Corriere della Sera, 29 giugno 2024
In morte di Silvia
«Era la sera del match Italia-Spagna. Nel momento in cui sono cominciati gli inni nazionali Silvia è spirata». Marco Nosotti, giornalista sportivo di Sky, racconta la morte della moglie per una grave malattia. Era sposato da ventotto anni. «Sono tornato al lavoro per lei». Prima della partita contro la Croazia, il c.t. Luciano Spalletti lo ha abbracciato.
Q uando Luciano Spalletti lo ha abbracciato, prima che la partita con la Croazia iniziasse, Marco Nosotti, popolare giornalista sportivo di Sky, è scoppiato a piangere. Sono stati giorni drammatici per lui. Giorni che gli ho chiesto di raccontare, da Dortmund.
«Mia moglie Silvia, con la quale ero sposato da ventotto anni, è morta una settimana fa. Stava male da tempo. Tutto è cominciato alla fine degli altri campionati europei, quelli che l’Italia vinse. Tornai a casa, a Formigine, vicino Modena, e lei mi disse che dalle analisi risultava che era malata di leiomiosarcoma, un tumore dei tessuti molli. Mi disse “adesso togliamo tutto e vediamo cosa succede”. Purtroppo c’è stata la recidiva e si è ripresentato. Da lì è cominciata la sua battaglia, la nostra battaglia. Abbiamo vissuto quello che vivono tutte le persone, le coppie e le famiglie che hanno a che fare con malattie gravi. Silvia ha affrontato la chemioterapia e le sue conseguenze. Ha sofferto molto e la situazione è precipitata negli ultimi quattro mesi. Era diventata solo una battaglia contro il dolore. Il dolore oncologico e quello neuropatico. Il dolore la colpiva sul nervo sciatico ed erano sempre meno i momenti di serenità e sempre più quelli di sofferenza. Ho chiesto a Sky di lavorare vicino a casa, in quel periodo. C’erano da fare le notti, con lei. Ha voluto restare a casa, nella sala, per partecipare alle cose della vita di tutti e noi abbiamo tenuto sempre aperta la nostra abitazione. Venivano le amiche, le colleghe, la gente le voleva bene. Lei era stata la maestra del paese, poi anche un’allenatrice di pallavolo, l’unico sport che le piacesse davvero.
Dopo la prima partita della nazionale, quella con l’Albania, le cose sono precipitate. Ho fatto il collegamento la domenica mattina e sono tornato a casa. Sono stati giorni terribili e magnifici, abbiamo condiviso anche l’ultimo passaggio, come avevamo fatto per tutti i giorni di trent’anni della nostra vita. Ci siamo detti le cose che dovevamo dirci. Lei è morta il 20 giugno.
Era la sera di Italia Spagna, e ci stavamo preparando a vederla insieme, facendo finta che tutto fosse normale. Quella sera, prima che iniziasse la gara, Federica Masolin, dallo studio, mi ha mandato un abbraccio chiudendo la trasmissione. Mio figlio mi ha suggerito di dirlo alla mamma, ma nel momento in cui sono cominciati gli inni nazionali Silvia è spirata.
Ricordo che poco prima, tra un’iniezione e l’altra, il suo sguardo si era fatto di nuovo vivo e presente. Mi ha quasi chiamato a sé. Non poteva parlare, ma lo faceva con gli occhi. Le ho giurato amore per sempre e lei mi ha risposto con un bacio appena accennato, era troppo debole. Poi è tornata nel buio del suo dolore. Quella notte è stata, non sembri un paradosso, una notte intensa, bella. Una notte di ricordi, di profondo dolore e di condivisione, di incontro tra tutti noi. Lei che non c’era più e noi, io e i nostri due figli, che la sentivamo ancora più dentro di noi. Lei era consapevole di quello che l’attendeva, mi disse che le dispiaceva per i suoi figli e per i suoi alunni, ha affrontato quella prova con consapevolezza e, se possibile, serenità. Era preoccupata per il mio lavoro, che considerava importante e che rispettava.
Noi ci siamo conosciuti all’inizio degli anni Novanta. Io ero stato già sposato, lei era in una grande famiglia tradizionale. Faceva volontariato, ricordo che andò a Timor Est per dare una mano. E fino a lì non si era mai spinta fuori Modena. Una sera sono andato a prenderla, dopo un allenamento delle sue ragazze di pallavolo, e siamo andati a vedere “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”. Lei aveva sei anni meno di me, mi accompagnava quando andavo a seguire le partite di pallavolo, con la mia macchina da scrivere Lettera 32.
Poi mi trasferirono a Milano ma io cercavo sempre di tornare a casa. Ho viaggiato tante volte di notte, per non stare fuori. Ma non mi pesava. Se mi ripenso nello specchietto retrovisore, mi vedo con un sorriso. Mi piaceva, mi divertiva tornare da lei.
