Corriere della Sera, 29 giugno 2024
Toto sostituto: i dubbi su Harris, il fascino (e le ombre) di Newsom e la scommessa Whitmer
New York La notte del primo dibattito presidenziale è stata funestata dai peggiori incubi del partito democratico. Durante il confronto, mentre il presidente appariva stanco e confuso, i vertici del partito si sono scambiati messaggi preoccupati, in alcuni casi terrorizzati, interrogandosi sul da farsi in vista delle elezioni del 5 novembre. «Ci saranno molte discussioni sull’opportunità di lasciarlo proseguire», ha detto a caldo il guru democratico David Axelrod, l’uomo che ha contribuito all’elezione di Barack Obama e che giovedì notte dagli schermi della Cnn appariva quanto meno allarmato, e le sue parole si sono trasformate nella linea ufficiale di commentatori e analisti progressisti, da Tom Friedman a Van Jones.
Cambiare candidato a questo punto non è però così semplice e soprattutto dipenderebbe soltanto dalla volontà di Joe Biden. Che giovedì sera ha rifiutato, ancora una volta, questa opzione. I sostituti pronti a salire in corsa sul carrozzone presidenziale non sono molti, vanno ricercati fra coloro che ne hanno appoggiato la candidatura, e si dovrebbero dare battaglia per conquistare la maggioranza dei delegati lasciati da Biden. È un po’ quello che succedeva nelle vecchie convention di partito, quando il nome saltava fuori dopo lunghe trattative dietro le quinte fra la leadership, prima che l’istituzione delle primarie nel 1972 affidasse soltanto agli elettori la scelta del candidato.
L’ipotesi più concreta è che il testimone venga raccolto dalla vicepresidente Kamala Harris, 59 anni, ex senatrice della California, anche se le regole del partito non le concedono alcun vantaggio in caso Biden decidesse davvero di ritirarsi: non riceverebbe in automatico i delegati assegnati durante le primarie, ma il presidente potrebbe tentare di influenzare il processo dandole il proprio endorsement.
Harris avrebbe il vantaggio di fare già parte del ticket presidenziale, e per questo sarebbe l’unica ad avere accesso ai fondi raccolti per la campagna elettorale, ma non è considerata la scelta migliore: gli ultimi quattro anni sono stati difficili, ha ricevuto parecchie critiche e ha deluso le aspettative. Quello del vicepresidente è un ruolo ingrato – non deve creare problemi e al tempo stesso non deve offuscare la figura del leader né mostrarsi troppo desideroso di prenderne il posto – e per questo Harris si porta dietro quindi un naturale cono d’ombra che ha fatto appassire gli entusiasmi verso la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti.
Il più quotato è forse il governatore della California Gavin Newsom, 56 anni, da sempre considerato il possibile sostituto dell’ultimo minuto perché è relativamente giovane, di bella presenza e carismatico. Del suo Stato però si porta appresso i vantaggi – l’influenza politica, la riconoscibilità, i rapporti – ma anche gli svantaggi. La California è in crisi d’identità, irriconoscibile, e i repubblicani lo accusano di malgoverno per l’aumento della criminalità, dei senzatetto, dei tossicodipendenti nelle strade. È sopravvissuto a uno scandalo durante il lockdown – violò le restrizioni che lui stesso aveva imposto per mangiare in un ristorante a tre stelle Michelin nella Napa Valley – e a una «recall election» nel 2021, quando i repubblicani raccolsero oltre 2 milioni di firme in tutta la California per convocare nuove elezioni che poi vinse agilmente. Giovedì sera Newsom era ad Atlanta, e ai giornalisti ha ribadito che il partito resta con Biden. «A novembre voterò per lui».
Le stesse parole, più o meno, che ha detto Gretchen Whitmer, il terzo nome della lista, quello che forse più di tutti potrebbe rappresentare una fresca novità. La governatrice del Michigan, 52 anni, è nota soprattutto perché durante il Covid tenne abilmente testa a Donald Trump, che da Washington alimentava le proteste contro le sue restrizioni, le più rigide del Paese: celebri sono le immagini dei manifestanti armati che protestavano davanti al parlamento del Michigan. Nel 2021 fu vittima di un tentativo di rapimento: l’Fbi arrestò i membri di una milizia di estrema destra che volevano ucciderla. Finì con un bello spavento e nove condanne.
Ci sono poi alcuni nomi in seconda fila – il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, quello dell’Illinois J.B Pritzker, il deputato della California Ro Khanna, tutti in posizione più defilata – e l’eterna suggestione di Michelle Obama, rilanciata dai giornali e respinta più di una volta dalla stessa ex first lady: non ha alcuna intenzione, sostiene, di tornare alla Casa Bianca.