Nei suoi libri, come nell’ultimo «I lupi dentro», c’è quasi una nostalgia del passato.
«No, non c’entra la nostalgia: mi sembra davvero che siano stati anni migliori di oggi. Mio padre non aveva nostalgia di quando era giovane».
Chi leggerà l’ultimo libro?
«Sarà una bambina, l’ultima bambina del mondo. Ma non credo che succederà mai, perché se si perde la lettura si perde tutto».