I miei colleghi di Sky sono stati sempre straordinari, siamo una comunità, più che una redazione. Al termine dei funerali il direttore, Federico Ferri, mi ha detto che avrei potuto fare quello che volevo. Restare a casa o tornare al lavoro. Mio figlio, eravamo sul sagrato della chiesa, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto che era giusto andassi, che la mamma avrebbe voluto facessi così. Io ero combattuto, ma il gesto di Giulio mi ha convinto. Come le parole di Margherita sulla forza del rapporto tra Silvia e me, un rapporto che a lei era sembrato sempre unico, inossidabile.
Avevo lasciato un lavoro a metà, in Germania, e a Silvia non sarebbe piaciuto. E poi lavorare aiuta a non restare inchiodati al dolore, a non farsi risucchiare. Il lavoro è riscatto, è sentirsi utili, è condividere con altri. Nessuno è indispensabile, certo. Ma ho un’idea, forse una illusione, del mestiere di giornalista che ha a che fare con l’etica. Mi sarebbe sembrato di fuggire, di lasciare gli altri, di nascondermi. Allora ho accettato.
Quando sono tornato qui ho avuto una vertigine. Ero un uomo diverso, rispetto alla settimana prima, dovevo incollare i pezzi di me stesso e ripartire. Non sapevo se ce l’avrei fatta. Il mio antico direttore, Massimo Corcione, mi ha insegnato che “non si lascia mai una notizia a metà”, io sentivo, o forse mi dicevo, che il mio dovere era servire la comunità di chi lavorava con me, e quella degli spettatori e che dunque dovevo continuare a testimoniare. E ora lo facevo con il mio fardello di dolore, che forse mi avrebbe reso più consapevole, più lucido.
Noi giornalisti raccontiamo storie di persone e lo facciamo per le persone. Io sono un giornalista da marciapiede, ho fatto la gavetta, ma ho imparato che il giornalismo è una cosa seria. Si è testimoni, si racconta, si mette in relazione ciò che accade con le persone che vogliono sapere. È qualcosa di importante, è una responsabilità. Vincenzo Mollica mi ha detto sempre che l’essenza del nostro lavoro è il rispetto. Rispetto della verità, rispetto delle persone di cui ti occupi, di quelle a cui racconti. Per aiutare gli altri a farsi un’idea tu devi essere onesto. Anche se parli di sport e non di economia, se ti occupi di un fatto di cronaca e non di politica internazionale.
Lo sport è un gioco, ma va raccontato in modo serio. È un mestiere che non si può fare con la mano sinistra, a intermittenza, con orario d’ufficio. Lo devi fare con tutto te stesso, in primo luogo con coscienza: bisogna prendersi cura delle cose che si raccontano. Nello sport ti capita di partecipare di gioie per le quali non hai merito o di dolori che non ti riguardano direttamente. Ma è il tuo lavoro, parte importante della tua vita.
Raccontare, in questi giorni, mi ha aiutato a non sprofondare. Come l’affetto di tante persone, qui. Dei giocatori, dei colleghi, dei tifosi che incontro per strada. E poi quell’abbraccio di Luciano Spalletti, prima di Italia Croazia. Non me l’aspettavo. In quel momento non eravamo più il ct della nazionale e il giornalista che deve parlare di lui. Eravamo due esseri umani. Siamo nati nella stessa zona, nello stesso anno, io l’ho visto giocare e poi iniziare ad allenare. Lui aveva saputo della malattia di Silvia perché ero mancato a una partita della nazionale, nei mesi scorsi. Da allora si era preoccupato, e mi chiedeva di lei. Luciano è una persona con un cuore vero e in tutto mette passione e umanità. E poi conosce il dolore, ha molto sofferto per la morte di suo fratello Marcello. Quando l’ho intervistato, alla fine di Italia Albania, sapevo che quella data coincideva con il compleanno di suo fratello, ma non gli ho chiesto nulla, non mi sembrava opportuno. Lui alla fine, dicendo solamente “Auguri Marcello”, ha fatto capire dove era andato il suo pensiero, in quella serata di gioia. Gli sarò sempre grato per quell’abbraccio, che per un momento, solo per un momento, ha fatto cadere la giusta distanza tra un giornalista e una, anche nel calcio, autorità.
Io ho bisogno ora di ricordare, ho una gran voglia di risentire la voce di Silvia, non voglio dimenticarla, mai. Lei voleva sempre che fossi chiaro, asciutto, senza fronzoli, nel raccontare. Mi raccomandava, da maestra, di limitare le incidentali e di andare al sodo.
Prima che partissi per Dortmund mi ha detto “vai tranquillo, fai il tuo mestiere, io ti guardo in tv”.
Ecco. Quello del giornalismo è un mestiere, più che un lavoro. È una cosa importante, antica. Fatta non solo di tecnica, ma, soprattutto, di etica e di umiltà. Per questo ora sono qui, col mio dolore, per raccontare ciò che vedo».