Corriere della Sera, 29 giugno 2024
Le bugie di Trump
Nello spettacolo inverecondo del dibattito dell’altra notte Donald Trump ha fatto la cosa che gli riesce meglio da 78 anni a questa parte, cioè essere Donald Trump: la cravatta rossa, il ciuffo arancione, il broncio con gli angoli della bocca all’ingiù ispirato alla famosa posa da bulldog di Winston Churchill lungamente studiata allo specchio, il tono di voce smargiasso affinato in decenni di lavoro prima da palazzinaro e poi da star di un reality dove licenziava malcapitati a destra e a manca.
È il genio americano della «consistency»: ogni McDonald’s del mondo ha il Big Mac, ogni albergo della Hilton – dall’Arabia al South Dakota – rassicura con la sua americanità. È la realtà del branding e infatti Bill Clinton, tristemente inascoltato nel 2016 dagli strateghi della moglie, disse da subito di Trump: «È un maestro del branding».
Ecco allora il Brand Trump (che da una vita appiccica su tutto: palazzi, hotel, casinò, bistecche, università) in azione, come sempre. I contenuti, in tv, non necessariamente contano, e nessuno lo sa meglio di una star dei reality; quando l’avversario di tre anni più vecchio che ne dimostra tredici di più incespica sulle parole, poi, i contenuti scompaiono (esercizio interessante, leggere il testo della trascrizione del dibattito: sicuri che in quel caso Trump stravinca su Biden?).
Certo è stato il primo dibattito nel quale un candidato ha definito l’altro «un criminale» e non era un insulto ma un dato di fatto (34 capi d’imputazione, 34 volte «colpevole»), ma non se n’è accorto nessuno.
Trump ha fatto Trump. Quando le domande non gli piacciono non risponde, come ha fatto su un tema importante come la pillola abortiva, il mifepristone: gli hanno chiesto se da presidente dirà alla Fda, ente regolatore dei farmaci, di metterla fuori legge, e lui ha cambiato discorso (e i moderatori del dibattito, che temevano i soliti insulti tra «fake news» e «nemici del popolo», silenti) perché la prima regola è rispondere alla domanda che vuoi che ti facciano, non a quella che ti fanno.
Per il resto, la consueta gragnuola di bugie: come il rapper Eminem sciorina rime a velocità sovrumane, così Donald Trump dice cose palesemente false a raffica sapendo che non soltanto è impossibile la verifica dei fatti – il mitologico fact-checking del quale si vanta il Paese che poi però propone al mondo il duello Trump-Biden – ma è inutile.
E allora eccolo accusare i democratici di praticare aborti anche dopo la nascita, cioè l’infanticidio («Il governatore della Virginia strappa i bambini dal grembo della madre al nono mese e li uccide»), classico horror da ambienti antiabortisti americani più estremi e ovviamente falso (meno dell’1% degli aborti negli Stati Uniti vengono eseguiti oltre la 21esima settimana, e soltanto a causa di anomalie fetali o altri motivi di pari gravità, e nessun aborto avviene «dopo la nascita»).
Sulla sentenza della Corte Suprema (3 membri su 9 scelti da Trump), che ha cancellato il precedente che rese legale nel 1973 l’aborto, Trump ha detto che «tutti la volevano togliere» quando in realtà i sondaggi unanimi ne davano la popolarità intorno al 70%, con maggioranza leggermente oltre il 50% tra i repubblicani. Anche qui, peraltro, nel silenzio tombale dei moderatori.
E poi in ordine sparso: ha detto che «praticamente» nessun migrante attraversava il confine quando c’era lui alla Casa Bianca, cosa non vera perché nel 2020 era presidente e gli arrivi sono aumentati nettamente proprio in quell’anno (anche se l’immigrazione resta il principale tallone d’Achille di Biden che sta cercando tardivamente di correre ai ripari), e ha aggiunto che c’è una «crime wave», un’ondata di crimine, per colpa dei migranti (altra cosa non vera) voluti dal presidente Biden.
Sul tentato golpe del 6 gennaio 2021, quando i suoi elettori assaltarono il Congresso cercando di impedire la certificazione legale della vittoria di Biden, ha incolpato la democratica Nancy Pelosi allora speaker della Camera, che avrebbe rifiutato l’intervento della Guardia Nazionale: cosa non vera, e comunque Pelosi non avrebbe avuto il potere legale di rifiutare.
Ha anche detto di aver firmato il più grande taglio delle tasse nella storia (in realtà è il quarto più grande dal 1940, e ha creato più di ottomila miliardi di dollari di debito) e che sotto la sua presidenza c’era «la più grande economia della storia», ma ai tempi di Bill Clinton (1993-2001, che però in televisione è un’era geologica fa) si registrò meno disoccupazione e più crescita.